Nella loro storia secolare, tra primati di fondazione contesi, polemiche feroci, docenti e studenti vaganti fuori sede, le università dell’Europa occidentale sono nate e si sono strutturate su alcuni punti fermi: la pace, per la loro vocazione sovranazionale e inclusiva; l’autonomia, in particolare dal potere politico; i riti, rappresentati dalla toga, dai motti latini, dalle cerimonie di laurea, dagli stendardi e dalle bandiere. Da qui parte Tomaso Montanari, storico dell’arte e rettore dell’Università per Stranieri di Siena, per riflettere su come oggi le università, in Italia, rischino di tradire la loro missione costitutiva, sotto le pressioni politiche, economiche e sociali di chi non riconosce o non vuole riconoscere i valori fondanti della vita accademica.
Le riforme del sistema universitario, secondo Montanari, celano un pensiero non proprio coerente con lo statuto di pace, accoglienza e autonomia su cui ogni istituzione accademica dovrebbe reggersi; dietro i tagli lineari, la precarizzazione del lavoro, la centralizzazione delle nomine apicali sembra infatti esserci un disegno volto ad annullare quel ruolo di motore di pensiero critico, di contestazione, di aggregazione che le università hanno sempre avuto di pari passo con i percorsi di studio e formazione.
Asseconda il piano di disinnesco del dissenso la proliferazione di università telematiche, che oggi assorbono non solo sempre più studenti che mai si riuniranno in un’aula o in un’assemblea, ma anche moltissimi laureati e addottorati che il sistema d’istruzione pubblica non assorbe per tempo come docenti. Divide et impera, cioè dividi, isola gli studenti e governerai senza problemi, secondo un’interpretazione reazionaria della socialità che sa davvero di antico regime. È, la frequenza a distanza, il contrario esatto di quanto accade nelle università non telematiche fin dal Medioevo e dal Rinascimento.

Nel 1588, Ferdinando de’ Medici istituì nello Studium di Siena la cattedra di “toscana favella”, cioè in pratica di lingua italiana per quegli studenti (lombardi, tedeschi, polacchi) che sapevano sì il latino delle lectiones e delle disputationes, non il volgare delle taverne, dei mercati e dei lupanari. Gestendo da sé i punti organico, anziché, come di prassi, lasciare campo libero alla Balìa senese, il granduca prima impose Diomede Borghesi, convinto purista di scuola bembiana che mal tollerava i forestierismi danteschi, quindi, dal 1598, Celso Cittadini, traduttore del De vulgari eloquentia, fautore della lingua toscana se non senese contemporanea e già precettore del futuro Cosimo II. Il potere prevaricava sull’accademia, per rispondere a un’esigenza che oggi è diventata comune anche a scuola: l’insegnamento dell’italiano come “lingua seconda” agli studenti e alle studentesse internazionali.
Lo scarso ricambio generazionale a livello accademico ha una ricaduta inevitabile sulla ricerca: come scrive Montanari, «molto difficilmente i ricercatori precari avranno la sicurezza sufficiente per contestare e cambiare i paradigmi ricevuti da maestri dai quali dipende la loro stessa sopravvivenza» (p. 15). È proprio così. E quando si propongono iniziative che pure in altri Paesi hanno una storia decennale (un corso di Studi Queer, ad esempio), vari fronti si uniscono per gridare, a seconda del battaglione, alla manipolazione della gioventù, all’ideologia, alla cancellazione della cultura, all’adeguamento a una moda, facendo di tutta questa loro malerba – è il caso di dire – un fascio. Come se esistessero discipline pure, neutre e incontaminate che non hanno risentito del contesto storico-culturale in cui sono nate.
I ruoli universitari, del resto, possono essere interpretati come posizioni di potere, scranne di privilegio, e chi, per decenni, ha perseguito un unico indirizzo di studio, vedrà come fumo negli occhi, come criterio allotrio, estraneo, incongruo, ogni tentativo di movimentare e decostruire il racconto predominante. È accaduto nella storia della letteratura, della filosofia, della storiografia, dell’arte, solo per limitarci alle discipline umanistiche. Il ritorno all’ordine in corso negli Stati Uniti, i tagli netti ai finanziamenti all’istruzione, la chiusura di interi dipartimenti, la privatizzazione governativa degli atenei (come in Ungheria), la repressione non solo del dissenso manifestato nei campus ma anche degli insegnamenti non allineati sono la conseguenza di una concezione dell’università (e della scuola) come alleata del potere, il suo instrumentum regni al posto di una chiesa di Stato.
