Quando ho saputo dell’uscita (avvenuta il 26 settembre 2023) del libro di Giuseppe Zanetto L’Iliade. La guerra di Troia raccontata da vinti e vincitori, Feltrinelli Kids, Milano 2023, ho approfittato di un’antica consuetudine con l’Autore (sono stato suo allievo all’Università degli Studi di Milano!) e gli ho rivolto qualche domanda, per capire meglio di cosa si tratta, prima ancora di riuscire a leggerlo.
Il senso di un’operazione letteraria
La conversazione – come sempre più spesso succede, ahinoi – è avvenuta via mail; interpellato sul libro e sui suoi obiettivi, così mi ha risposto:
Nonostante la sede (Feltrinelli Kids, appunto), non si tratta di un libro per l’infanzia. È pensato, naturalmente, per lettori giovani (scuola media, biennio delle superiori), ma la linea del racconto dà spazio a temi che sono di grande attualità per tutti: la guerra, con i suoi orrori e la sua inesorabilità, la possibilità di un riscatto o di una “rinascita”, che la vita talvolta offre anche a chi è stato buttato a terra dalla sorte, l’importanza di scoprire sé stessi (la propria origine, le proprie radici), gli inestricabili paradossi che la condizione umana sembra divertirsi a costruire. […] Mi auguro che questa Iliade (così fedele al poema di Omero) possa piacerti.
Ho poi avuto il privilegio di una lettura precoce dell’opera, che ho condotto (anche) alla luce delle indicazioni di Zanetto, e ho trovato questo agile libretto uno splendido “prodotto”; d’altronde chi l’ha scritto da anni alterna il rigore dell’accademico alla volontà divulgativa, che rivolge soprattutto alle generazioni più giovani. Egli stesso, in altre opere, ha apertamente dichiarato di scrivere avendo talora come punto di riferimento – lui pluri-nonno – i propri nipoti.
Molosso, chi è costui?
Poiché – come vedremo – la narrazione ruota intorno a lui e soprattutto alla sua sete di conoscenza, che diventa il filo conduttore del nostro libro, vale la pena di partire con una domanda: «Chi è Molosso?». Qualcuno potrebbe considerarlo, così, di primo acchito, una specie di Carneade manzoniano nel mare magnum degli eroi dell’epica classica, ma in realtà egli occupa un posto molto speciale nella saga post-omerica: si tratta infatti del figlio che Andromaca, troiana, vedova di Ettore, ha avuto da Neottolemo, irruento rampollo del greco Achille, anch’egli morto (intendo Achille, eh…) sotto le mura di Troia.
Un figlio frutto di un rapporto coatto, poiché la donna è stata trascinata a Ftia come schiava di guerra, dopo aver perso l’eroico marito e il piccolo Astianatte. Siamo davanti – dal nostro punto di vista, e non solo – a una situazione inaccettabile, che ci riporta alla mente stupri etnici assai più recenti nel territorio della nostra Europa. Eppure Molosso è diventato la ragione di vita di Andromaca, e attraverso di lui ella ha imparato non certo ad amare (come si potrebbe?) ma almeno a convivere con Neottolemo.
Molosso, poi, è un ragazzino sveglio, curioso, mi verrebbe voglia di dire come molti di quelli nei quali si mescolano “geni” diversi: egli è infatti greco e troiano nello stesso tempo, occidentale e orientale.
Un racconto a più voci
Così, interrogando persone diverse che bazzicano la reggia, il giovane si fa raccontare gli eventi-cardine di quell’Iliade che ha condizionato il suo destino in modo indelebile: lo fa parlando con l’aedo Creofilo, con l’anziano Ulisse in visita al nonno Peleo, con Peleo stesso, con Automendonte, l’auriga di Achille e Patroclo. Ma soprattutto con la madre Andromaca, che non gli risparmia il peggio della guerra troiana (ire, vendette, squartamenti, etc.) ma nemmeno i rari momenti di amicizia (quella tra Patroclo e Achille) o di pietas, che si sublima nella commossa restituzione a Priamo del cadavere Ettore da parte del feroce Achille. Sì, perché alla domanda del figlio: «Ma allora Achille è stato davvero il grande eroe che dicono? Più lo conosco e più mi sembra che sia stato un uomo cattivo, crudele» la madre risponde: «Molosso, aspetta a giudicarlo. Non sai ancora tutto».
Guerra, Destino, intervento divino…
Cosa non sapeva (ancora) Molosso, a parte la restituzione del cadavere di Ettore? Che la guerra è follia, atrocità allo stato puro, ma anche – come diceva il filosofo Eraclito di Polemos – «padre di tutte le cose» in quanto antitesi necessaria alla pace. Inoltre non sapeva (ma ora lo sa) che gli dèi, il Destino, la Necessità intervengono nella realtà a condizionare le scelte dei mortali, e che la concezione della storia sottesa all’epos manca di una sicura dimensione finalistica, se è vero che Automedonte alla domanda di Molosso: «Gli dèi possono cambiare il destino di un uomo, se vogliono?» risponde; «Forse sì: anche questo lo sanno soltanto loro, gli dèi».
