L’italiano al voto

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Tempo di elezioni. Gli italiani si preparano ad andare al voto. E l’italiano? Un decalogo per osservare criticamente la lingua della politica alla luce dei risultati linguistici dell’ultima tornata elettorale.

Tempo di elezioni. Gli italiani si preparano ad andare al voto. E l’italiano? Un decalogo per osservare criticamente la lingua della politica alla luce dei risultati linguistici dell’ultima tornata elettorale.

Nel 2008 è uscito, per i tipi dell’Accademia della Crusca e per le cure di Roberto Vetrugno, Cristiana De Santis, Chiara Panzieri e Federico Della Corte (con una premessa di Massimo Fanfani  e Nicoletta Maraschio), il volume collettaneo L’italiano al voto, frutto di una ricerca promossa dall’Accademia della Crusca e dal CLIEO di Firenze, e realizzata da un gruppo di giovani studiosi delle Università di Bologna, Firenze, Pavia, Lecce, Roma, Milano, Siena, Palermo, Trento. Il volume, che si compone di 20 saggi e 10 interviste (a linguisti e responsabili della comunicazione politica), prende in esame la lingua usata dai politici e dai giornalisti sulla base di articoli, dibattiti radiofonici e televisivi, interviste, dichiarazioni, spot, manifesti, blog che hanno animato la campagna per le elezioni politiche del 2006.

Dal recente passato, ecco alcune chiavi per guardare criticamente alla comunicazione politica del presente.

1. Semplificazione (lessicale e sintattica). I politici parlano in modo informale, come noi; la politica si vuole argomento da bar. È quello che Giuseppe Antonelli ha efficacemente sintetizzato con la formula: passaggio dal “paradigma della superiorità” (esemplificata dal politichese: l’“antilingua” denunciata negli anni Sessanta da Pasolini e Calvino) al “paradigma del rispecchiamento”.

2. Affettività. I politici puntano direttamente al cuore, alla pancia degli italiani. Rinunciano agli intellettualismi in nome dell’emotività, secondo uno stile inaugurato vent’anni or sono dalla famosa “discesa in campo”.

3. Neodialettalità. Frequenti le concessioni dei politici a termini ed espressioni prelevati dagli italiani regionali o dai dialetti, in nome non solo degli impulsi autonomistici, ma anche dell’espressività colloquiale.

4. Turpiloquio. I politici e i commentatori politici non rinunciano a parole ed espressioni che scadono facilmente nella volgarità in nome della franchezza.

5. Tecnicismo dei numeri. La lingua dell’economia si insinua nel parlato informale dei politici, che sciorinano dati e cifre (della crisi, delle tasse, della disoccupazione, dello spread che avanza) per ancorare il loro discorso a dati di realtà, più che per chiarire le modalità di applicazione delle (generiche) riforme proposte.

6. Immaginario metaforico. Vince ancora la metafora calcistica, o bellica? Si parla, ossessivamente e trasversalmente, della competizione elettorale come se fosse una partita di calcio, una battaglia?

7. Spettacolarizzazione. Enfatizzata dai dibattiti televisivi, che mettono in scena una contrapposizione schematica e radicale tra le parti:  positivo/negativo, vecchio/nuovo, cambiamento/continuità, verità/menzogna, corruzione/moralità…

8. Velocizzazione. In tempi di campagne rapide, il tempo a disposizione è poco. Vince la rapidità, la battuta a effetto, spesso sul finale.

9. Seduzione. Il rischio del potere seduttore, denunciato da anni dai maestri del pensiero moderno e postmoderno, è sempre dietro l’angolo, dietro la porta.

10. Politicamente corretto o scorretto? Come si parla delle donne, per esempio? Si scade facilmente nello stereotipo, a destra come a sinistra? Giudichesse e bidelle chiedono vendetta. Certo che, se le donne per prime urlano vaiassa

E i programmi? Sotto lo strato di vernice lucida – ben stesa, per mantenere viva l’illusione e la promessa elettorale – qualcosa (di nuovo?), forse.

Sperando di non dover dar retta, ancora una volta – e nonostante il tramonto del “politichese” (ma non di certo sinistrese) – a George Orwell: «la lingua politica – che, con delle variazioni, è comune a tutti i partiti politici, dai conservatori ai progressisti – è concepita per fare apparire verosimili le menzogne […], e per dare un aspetto di solidità alle mere chiacchiere» (1946).

Per una panoramica del linguaggio della politica si rimanda alla sintesi di Paola Desideri.

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