Letteratura e lavoro

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La realtà condiziona profondamente l’immaginario letterario: ne dà conferma la produzione letteraria contemporanea, abbondante e diversificata, che prende a tema la questione del lavoro. Dal numero 19 de «La ricerca», “Fondata sul lavoro”
Archeologia industriale. Foto Wikimedia.

Si riscontra nell’ultimo ventennio una rinnovata attenzione al lavoro che mancava dalla fortunata stagione della letteratura cosiddetta industriale, quella che aveva preso avvio agli inizi degli anni Sessanta in corrispondenza al boom economico e a una trasformazione profonda del tessuto produttivo: l’Italia passava da Paese agricolo a Paese industriale, vivendo anche una forte migrazione interna, dalle campagne alle città, dal Sud al Nord. La letteratura si interessa allora al mondo della fabbrica, alla vita degli operai e alle loro lotte, all’inurbamento.

Pietra miliare del dibattito su come rappresentare il mondo del lavoro è il numero 4/1961 della rivista il Menabò, diretta da Vittorini e Calvino, intitolato «Industria e letteratura». L’editoriale, a firma di Vittorini, si interroga proprio sulla necessità di adattare la forma letteraria alla nuova realtà produttiva, agli effetti socio-economici, culturali e personali dell’industrializzazione. Sono pubblicati, tra gli altri, la poesia di Vittorio Sereni Una vista in fabbrica, e il lungo testo di Ottiero Ottieri Taccuino industriale. Di Ottieri erano già usciti i romanzi Tempi Stretti (1957), incentrato sulla trasformazione della realtà industriale a Milano, e Donnarumma all’assalto (1959), una specie di romanzo-diario di ispirazione autobiografica, acuta analisi del funzionamento di un sistema che integra solo chi ha competenze lavorative, mentre tutti hanno la necessità di avere un lavoro. Nel primo numero del Menabò era già uscito il romanzo di Lucio Mastronardi Il calzolaio di Vigevano (1959), primo di una trilogia (Il maestro di Vigevano, 1962, Il meridionale di Vigevano, 1964) in cui si intersecano i temi del lavoro, dell’industrializzazione e della migrazione. Lo stesso anno escono altri due romanzi fondamentali, Vita agra di Luciano Bianciardi, dura critica della società del “miracolo economico” (Bianciardi, che in quegli anni lavorava presso case editrici e riviste, aveva già pubblicato Il lavoro culturale nel 1956), e Memoriale di Paolo Volponi, anch’egli come Ottieri e altri intellettuali dirigente d’azienda, e quindi capace di portare uno sguardo dall’interno sulle contraddizioni del sistema industriale. Emergono, da questi e altri romanzi ascrivibili alla medesima corrente letteraria, come Il padrone di Goffredo Parise, del 1965 (ma si pensi anche alle poesie di Fortini o Giudici), non solo i problemi che più interpellano gli intellettuali, ma anche un’auto-riflessione sul proprio ruolo e le proprie aspirazioni, in un periodo storico in cui ideali di uguaglianza e democrazia animavano anche imprenditori riformisti come Adriano Olivetti, il quale aveva fatto entrare nella realtà della fabbrica intellettuali e scrittori proprio con l’idea di renderla più umana e attenuare le spinte della modernizzazione.

A conclusione emblematica di questo denso momento letterario vogliamo collocare Vogliamo tutto di Nanni Balestrini (1971), romanzo che segna un punto di non ritorno dell’utopia riformista, perché esprime il rifiuto del lavoro in fabbrica in quanto tale; come dice l’operaio protagonista del romanzo, «la cosa che non aveva differenza era la nostra volontà la nostra logica la nostra scoperta che il lavoro è l’unico nemico l’unica malattia […] Compagni rifiutiamo il lavoro […] dobbiamo lottare perché non ci sia più il lavoro». Si sviluppa ora una visione emancipatrice e liberatoria del precariato, del lavoro saltuario e autonomo, in antitesi al mito del posto fisso come orizzonte unico di realizzazione personale e al mito della produzione, contro ogni subordinazione al capitale e l’assoggettamento dell’uomo alla macchina. Una visione sovversiva presto soppiantata dall’avvento di una flessibilità imposta e generalizzata, come pure si dissolve l’ideale riformista: epilogo quasi postumo della letteratura industriale può considerarsi il romanzo di Paolo Volponi Le mosche del capitale (1989), maturato fin dagli anni Settanta e ambientato nel 1979-1980, con il quale si profila la fine dell’utopia di una fabbrica umanizzata e il predominio di un neocapitalismo feroce.