Altro che libro solo per piccoli… la narrazione brillante e chiara, accompagnata dalle bellissime illustrazioni di Camilla Pintonato, che si rifanno a vasi o affreschi antichi, apre (e talora non chiude: ma sarebbe davvero possibile farlo?) interrogativi senza tempo.
Antichi e moderni: due mondi lontani?
Forse qualcuno potrebbe obiettare che mancano parole troppo forti di condanna assoluta del male e della violenza, che talora non si capisce più chi sono i “buoni” e i “cattivi”, che le donne appaiono come strumenti a disposizione dei maschi, e – che come ho già detto – il volere divino e/o il Destino spiegano sbrigativamente cose altrimenti inspiegabili. Probabilmente è vero, ma ciò avviene perché Zanetto non parla secondo il suo punto di vista, ma secondo quello dei suoi personaggi. Poiché gli antichi – come diceva il grande grecista Dario Del Corno (Maestro di Zanetto, ma anche mio) – moderni non sono mai (o lo sono pochissimo), leggere questo libro, dunque, può essere (anche) un modo per mostrare ai giovani elementi di continuità ma soprattutto di forte alterità tra i tempi nostri e quelli evocati dall’epos: perché se l’amore materno o coniugale possono mostrare oggi affinità o addirittura continuità con quello degli eroi omerici, trucidare i nemici o schiavizzare le donne non è ai tempi nostri più tollerabile. Eppure, da qualche parte del mondo ancora avviene, forse neppure così lontano da qui (già prima ne accennavo): la lettura, a scuola, di questo libro, può allora essere anch’essa un modo per parlarne con i più giovani, e dialettizzare il particolare con l’universale.
Necessità dei classici: il parere di Zanetto
Tutto ciò dimostra – a mio avviso – non solo l’opportunità, ma anche la necessità di relazionarci, senza censure, con sistemi valoriali così lontani, nonostante voci (provenienti soprattutto dalla cultura anglosassone, e in particolare statunitense). Su questo tema è da poco intervenuto Maurizio Bettini, con il suo stimolante saggio Chi ha paura dei Greci e dei Romani? Dialogo e “cancel culture”, Einaudi, Torino 2023, del quale tornerò di certo a parlare su queste colonne. Non ho però saputo resistere e ho chiesto un parere in merito anche allo stesso Giuseppe Zanetto, il quale mi ha risposto con la consueta chiarezza ed efficacia. È dunque con le sue autorevoli parole che concludo questo mio articolo, nella coscienza che esse interpretino al meglio il comune sentire di chi – come il sottoscritto e come molti dei suoi abituali lettori – ha dedicato tutta la propria vita allo studio dell’antichità classica. Afferma infatti Zanetto:
Agli spazi della classicità (Grecia e Roma) e alla cultura classica noi moderni possiamo guardare in due modi distinti e opposti. Possiamo enfatizzare la lontananza di quel mondo, la sua “passatezza”, la distanza siderale che lo divide da noi. È l’atteggiamento anche di molti antichisti: dai tempi di Pericle e di Alessandro Magno – dicono – la storia è cambiata mille volte; dobbiamo averne coscienza e “leggere” la classicità con la consapevolezza di una sua radicale “alterità” rispetto al presente. Secondo questa prospettiva, la lezione dei classici è autentica e vera solo se viene ricondotta alla sua dimensione storica, che è – appunto – lontana. Oppure si può adottare una diversa focalizzazione: la “passatezza” dei classici, che certo non va ignorata, non deve impedirci di constatare che la loro voce ci risulta pienamente riconoscibile. La “riconoscibilità” è una nozione chiave, credo, per entrare utilmente in questo dibattito. Dai classici ci arrivano “materiali” (idee, sentimenti, immagini, associazioni, problematizzazioni) che trovano immediata collocazione nelle nostre categorie di pensiero e di giudizio. In questo senso si può parlare di una loro “contemporaneità” (Eliot diceva che uno scrittore può essere pienamente contemporaneo solo se è fortemente tradizionale); e poiché la loro voce è affidata a testi e manufatti straordinari per qualità artistica, capacità di fascinazione e impatto emotivo, cade ogni dubbio sull’opportunità di fruirne.
La cancel culture porta all’esasperazione l’idea della lontananza, percependo la “passatezza” dei classici come un impedimento alla loro comprensione (nella migliore delle ipotesi) o come un potenziale pericolo per le conquiste della coscienza moderna. Le conseguenze sono però disastrose: si rischia di buttare il bimbo insieme all’acqua sporca, e di gettare alle ortiche Omero perché nell’Iliade i comportamenti dei personaggi non sono politically correct. Ma l’Iliade canta, con forza ineguagliabile, la dolcezza e la tragicità della vita: come spiega Simone Weil, è il poema della violenza, ma è anche il poema degli affetti profondi.
A meno che si voglia adottare una soluzione simile a quella decisa dal Concilio di Trento, quando il Braghettone fu incaricato di mettere le mutande ai nudi di Michelangelo, perché quelle vergogne indecorose offendevano la sensibilità del tempo.