L’immagine del museo al cinema #1

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Il museo al cinema, location privilegiata: luogo di incontri e di relazioni, luogo di sguardi, luogo di suspense, horror e mistero.

La mia generazione si ricorda ancora un telefilm che è andato in onda alla Rai in più riprese negli anni Sessanta-Settanta. Eravamo bambini, lo aspettavamo con ansia e lo guardavamo con paura, le mani avvinghiate ai braccioli della poltrona. Era Belfagor. Il fantasma del Louvre (Belphégor ou Le fantôme du Louvre) di Claude Barma, con Juliette Gréco, recentemente scomparsa, che in Italia replicò il grande successo già ottenuto in Francia.

Anche se le scene non erano state girate all’interno del museo, quel telefilm mi aveva lasciato la sensazione che il Louvre fosse un luogo affascinante e misterioso, in cui potevano succedere cose strane e inspiegabili. Il cinema e il museo sono grandi narratori di storie. Il museo nel cinema è il luogo dell’incontro fra le arti, il luogo dello sguardo. In un gioco di scatole cinesi, il museo, a sua volta, ci presenta nuove storie attraverso le opere che espone. Come scrive Antonio Costa (Il cinema e le arti visive, Torino, 2002): «un quadro all’interno di una storia è sempre una storia che ricomincia».

Forse anche per questo il cinema ha fatto spesso ricorso al museo, ambientando le sue scene all’interno delle sale espositive o ricostruendole in sale di posa. Una sommaria ricerca della parola “museum” nei vari siti di locations del cinema (come The Worldwide Guide to Movie Locations, o Internet Movie Database) dà come risultato centinaia di titoli in cui un museo è stato utilizzato per ambientare una o più scene di un film.

Il cinema asseconda l’idea di un museo in cui si va per motivi diversi, non necessariamente per ammirarne le collezioni. È quello che sostiene anche Alan Bennett, nominato trustee della National Gallery di Londra nel 1993: «La verità è che la gente viene qui per le ragioni più varie: per rilassarsi un po’, o per ripararsi dalla pioggia, o per guardare i quadri, o magari per guardare le persone che guardano i quadri» (Alan Bennett, Una visita guidata, Milano, 2008, che recensivo in Non deve per forza piacerti tutto, 23 settembre 2014).

L’immagine del museo al cinema sembra rispondere alla riflessione sul suo ruolo e sulla sua identità condotta a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Il museo non più soltanto come luogo di conservazione ed esposizione – ruolo peraltro fondamentale -, ma come momento di esperienza individuale e collettiva, spazio di educazione, relazione e intrattenimento. In questo periodo la definizione di “museo” sta nuovamente cambiando, per sottolineare la sua responsabilità sociale e il suo ruolo come luogo di partecipazione. Nemmeno l’International Council of Museums (ICOM), nel corso della Conferenza generale che si è svolta a Kyoto nel settembre 2019, è riuscito a raggiungere un accordo a livello internazionale su una nuova definizione di museo, in grado di rispecchiare le sue funzioni tradizionali e il ruolo politico assunto dal museo nella società moderna. Potrebbe essere interessante cercare di scoprire se il cinema riuscirà a cogliere questa evoluzione del dibattito intorno al museo. Intanto possiamo fare una rapida carrellata sul ruolo dei musei presenti in alcuni film particolarmente rappresentativi.

Esistono molte varietà di musei, molti tipi di pubblico e molti generi cinematografici. La presenza del museo nei film assume di volta in volta funzioni diverse, spesso sovrapposte.
Il museo come luogo di incontri e relazioni è ben presente in Manhattan di Woody Allen (1979), un vero concentrato di musei o, dello stesso regista, Match Point (2005), con l’incontro casuale dei protagonisti alla Tate Modern di Londra.
È anche il caso di When Harry Met Sally (Harry ti presento Sally), di Rob Reiner (1989) in cui Meg Ryan e Billy Crystal parlano con la voce da paperino nel padiglione egizio del Metropolitan Museum di New York.
E ancora il Metropolitan Museum (anche se, nella realtà, si tratta del Philadelphia Museum of Art) come luogo di incontri in Dressed to Kill (Vestito per uccidere) di Brian De Palma (1980), con la lunga scena in cui Angie Dickinson, sola, guarda le opere e guarda i visitatori, coppie e famiglie in visita al museo. Uno sconosciuto si siede accanto a lei, si alza e si allontana. L’uomo e la donna si cercano e si inseguono fra le sale, si perdono e si ritrovano di nuovo.

