È un gomitolo di fili letterali e letterari quello che dà forma alla trama di Uvaspina, romanzo d’esordio di Monica Acito. I fili letterali sono quelli che reggono la relazione tra i due fratelli protagonisti: Carmine, detto Uvaspina, di 19 anni, e Filomena, detta Minuccia, di 17, che insieme formano un dittico complementare, quasi gemellare. Minuccia tiene dentro di sé lo strummolo, in napoletano trottola, una spinta centrifuga che muove dalle sue viscere e che, alla parola sbagliata pronunciata nei suoi confronti, travolge lei e quelli che le stanno attorno. I fili letterari sono altrettanto vitali in questo romanzo, nella cui scrittura italiano e dialetto napoletano ora convivono ora si compenetrano. Sono fili che fin dal titolo e dagli ambienti brillano di quelle luminescenze queer di opere poetiche e romanzesche ben note: il personaggio della principessa saracena Fiordispina, che nell’Orlando furioso prima si innamora di Bradamante, quindi del fratello gemello Ricciardetto, che a lei si presenta come transgender; le avventure isolane di Wilhelm Gerace, che nella Procida morantiana è il biondo animatore della Casa dei guaglioni; la figliata dei femminielli, raccontata e svillaneggiata nella Pelle di Curzio Malaparte.
Uvaspina appartiene a quella «razza» di creature non conformi ridotte all’ombra, ai vicoli, alle cripte, che nella sua Napoli non mancano, criaturielli, anche in senso anagrafico, che tuttavia hanno saputo costruire una loro controtradizione (un gruppo di femminielli tra l’altro partecipò alla liberazione della città nel settembre del 1943 prima dell’intervento alleato). Il personaggio di Uvaspina, però, non ne è consapevole; la visione e il linguaggio a cui è esposto gli arrivano deformati dal bullismo e dall’omofobia sia in famiglia sia a scuola, con l’eccezione della compagna di classe Teresa la Storcia, ragazza con disabilità motoria che con Uvaspina sigla un’alleanza intersezionale.
Con la sorella Minuccia il rapporto odio-amore arriva a prefigurare, nell’osservazione del chiummo disciolto la notte di san Giovanni, un possibile triangolo sentimentale, quella figura geometrica che svela le contraddizioni e opacità della coppia tradizionale. E allora ci vengono incontro altre due autrici napoletane: la Matilde Serao di Fantasia (due ex compagne di collegio innamorate dello stesso uomo) e la Elena Ferrante dell’Amica geniale (Lila e Lenù alle prese con Sarratore junior). Il terzo vertice del triangolo qui si chiama Antonio, un guappo autodidatta che non si considera femminiello e che, tra ambizioni opportunistiche e viltà, farà la parte dell’eroe epico: una volta sperimentate le gioie del piacere e i loro cunti, ritornare alle meschinità dei doveri, all’eteronormatività, ai conti.
Antonio ha però un ruolo nell’educazione sentimentale di Uvaspina, che piano piano si scopre. Rifugiatisi insieme nelle catacombe della chiesa di Santa Luciella ai Librai, Uvaspina e Antonio (quest’ultimo caratterizzato da una fascinosa eterocromia) si guardano attraverso un vecchio specchio:
Uvaspina si vide nello specchio. Si vide. Bianco, nel suo involucro. Semino per semino. Con le costole che si muovevano al ritmo del cuore. Con la buccia di frutto lacerata e sfondata. Si vide, e allora alzò gli occhi e lo vide anche Antonio. Guardò Antonio, e non disse una parola. In quel momento a Uvaspina fu chiaro che cosa doveva dire, e cosa aveva dimenticato. (p. 153)
Sempre davanti a uno specchio, a casa, nella camera matrimoniale dei genitori, Uvaspina si guarda dopo essersi truccato «e aveva visto se stesso prendere vita» (p. 169). La presenza dello specchio ci riporta al racconto tassiano dedicato alla passione travolgente tra l’eroe Rinaldo e la maga Armida, il cui giardino rappresenta quell’alternativa pacifica e goduriosa al sangue del campo di battaglia.
Rinaldo, come un servitore qualunque, regge lo specchio in cui Armida riflette le mille sfumature del proprio sé, mentre l’eroe si contempla negli occhi stessi di lei e, in seguito, si riscuote vedendo la propria immagine riflessa nello scudo. Il gioco di sguardi, che avviene nella cornice edonistica del giardino, segna il possibile trapasso, la transizione del maschio guerriero verso quella sfera femminile autonoma e indipendente che la mentalità epico-cavalleresca considerava minacciosa e perciò puniva.
L’atto dello specchiarsi deriva dall’antico mito di Narciso, quel mito che, malamente manipolato, è stato per molto, troppo tempo alla radice dell’interpretazione psicoanalitica dell’omosessualità: l’individuo gay come adolescente ripiegato su di sé, incapace di maturare, di guardare oltre, di aprirsi all’incontro con l’Altro, con un individuo del sesso opposto. Contro questi deliri, sostenuti da illustri specialisti, nacquero negli anni Settanta del Novecento i primi movimenti rivoluzionari di liberazione omosessuale, come il Fuori!, a Torino, nel 1971; in quell’anno era uscito sulla «Stampa» l’ennesimo articolo «terapeutico», dal titolo L’infelice che ama la propria immagine, sulla possibilità di trattare con la psicoanalisi il sedicente narcisismo di un paziente gay.
