L’immagine del museo al cinema #3

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In due articoli precedenti (L’immagine del museo al cinema #1 e L’immagine del museo al cinema #2) abbiamo visto come le sale dei musei siano state spesso utilizzate, in modi diversi, nelle scene cinematografiche.
Goldie Hawn e Walter Matthau al Guggenheim in “Cactus Flower” di Gene Saks, 1969 (dal sito del Guggenheim)

Alcuni registi hanno dimostrato una particolare sensibilità verso questa ambientazione, e alcuni musei si sono particolarmente prestati alla messa in scena. Fra i registi vanno sicuramente nominati Alfred Hitchcock e Woody Allen, che in Midnight in Paris (2011) ha introdotto anche il Musée de l’Orangerie e il battibecco fra il protagonista e la guida Carla Bruni al Musée Rodin.

Per quanto riguarda i musei, oltre al Metropolitan Museum of Art di New York, frequentemente utilizzato come location per il cinema, anche il Guggenheim si è spesso prestato alla narrazione cinematografica. Molte sequenze ci riportano nelle sale del museo: oltre ai già citati Manhattan di Woody Allen (1979) e Three Days of the Condor (I tre giorni del Condor) di Sydney Pollack (1975), possiamo ricordare Bye Bye Birdie (Ciao ciao Birdie) di George Sidney (1963), Such Good Friends (Ma che razza di amici!) di Otto Preminger (1971), la bella commedia Cactus Flower (Fiore di cactus) di Gene Saks (1969), con Ingrid Bergman, Walter Matthau e Goldie Hawn, e tutta una serie di film che possiamo scoprire direttamente dal sito del Guggenheim (Nat Trotman, Visiting the Guggenheim through Hollywood’s Lens). Negli anni Ottanta, in particolare, con Someone to Watch Over Me (Chi protegge il testimone) di Ridley Scott (1987) e She-Devil di Susan Seidelman (1989), con Meryl Streep e Roseanne Barr, il Guggenheim riuscì a riflettere il crescente divario fra le classi sociali e la progressiva percezione del museo come un luogo esclusivo, riservato a una ristretta cerchia di persone.

A Londra, il British Museum, spesso scenario di mystery thriller, è stato frequentemente scelto per l’ambientazione cinematografica e si propone, nel sito ufficiale del museo, come scenografia per film, documentari, pubblicità e trasmissioni radiofoniche (Filming at the British Museum). Se in Blackmail (Ricatto) di Alfred Hitchcock (1929) e in Bulldog Jack di Walter Forde (1935), il museo era stato ricostruito in studio, in molti altri film le scene sono state girate all’interno del museo, e in particolare nella Reading Room. È il caso, ad esempio, di The Ipcress File (Ipcress) di Sidney J. Furie (1965) con Michael Caine spia britannica, e di The Day of the Jackal (Il giorno dello sciacallo) di Fred Zinnemann (1973), tratto dal romanzo di Frederick Forsyth: «Come ultima risorsa, andò nella sala di lettura del British Museum e, dopo aver firmato con il solito nome falso il modulo di richiesta, cominciò a sfogliare le copie arretrate del più importante quotidiano francese, “Le Figaro”».

Anthony Perkins al British Museum in “Phaedra” di Jules Dassin, 1962, dal sito She Blogged By Night

Il caso di Phaedra (Fedra) di Jules Dassin (1962) presenta una prospettiva interessante. Nel film, Melina Mercouri, futura moglie del regista, incontra Anthony Perkins fra i marmi del Partenone, arrivati a Londra al seguito del diplomatico britannico Lord Elgin all’inizio del XIX secolo, quando la Grecia era sotto la dominazione ottomana. Acquistati dal governo e collocati al British Museum, è dalla fondazione del moderno Stato greco, nel 1832, che il paese ne chiede la restituzione, sempre rifiutata dal British che li considera ormai acquisiti alle proprie collezioni e ne sottolinea il valore di patrimonio universale. Attrice e politica greca, Melina Mercouri per anni ha capeggiato la battaglia per la restituzione dei marmi alla Grecia, anche nella sua veste di ministro della Cultura negli anni Ottanta del Novecento. Nell’ambito di un incontro organizzato dall’Oxford Union, nel 1986, dichiarò: «Dovete capire cosa rappresentano i Marmi del Partenone per noi. Sono il nostro orgoglio. Sono i nostri sacrifici. Sono il nostro più nobile simbolo di perfezione. Sono un tributo allo spirito democratico. Sono le nostre aspirazioni e il nostro nome. Sono l’essenza stessa della grecità».

