Leggere Morante con Morante (con buona pace di Manzoni) #2

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Una montagna è una montagna (e questa è l’acqua).

 

Proseguiamo un ragionamento che – chi ha letto ricorderà – nasceva da una provocazione: serve più Morante e meno Manzoni per la coscienza morale e civile (oltre che estetica) dei nuovi italiani? Abbiamo esaminato nel confronto con Manzoni alcune essenziali per i due romanzi: l’idea di Storia e la finalità dell’arte. Arrivo ora al nodo cruciale: la diversa idea di realtà nel romanzo storico e neostorico. Ci aiuta, ancora una volta, il confronto con altri scritti di Morante e il saggio di Monica Zanardo, già impiegato nella prima parte di questa riflessione: «Per amore degli uomini, e a gloria di Dio». Autocommenti a La Storia (in “Nacqui nell’ora amara del meriggio”. Scritti per Elsa Morante nel centenario della nascita, a cura di Eleonora Cardinale, Giuliana Zagra, Roma, BNCR, 2013, p. 217-229 [ISSN 1723-9222], qui citato da “Quaderni della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma”, pp. 94-105).

Il vero per soggetto

Per Manzoni, però, il tema del realismo si lega a un’aporia che infine lo porterà a ritenere impraticabile la via delle narrazioni miste di storia e invenzione poetica: il problema mi pare anzitutto terminologico perché, nella riflessione di Manzoni, al Vero poetico e al Vero storico si accosta anche il tema per lui più alto della Verità ultima.

In realtà, a confrontare i due autori, risultano evidenti le convergenze: sia Manzoni sia Morante scelgono per protagonisti gli ultimi, assegnano all’esistenza dei personaggi di finzione un carattere di verità/realtà almeno esemplare e tributano alla Storia una funzione determinante nel racconto, non certo quella di sfondo o cornice. È proprio la via del realismo, che nel pieno Ottocento ritroviamo nei romanzieri russi e francesi, i quali però più spesso scelgono una narrazione collocata nella contemporaneità, per cercare di comprendere le dinamiche che regolano le relazioni umane, intese anche come rapporti di forza. Nell’età del Positivismo e del Realismo c’è persino chi pensa che la realtà possa porre il romanzo (sperimentale) al servizio delle scienze politiche e sociali, dunque del progresso – il che appunto implica una buona fiducia nelle possibilità della Storia.

Morante però non ha questa fede, il suo punto di vista è più vicino al fatalismo verghiano, perché ha vissuto dentro una modernità di cui ha potuto cogliere tutte le contraddizioni. Molti criticano tanta disperazione, ma pochi capiscono: Natalia Ginzburg si dice commossa fino alle lacrime dal «romanzo più bello di questo secolo» e Anna Maria Ortese scrive parole memorabili. «Della letteratura non ci ricordiamo, e questo è bene. Ma sì del dolore umano. E questo dolore, che è intramontabile, diviene l’ombra che va avanti, la musica funebre della gioia che finì, ma in eterno porrà quesiti alla ragione» (si legge qui).

Il 20 ottobre 1974, dunque, a pochi mesi dall’uscita e nel pieno fervore del dibattito che ne seguì, Enzo Siciliano dedica una puntata della trasmissione “Settimo giorno. Attualità culturali” proprio al romanzo, nella quale a patrocinare la causa della scrittrice è il critico Cesare Garboli. Mi colpisce il ritratto che egli ne fa, riconoscendole un “temperamento leopardiano” che si caratterizza come «un massimo di pessimismo e un massimo di ottimismo vitale», elementi che danno all’universo morantiano la fisionomia di un «materialismo religioso». C’è inoltre in Morante, secondo Garboli, «un forte senso della realtà che però la porta nella direzione del fiabesco, del meraviglioso, del cavalleresco addirittura». Per comprendere tanto il materialismo religioso quanto il matrimonio tra realtà e fiaba (due ossimori molto efficaci), dobbiamo appunto tornare agli autografi analizzati da Monica Zanardi e rintracciare nelle carte la genesi del profondo senso del sacro e del tragico che attraversa il romanzo di cui parliamo. Scrive Morante negli appunti per la presentazione del romanzo: «S’intende che anche questo, come ogni racconto, non avrà un solo significato, ma molti, e su diversi piani. Ringrazio e amo quei lettori (pochi?) che sapranno capire anche la sua ragione ultima senza la quale in realtà, io non avrei avuto la necessità di scriverlo» (Zanardi, p. 101).

Questa ragione ultima è meglio esplicitata nelle prime righe di quella stessa nota autografa: «Ci sono esempi sacri e famosi di esseri illuminati che si sono assunti il peso di tutto il male del mondo, fino a venirne distrutte; ma è possibile che un tale destino possa toccare creature innocenti, e ignoranti di ogni male, al punto da consegnarsi inconsapevoli al sacrificio? È questa la domanda iniziale dalla quale è nato il presente libro. Naturalmente, era previsto fino da principio che una risposta a questa domanda fosse impossibile, come è impossibile, al caso, definire di chi sia la colpa, e se, anzi, una colpa esista.» (Zanardi, p. 99). Il problema della realtà è dunque legato allo scioglimento di un enigma vecchio come il mondo: unde malum? e anzi, con più precisione, che senso ha il male innocente? Nel quesito dostoevskiano è la ragione stessa del romanzo, che perciò si incentra sul piccolo Useppe (e sui suoi reiterati “pecché pecché pecché”), e anche su Ida, della quale si dice: «Nei suoi grandi occhi a mandorla scuri c’era una dolcezza passiva, di una barbarie profondissima e incurabile, che somigliava a una precognizione. Precognizione, invero, non è la parola più adatta, perché la conoscenza ne era esclusa. Piuttosto, la stranezza di quegli occhi ricordava l’idiozia misteriosa degli animali, i quali non con la mente, ma con un senso dei loro corpi vulnerabili, “sanno” il passato e il futuro di ogni destino. Chiamerei quel senso […] il senso del sacro: intendendosi, da loro, per sacro, il potere universale che può mangiarli e annientarli, per la loro colpa di essere nati» (La Storia, 1974, p. 21).