Un luogo di relazioni e un luogo di sguardi, nella consapevolezza che, per citare ancora Antonio Costa, «un personaggio davanti a un quadro in un film replica la posizione dello spettatore davanti al film».
Succede in Ferris Bueller’s Day Off (Una pazza giornata di vacanza) di John Hughes (1986), un giorno di libertà di alcuni ragazzi che include un’incursione all’Art Institute di Chicago. Gli adolescenti si aggregano a una interminabile schiera di bambini che procede nel museo tenendosi per mano, si fermano a imitare la posa a braccia conserte del Balzac di Rodin, si baciano davanti ad America Windows di Chagall. Per poi arrivare alla suggestiva scena del ragazzo che si perde sempre di più nello sguardo puntiforme della bambina vestita di bianco raffigurata in Un dimanche après-midi à la Grande Jatte di Seurat.

Ma anche in Viaggio in Italia di Roberto Rossellini (1954), con una coppia inglese in crisi e la solitudine di Ingrid Bergman che sembra accentuarsi sotto lo sguardo delle statue del Museo archeologico nazionale di Napoli (MANN).
Lo stesso museo, e in particolare la sua stanza segreta con reperti pompeiani e scene erotiche, è presente nel film di Ferzan Özpetek Napoli velata (2017), con la protagonista, interpretata da Giovanna Mezzogiorno, che passeggia fra le statue del museo pensando al suo giovane amante, interpretato da Alessandro Borghi.
Ed è ancora lo sguardo il protagonista di Agalma, film-documentario di Doriana Monaco (2020) presentato alla Mostra del cinema di Venezia. Dedicato, ancora una volta, al Museo archeologico di Napoli, il film ci fa scoprire la vita quotidiana del museo nelle sue relazioni fra oggetti, operatori e visitatori. Ricordiamo inoltre che il MANN ha prodotto e distribuito un videogioco gratuito, Father and Son, che è riuscito ad attirare nuovi visitatori inserendosi a buon diritto nel filone del turismo video-ludico, o game tourism.

Il museo si presta al thriller, in particolare a quello psicologico, e lo sguardo assume un rilievo particolare se a “guardarci” è un ritratto.
È il caso di Vertigo (La donna che visse due volte) di Alfred Hitchcock (1958), con la protagonista, Kim Novak, che si identifica con il ritratto di una sua ava esposto nella sala 6 del Legion of Honor Museum di San Francisco; quadro in realtà realizzato per l’occasione come arredo scenico del film.

Ma il museo può essere anche un luogo di horror e di mistero, com’è il caso dell’horror psicologico di Dario Argento con La Sindrome di Stendhal (1996), dove la protagonista, Asia Argento, quasi ipnotizzata dalle opere d’arte, sviene in una sala degli Uffizi.
Pensiamo ai vari film dedicati ai musei delle cere, che, forse per la loro origine di raccolte di cere anatomiche, si prestano particolarmente bene a tali ambientazioni: fra tutti, House of Wax (La maschera di cera) di André De Toth (1953), film stereoscopico che lanciò Vincent Price.
Un luogo inquietante è anche il Flugelheim Museum (nome che ci ricorda da vicino il Guggenheim) di Gotham in Batman di Tim Burton (1989), con la danza devastatrice di Joker fra opere ben scelte di Degas, Rembrandt e Renoir. Unica opera risparmiata dalla furia distruttrice di Joker è la Figura con carne (1954) di Francis Bacon, dissacrante rivisitazione del ritratto di Innocenzo X di Velázquez.

Opere inventate esposte nelle sale di un vero museo; opere esistenti collocate in un museo diverso da quello reale; musei creati per l’occasione e musei che fingono di essere altri musei: tutto questo è presente nella finzione cinematografica. In un prossimo articolo ne vedremo altri esempi.

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Elena Franchi

È storica dell’arte, giornalista e membro di commissioni dell’International Council of Museums (ICOM).
Candidata nel 2009 all’Emmy Award, sezione “Research”, per il documentario americano “The Rape of Europa” (2006), dal 2017 al 2019 ha partecipato al progetto europeo “Transfer of Cultural Objects in the Alpe Adria Region in the 20th Century”.
Fra le sue pubblicazioni: “I viaggi dell’Assunta. La protezione del patrimonio artistico veneziano durante i conflitti mondiali”, Pisa, 2010; “Arte in assetto di guerra. Protezione e distruzione del patrimonio artistico a Pisa durante la Seconda guerra mondiale”, Pisa, 2006; il manuale scolastico “Educazione civica per l’arte. Il patrimonio culturale come bene dell’umanità”, Loescher-D’Anna, Torino 2021.
Ambiti di ricerca principali: protezione del patrimonio culturale nei conflitti (dalle guerre mondiali alle aree di crisi contemporanee); tutela e educazione al patrimonio; storia della divulgazione e della didattica della storia dell’arte; musei della scuola.

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