È fra le sculture assire del British Museum che si incontrano, invece, i protagonisti di Maurice di James Ivory (1987), basato sull’omonimo romanzo di Edward M. Forster. Fra i film ambientati nel museo, alcuni dei quali già citati nei precedenti articoli, possiamo inoltre ricordare Tale of the Mummy (Talos. L’ombra del faraone) di Russell Mulcahy (1998), The Mummy Returns (La mummia – Il ritorno), di Stephen Sommers (2001), Possession (Possession. Una storia romantica), di Neil LaBute (2002), con Gwyneth Paltrow e Aaron Eckhart, e Night at the Museum: Secret of the Tomb (Notte al museo – Il segreto del faraone), di Shawn Levy (2014), terzo e ultimo film della serie iniziata con Una notte al museo (2006).

“Francofonia” di Aleksandr Sokurov, 2015

Anche il Louvre ha un’incredibile serie di film ambientati nelle sue sale, reali o ricostruite in studio. In questa panoramica non ci occupiamo di documentari, ma citiamo comunque La Ville Louvre di Nicolas Philibert (1990) e Une visite au Louvre di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (2004). Ne La Ville Louvre scopriamo il brulicare di vita che c’è dietro le quinte del museo, fra conservatori, restauratori, operai, custodi e addetti alle pulizie. Il film era stato girato in occasione della riapertura del museo dopo il periodo di ristrutturazione degli anni Ottanta e la realizzazione della grande piramide di vetro. In Une visite au Louvre, invece, realizzato su commissione del Musée d’Orsay, ripercorriamo la visita al museo di Paul Cézanne attraverso il racconto del giovane poeta e critico d’arte Joachim Gasquet. Un approfondimento a parte meriterebbe Le Louvre sous l’Occupation (Francofonia) di Aleksandr Sokurov (2015), che fa rivivere la storia del Louvre durante la Seconda guerra mondiale alternando ricostruzioni cinematografiche a immagini e spezzoni d’epoca: «Chi vorrebbe una Francia senza Louvre o una Russia senza Ermitage? Chi saremmo noi senza i musei?».

Audrey Hepburn al Louvre in “Funny Face” di Stanley Donen, 1957 – Photograph Paramount/Sportsphoto Ltd/Allstar

Al Louvre sono stati girati, fra i tanti film che si potrebbero citare, The Age of Innocence (L’età dell’innocenza) di Martin Scorsese (1993) con Michelle Pfeiffer e Daniel Day-Lewis, e Les Amants du Pont-Neuf (Gli amanti del Pont-Neuf ) di Leos Carax (1991), con la visita notturna di Juliette Binoche al museo; Visages (Face) di Tsai Ming-liang (2009) e Funny Face (Cenerentola a Parigi), di Stanley Donen (1957), con Fred Astaire e Audrey Hepburn che sfila con gli abiti di Givenchy davanti alla Nike di Samotracia. Senza dimenticare Mr. e Mrs. Bridge di James Ivory (1990), con Paul Newman e Joanne Woodward, una coppia americana che non riesce più a comunicare, in viaggio in Europa. Il Louvre li vedrà aggirarsi fra le sale seguendo i propri pensieri, ognuno con la propria solitudine.