Questa prima fase di produzione letteraria interessata al mondo del lavoro e ai lavoratori resta ancora oggi di grandissimo interesse non solo perché testimonia l’urgenza di rappresentare il mondo lavorativo dei primi decenni del Dopoguerra, ma anche perché è caratterizzata da una straordinaria ricerca di linguaggi nuovi atti a esprimere la nuova realtà e i suoi effetti sull’individuo, da uno sperimentalismo formale affatto gratuito, il cui duplice obiettivo è dire la fabbrica, svelarne i più intimi meccanismi, e dare la parola a chi ci lavora. La stagione della letteratura industriale tende insomma a coincidere con una stagione di forti sperimentalismi.

Un nuovo interesse della letteratura per il mondo lavorativo si riscontra, in modo altrettanto marcato, agli inizi degli anni Duemila, in corrispondenza con grandi trasformazioni economiche, rapidamente riassumibili in termini di globalizzazione e nuove tecnologie; pur mostrando incrinature, impera a livello mondiale un modello economico che comporta la generalizzazione della flessibilità del lavoro. L’azienda – termine onnicomprensivo – ha sostituito la fabbrica, il terziario avanzato ha soppiantato l’industria, la produzione si astrae e si concettualizza, le attività si delocalizzano, i flussi finanziari derealizzano il denaro e la finanza domina l’economia, le tecnologie smaterializzano il lavoro, la precarietà e l’atipicità della prestazione lavorativa diventano norma; a questi fenomeni si aggiunge la spinta di popolazioni migranti che premono per entrare nei mondi idealizzati dello sviluppo e della pace subendo in realtà al loro arrivo condizioni lavorative abusive. In tale quadro che coinvolge in Occidente i cosiddetti Paesi sviluppati, l’Italia conserva alcune sue peculiarità: la purtroppo sempre attuale questione meridionale, esasperata a livello economico da un accentuato divario Nord/Sud; il peso specifico dell’economia sommersa e criminale, inclusiva di lavoro nero e traffici mafiosi; la forte disoccupazione giovanile e femminile, di cui non vanno sottovalutate le conseguenze socio-culturali (la permanenza dei giovani in famiglia, il calo delle nascite ecc.); la miriade di piccole-medie imprese – i distretti industriali all’origine del Made in Italy, la “fabbrichetta” – che, quando non trasferiscono altrove gli impianti produttivi, segnano il territorio; l’arrivo sul mercato dei cosiddetti “extra-comunitari” o “clandestini”, mano d’opera concorrenziale, sfruttabile e sfruttata.

Non stupisce allora che le tematiche della nuova letteratura del lavoro siano diverse, tanto è diverso il contesto sociale ed economico, e parzialmente diversi sono i problemi: precariato, disoccupazione, poor workers, mobbing, rottamazione, delocalizzazione, morti bianche, caporalato…

Potremmo aggiungere che sono diversi anche gli scrittori e le ragioni del loro interesse, poiché chi racconta non guarda al mondo del lavoro da fuori o dall’alto, ma lo sperimenta molto spesso sulla propria persona; molti giovani autori appartengono alla “generazione precaria”, sono essi stessi “ad alta flessibilità”. La realtà economica influenza quindi direttamente tutta una generazione di scrittori e ha addirittura suscitato vocazioni e libri di esordio d’impronta, appunto, autobiografica.

Facendo opera di denuncia e di testimonianza, la nuova produzione letteraria descrive insomma il mondo del non-lavoro, quello della fabbrica dismessa e delle miniere chiuse, della perdita di certezze, di crisi e nuove povertà; tuttavia essa prospetta anche una nuova “arte dell’arrangiarsi”, delineando forme di resistenza e resilienza, modi di vita non rinunciatari, volontà, azione, speranza. Emblematici sono i romanzi di Alberto Prunetti in cui si rivendica una cultura subalterna internazionale e irriducibile, si celebra l’esistenza di una working class contrapposta per valori e linguaggio alla classe dominante.

La campionatura è comunque vastissima. Un picco di questa nuova letteratura del lavoro potrebbe situarsi nel 2006, anno in cui escono tre libri, diversi tra loro, ma significativi del disagio giovanile, del precariato e del lavoro cognitivo non riconosciuto: l’opera satirica di Andrea Bajani, Mi spezzo ma non m’impiego. Guida di viaggio per lavoratori flessibili; il docudrama di Aldo Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, libro realizzato sulla base di interviste; il romanzo di Michela Murgia, Il mondo deve sapere, romanzo tragicomico di una telefonista precaria, tratto da un blog basato sull’esperienza diretta dell’autrice. Lo stesso anno escono anche Generazione mille euro di Incorvaia e Rimassa, Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati, Le risorse umane di Angelo Ferracuti; pochi anni prima erano usciti Pausa caffè di Giorgio Falco, Ferita di guerra di Giulia Fazi, La dismissione di Ermanno Rea, quest’ultimo letto come il de profundis della fabbrica fordista ed emblema delle delocalizzazioni. Negli anni successivi, per non citar che alcuni dei titoli più discussi, escono Personaggi precari, di Vanni Santoni, e Acciaio di Silvia Avallone.