Allo specchio rivelatore si affianca in Uvaspina la lettura di libri sfogliati o comprati sulle bancarelle dell’usato, in particolare le raccolte del poeta napoletano Salvatore Di Giacomo, che gli fanno leggere il suo dozzinale e triste quotidiano in una prospettiva diversa. E quando finalmente arriva la presa di consapevolezza, a Uvaspina serve uno sforzo enorme per non soccombere al gravame del pregiudizio e dell’esclusione marginalizzante a cui portano le definizioni inventate dai «normali»:
Quando Uvaspina pronunciò la parola femminiello, sentì dell’olio che gli colava lungo il palato: era una parola oleosa, che puzzava in bocca e che sapeva dell’alito dei suoi compagni di classe. Aveva parlato col fiato dei suoi compagni, aveva indossato la loro lingua sozza e fetente e s’era bevuto l’olio grasso e sporco delle loro parole, per non ammettere che non c’era nessuna sfaccimma di termine e vocabolo mai inventato da nessun cristiano per definire che specie di animale fosse veramente lui. Soltanto una cosa rimaneva sempre precisa ed esatta: lo stesso cappio di scuorno fetente che gli gravava sul collo, la fune che lo costringeva a guardare sempre fisso per terra. (p. 226)
Una fitta rete di connessioni mitologiche e folkloriche pervade il romanzo di Acito, che presenta le vicende e gli ambienti nello specchio dei cunti. Così Procida rimanda alla nutrice di Enea ivi sepolta; Palazzo Donn’Anna torna il luogo d’elezione della viceregina Anna Carafa; la natura anfibia della città di Napoli è evocata attraverso il mito della sirena Partenope, dell’uovo di Virgilio, delle streghe del Vesuvio, fino alle ricorrenze religiose, come la processione dei battenti di Guardia Sanframondi, nel Beneventano, i quali si colpiscono fino a sanguinare copiosamente. Il paesaggio acquista un corpo, che raddoppia, triplica, quadruplica, attraversato sia da sentimenti di vitalità e allegria spensierata, infantile, sia da morbi fisici e mentali, senili, come ancora nella Pelle di Malaparte (capitolo I: La peste).
La dimensione corporea di individui e ambienti consente poi una riflessione sull’ambiguità dei legami familiari, quelli di sangue, che l’ultima Michela Murgia ci ha insegnato a porre su un piano non secondario rispetto a quelli queer, d’elezione. Uvaspina è certamente legato in tutti i sensi alla sorella Minuccia, fino a sottomettersi alle giravolte improvvise e logoranti dello strummolo (che, gli specchi, li distrugge); riconosce di avere con lei un rapporto di vicinanza, di telepatia e anche di dipendenza, e le loro vicende si richiamano lungo tutto il romanzo: se però Uvaspina si affida alla letteratura, al mito e allo specchio con l’aiuto di Antonio, Minuccia si affida alle malie, alla formule stregonesche e all’acqua del malocchio con l’aiuto di Nunzia Culo Stuorto.
Minuccia è il frutto in miniatura della madre Graziella detta la Spaiata, che dopo le glorie della sua attività di prezzolata e il matrimonio con il figlio di un notaio, il padre di Uvaspina e Minuccia, è una donna in crisi, a sua volta bollata come strega e maliarda. Nessuno aiuta davvero la Spaiata e la sua irruenza, anche linguistica, come il trucco e il vizio del fumo, è solo la maschera che copre un vuoto disperante. Accanto a lei, il marito, Pasquale Riccio, sempre chiamato per nome e cognome con una ricorrenza anche questa epicheggiante: un uomo piccolo, traditore, pressapochista, che interverrà nei confronti dello strummolo non per senso di protezione ma per calcolo. E Antonio che, entrato nelle vite di tutti i membri della famiglia Riccio, sembrava investito di quel ruolo angelico ricoperto dall’«ospite» del pasoliniano Teorema, si piegherà docilmente alla volontà del suocero.
Difficile assegnare al romanzo un’epoca precisa di ambientazione. La stratificazione mitologica e letteraria ne fa una quasi fiaba (quasi perché il sedicente principe azzurro non è aristocratico, non ha occhi né vestiti blu, non è indomito, non è anonimo, e perché le principesse sarebbero due) quasi senza tempo, senza smartphone, senza appuntamenti via app, solo qualche telefonata. Ci sono le automobili, ci sono le tinte per capelli, c’è l’ospedale psichiatrico (ex manicomio) Leonardo Bianchi in dismissione, quindi si potrebbe azzardare la fine degli anni Novanta o i primi Duemila, a rappresentare la storia che penetra e disintegra le illusioni della fiaba. La stessa autrice confessa di essersi presa delle libertà cronologiche, appellandosi ad Anna Maria Ortese, che così introduceva la nuova edizione (Adelphi, Milano 1994) del Mare non bagna Napoli:
Ebbene, la scrittura del Mare ha un che di esaltato, di febbrile, tende ai toni alti, dà nell’allucinato: e quasi in ogni punto della pagina presenta, pur nel suo rigore, un che di «troppo»: sono palesi in essa tutti i segni di una autentica «nevrosi». Quella «nevrosi» era la mia. […] Da molto, moltissimo tempo, io detestavo con tutte le mie forze, senza quasi saperlo, la cosiddetta realtà: il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Questa realtà era per me incomprensibile e allucinante. (pp. 9-10)
La «nevrosi» con cui Ortese analizzava la «realtà allucinante» della Napoli del secondo dopoguerra alimenta, in Acito, una scrittura cangiante, che riflette il carattere polimorfo dei personaggi e delle loro storie, ne è lo specchio. Senza narcisismo.