Particolarmente famose sono le scene girate all’interno del Louvre di The Da Vinci Code (Il Codice da Vinci) di Ron Howard (2006), con Tom Hanks e Audrey Tautou, tratto dal best seller di Dan Brown uscito nel 2004. A seguito del successo commerciale del libro, la statunitense Columbia Pictures acquisì i diritti per la sua trasposizione cinematografica. Il film venne girato fra Parigi, rappresentata dal Louvre e dalla Basilica di Saint Sulpice, Londra, con l’Abbazia di Westminster, e la Scozia, con la Cappella di Rosslyn. I tre paesi collaborarono per creare un progetto di marketing unitario che sfociò nella creazione di un sito in sette lingue, con tutte le indicazioni per organizzare un viaggio alla scoperta delle location del film. Anche le agenzie di viaggi si organizzarono per rispondere alle richieste dei turisti e programmare escursioni nei luoghi della storia. Caso emblematico, dopo l’uscita del film, il Louvre, già fra i musei più visitati del mondo, riuscì a incrementare ulteriormente il numero dei visitatori con il record di 7,5 milioni. Questo è un esempio tipico del fenomeno del cineturismo, film-induced tourism, quel turismo incoraggiato dalla visione di un film o di una serie televisiva, che invoglia gli spettatori a ripercorrere i luoghi delle riprese. I problemi possono sorgere se l’immagine cinematografica si sovrappone troppo a quella reale, snaturando l’identità di un sito o di un territorio. È il caso, ad esempio, del castello di Agliè in Piemonte, che i turisti identificavano con quello di Elisa di Rivombrosa, casata mai esistita, dalla omonima serie televisiva italiana trasmessa dal 17 dicembre 2003 al 1º dicembre 2005.

Tom Hanks e Audrey Tautou al Louvre in “The Da Vinci Code” di Ron Howard, 2006

Ritroviamo il professore Robert Langdon, interpretato da Tom Hanks, protagonista del Codice da Vinci e di Angeli e Demoni, anche in Inferno, sempre di Ron Howard (2016) e tratto dall’omonimo romanzo di Dan Brown, ambientato in alcuni luoghi famosi di Firenze, e in particolare agli Uffizi. L’utilizzo di un museo di tale importanza come set cinematografico ha comportato, ovviamente, anche la messa in atto di straordinarie misure di sicurezza.

In questa breve carrellata mancano molti musei e molti film, ma non escludiamo di tornare sull’argomento in futuro. Non abbiamo citato, ad esempio, due film molto famosi: Rocky di John G. Avildsen (1976), con Rocky Balboa, interpretato da Sylvester Stallone, che si allena sulla scalinata del Philadelphia Museum of Art di Filadelfia; o Flashdance di Adrian Lyne (1983) con Jennifer Beals che balla nel Carnegie Music Hall Foyer di Pittsburgh.

Ma possiamo pensare anche a film non ancora usciti, come Mission: Impossibile 7 – Lybra di Christopher McQuarrie con Tom Cruise, girato in parte a Palazzo Ducale a Venezia e a Palazzo Clementi, appena restaurato, a Roma.

In tutti questi esempi, l’immagine del museo funziona come messaggio indiretto: le sale costituiscono l’ambientazione delle scene di un film, non necessariamente il suo argomento principale. Ma il messaggio indiretto può essere persino più forte ed efficace di un messaggio diretto, perché è sotterraneo, non invadente e può raggiungere una cerchia più ampia e diversificata di persone. Senza contare che, nel frattempo, il panorama si è ulteriormente ampliato e i musei si sono prestati, con finalità diverse, a diventare ambientazione per videoclip di cantanti o per videogiochi. Tanti modi diversi per presentare un museo in una società in rapida evoluzione.

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Elena Franchi

È storica dell’arte, giornalista e membro di commissioni dell’International Council of Museums (ICOM).
Candidata nel 2009 all’Emmy Award, sezione “Research”, per il documentario americano “The Rape of Europa” (2006), dal 2017 al 2019 ha partecipato al progetto europeo “Transfer of Cultural Objects in the Alpe Adria Region in the 20th Century”.
Fra le sue pubblicazioni: “I viaggi dell’Assunta. La protezione del patrimonio artistico veneziano durante i conflitti mondiali”, Pisa, 2010; “Arte in assetto di guerra. Protezione e distruzione del patrimonio artistico a Pisa durante la Seconda guerra mondiale”, Pisa, 2006; il manuale scolastico “Educazione civica per l’arte. Il patrimonio culturale come bene dell’umanità”, Loescher-D’Anna, Torino 2021.
Ambiti di ricerca principali: protezione del patrimonio culturale nei conflitti (dalle guerre mondiali alle aree di crisi contemporanee); tutela e educazione al patrimonio; storia della divulgazione e della didattica della storia dell’arte; musei della scuola.

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