Il fenomeno letterario suscita fin dall’inizio l’interesse dei lettori, della critica accademica e della stampa: da Repubblica al Sole 24 ore, si plaude un nuovo genere letterario. Il fenomeno è anche editoriale: oltre alla moltitudine di romanzi, tra il 2005 e il 2012 sono pubblicate sul tema del lavoro – spesso col sostegno di sindacati e associazioni – numerose antologie di racconti, narrazioni plurali in cui si esprime l’impegno civile transgenerazionale degli scrittori: da Dacia Maraini e Carmen Covito a Nicola La Gioia e Christian Raimo, passando da Antonio Pascale e Tommaso Pincio.

Nell’ampissima produzione “aziendale” degli ultimi vent’anni, fanno apparizione nuove figure (telefoniste, corrieri, clandestini, badanti, trader…), tra cui primeggiano incontestabilmente i flessibilissimi operatori del “cognitariato”, precari che svolgono lavori di tipo intellettuale o creativo. Anche le ambientazioni cambiano: significativi sono i “non luoghi” dell’economia del nuovo millennio, come il call center, i paesaggi periferici segnati da fabbrichette e capannoni, le aree abbandonate, di cui colpiscono la desolazione e la disumanizzazione. Affiora talvolta una sorta di nostalgia per un mondo scomparso, quand’anche fosse stato quello del duro lavoro nelle miniere o alla catena di montaggio: il mondo del lavoro di ieri (per molti aspetti non certo migliore di quello attuale) è rimpianto o cantato con toni epici perché visto come un mondo in cui il sacrificio del lavoro era “ricompensato” dall’utopia di una radicale trasformazione sociale.

Includiamo infine in questa panoramica, ampia ma affatto esaustiva, tre recenti romanzi che impongono una scomoda riflessione: Works di Vitaliano Trevisan (2016) è un memoir in cui l’autore/protagonista racconta vent’anni di esperienze lavorative fallimentari, esprimendo una forma di resistenza individuale al lavoro che trova infine soluzione nella carriera letteraria; Robledo di Daniele Zito (2017) si presenta come un’edizione postuma degli appunti di un giornalista, Michele Robledo, che ha investigato su una misteriosa organizzazione clandestina rivoluzionaria i cui membri, dei Ghost Class Heroes, si liberano dal precariato suicidandosi sul posto di lavoro. La donna capovolta di Titti Marrone (selezione premio Strega 2019) racconta le storie parallele di una professoressa la cui anziana madre necessita assistenza, e della badante moldava che la sostituisce nell’ingrato ruolo di cura; alternando i punti di vista mette profondamente in questione le assegnazioni di genere, svela la porosità tra intimità e sfera lavorativa, evidenziandone la portata politica.

Per concludere, sottolineiamo un punto in comune della letteratura del lavoro degli ultimi anni con la precedente letteratura industriale: la ricerca di nuovi linguaggi, che prende tuttavia direzioni diverse, orientandosi verso innovanti forme di realismo e privilegiando le modalità spurie della “non fiction”: utilizzo di testimonianza, documento, intervista, inchiesta, reportage, cronaca, (auto)biografia, saggio; ricorso a un’ampia gamma di materiali, generi paraletterari, registri linguistici bassi. Si tratta insomma di una produzione letteraria esperienziale, ibrida, fattuale più che finzionale, sempre in stretto contatto con l’attualità.

E in effetti, questi libri, parlando di lavoro o di non lavoro, parlano di tutta la società italiana oggi, mettendo sotto la lente di ingrandimento quanto avviene sotto i nostri occhi, le situazioni con cui ci confrontiamo giorno per giorno. Non solo danno linfa vitale alla letteratura, rilanciando la sua capacità di conoscenza, di comprensione, di prefigurazione, ma ci invitano a ripensare il mondo in cui viviamo, a essere cittadini consapevoli, attori del presente, soggetti responsabili del futuro, nostro e delle generazioni che verranno.

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Silvia Contarini

professoressa ordinaria di letteratura e civiltà dell’Italia contemporanea all’Université Paris Nanterre. Codirige il Centre de Recherches Italiennes (CRIX) e dirige la rivista Narrativa. Si occupa di avanguardie/neoavanguardie, letteratura e lavoro, letteratura ipercontemporanea, letteratura coloniale, postcoloniale, migrante, nonché studi femminili e di genere.

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