In questo contesto assumono una connotazione individualistica, narcisistica, quando non razzistica concetti come quello di merito o di eccellenza: non più visti come mezzi per riequilibrare condizioni inique (l’essere cresciuti in contesti non privilegiati, il diverso accesso al diritto allo studio), bensì come un bollino per istituzionalizzare le discriminazioni sia a livello personale (il più bravo, la più meritevole, tra diseguali) sia a livello pubblico (la scuola d’eccellenza, che si porterà in pancia più finanziamenti), secondo una mentalità aziendalistica che premia la produttività materiale e intellettuale senza guardare ad altro.
Voce di rettore che grida nel deserto, Montanari ricorda come il mondo universitario condivida fin dalle epoche antiche il destino di quello giudiziario. Attacchi e tentativi di ridimensionamento, infatti, vengono dagli stessi ambienti, a dimostrazione di una scarsa tolleranza verso quel sistema di equilibrio dei poteri che in Italia è, in teoria, fissato dalla Costituzione repubblicana. Già all’indomani della caduta di Benito Mussolini, a guerra e bombardamenti in corso, il primo governo non fascista dopo i lunghi anni della dittatura ripristinò l’autonomia degli atenei e dei docenti abolendo l’obbligo del giuramento e ponendo fine a una cupa storia di forzata dipendenza che risaliva ai decreti della riforma Gentile. L’articolo 33 della Costituzione recita:
L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. […]
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.
L’oscillazione tra gli «ordinamenti autonomi» e i «limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» può far pensare che certi interventi dall’alto siano legittimi, ma la proclamazione della libertà a livello didattico e istituzionale sgombra il campo da ogni possibile equivoco.
Non aiuta il dibattito a favore della libertà accademica una percezione semplificatoria e banalizzante del docente universitario come auto-esiliatosi su una torre d’avorio, privo di contatti con la realtà. Se fosse davvero così, ci sarebbero tutte queste ingerenze? È chiaro che, di fronte alle conseguenze negative di un’esposizione pubblica, si preferisce il silenzio; tuttavia, la torre d’avorio può avere un altro significato. Montanari parte da un suo celebre riformulatore, Erwin Panofsky, fuggito negli Usa dalla Germania nazista, per ricordare come le torri servano a vedere le cose da una prospettiva più ampia e poi facciano urlare chi le abita verso gli abitanti del piano terra (nella maggior parte dei casi, la posterità): «Attenzione, pericolo!».
Paludati e polverosi sembrano gli ambienti universitari per i riti che vi si celebrano e che facevano storcere il naso a Virginia Woolf, così poco a suo agio davanti a toghe, parrucche, medaglie e divise, esibite come l’apparato festivo del potere patriarcale. Montanari ripensa questo simbolo della vita universitaria, un tempo da lui stesso snobbato, per ricordare invece come possa diventare un segno visibile e formale di resistenza, tanto quanto le toghe della magistratura.

Vesti e tocchi di togati e togate certamente evocano rigore e autorità, che però possono essere riarticolati in un diverso ordine simbolico; un esempio è il pacifismo, inteso quale mezzo di opposizione tutt’altro che passiva, come ci ha insegnato Aldo Capitini. Difficile tollerare che le università firmino accordi con enti privati che hanno i loro interessi economici e industriali nel settore degli armamenti o di tutto ciò che abbia a che fare con le guerre e con la distruzione di esseri viventi, mentre già il pianeta sta soffrendo. Più che proporre assurdi boicottaggi in nome di idiosincrasie politiche (come rompere in toto le relazioni con atenei di Paesi in guerra), bisognerebbe evitare, secondo Montanari, collaborazioni che portano lustro all’industria bellica proprio grazie alla fama degli atenei, di fatto sponsorizzando loschi traffici di morte.
Citando, tra i tanti e le tante, don Milani, Luigi Einaudi, Eco, Ceserani, bell hooks, Murgia, Montanari ammonisce che le università non sono aziende, non sono distaccamenti ministeriali, non sono accampamenti militari, non sono laboratori industriali, ma «comunità del non-consenso» (p. 101). Facciamocene, tutti e tutte, una ragione.
(T. Montanari, Libera università, Einaudi, «Vele» 245, Torino 2025)