L’interessante per mezzo: i venticinque lettori

Il “come” (la lingua, lo stile), nel suo rapporto con il “cosa” (l’oggetto), è lo specifico della letteratura: lo racconta bene la lunga storia redazionale della maggiore opera di Manzoni, che, come ben sappiamo, si pone il problema della lingua anche per dare al romanzo la possibilità d’essere realmente popolare, ossia accessibile a un pubblico non erudito. Inoltre, prima che l’Italia fosse, egli sente la necessità di parlare agli italiani con una lingua che non sia più solo letteraria.

Anche per Morante il problema linguistico si lega strettamente al pubblico: posto che si abbia l’ambizione di parlare a tutti (o a tutti tranne che ai “letterati”), con quale lingua e attraverso quale voce? La quarta di copertina esplicita la scelta «di un linguaggio comune e accessibile a tutti», una «difficile semplicità»: ecco allora la mimesi della lingua dialettale e del gergo infantile, che si spinge ben oltre manzoniana del toscano d’oggidì parlato anche dal contadino operaio lombardo Renzo Tramaglino.

La differenza maggiore, però riguarda la voce narrante: Morante parla di qualcosa che ha sperimentato e attraversato personalmente, non di ciò che ha ricavato da una ricerca d’archivio. Perciò riproduce parole e accenti che ha ascoltato, e racconta fatti che l’hanno vista testimone. E i lettori a cui idealmente si rivolge non sono culturalmente così diversi da alcuni personaggi del romanzo: perciò, tra autrice e lettori, passa una particolare corrente emotiva – elemento poco compreso e molto criticato, benché sia proprio ciò che palesa la “simpatia” della scrittrice nei confronti dei personaggi.

Negli appunti autografi redatti in vista della presentazione troviamo alcuni passaggi che aiutano a comprendere meglio la voce narrante: «All’origine, questo libro voleva essere scritto contro la Storia, contro la guerra, contro la violenza. Ma scrivendolo mi sono accorta che scrivere contro è ridicolo. Lo scrittore e il poeta non sono giudici ma testimoni» (Zanardi, p. 100). Da Elsa Morante comprendiamo che la testimonianza non è elemento accessorio all’arte e che il dato esperienziale non rende meno “poetica” la scrittura; al contrario, si può essere scrittori proprio in quanto testimoni. Morante fa di sé stessa il personaggio della narratrice-testimone, ponendosi nella posizione che la narrativa italiana ha già conosciuto del racconto di Primo Levi.

Anche la riflessione sulla colpa richiama Levi (e Weil), ma, quando Morante dubita che una colpa vi sia, intuiamo la prospettiva leopardiana: il mondo è una macchina del potere, incosciente e irredimibile, eppure non si esclude una possibile felicità: i felici pochi (Morante ne ha scritto ne Il mondo salvato dai ragazzini, Einaudi 1968) sono paradossalmente gli innocenti sconfitti, come Useppe e Ida, ma anche coloro che custodiscono nella propria coscienza un’anarchica astensione dalla lotta per il potere, e, come il drammatico personaggio di Davide Segre, provano a restare faticosamente fedeli alla felicità, sensibili alla bellezza.

Questa è la montagna, anzi: questa è l’acqua.

Concludo con uno strano personaggio che si aggira nelle carte autografe di Elsa Morante. Lo ritroviamo negli appunti che rammentano il fallito progetto del romanzo eloquentemente intitolato Senza i conforti della religione (con tutta probabilità abbandonato per la scrittura de La storia, che ne è in qualche modo figlia): «Io mi ricordavo spesso della confessione di un sapiente orientale, da me letta non so più dove. Quel sapiente raccontava che, prima di avere studiato, lui vedeva le montagne come montagne, e le acque come acque. Poi, dopo avere studiato per trenta anni, arrivò a un punto in cui vide che le montagne non erano montagne, e le acque non erano acque. Ma alla fine capì la vera realtà: ossia che è giusto vedere le montagne come montagne e le acque come acque.».

Vi ricorda nulla? A me ha richiamato l’incipit del discorso che David Foster Wallace dedica ai laureati del Kenyon College nel 2005 – uno scritto che ho molto caro e che mi piace proporre agli studenti e alle studentesse di quinta come una specie di viatico. Lo scrittore americano si interroga sul senso dell’educazione umanistica e ne individua lo specifico in una forma di consapevolezza che rompe la configurazione base del pensiero comune, quella per cui ciascuno vive nella convinzione automatica d’essere il centro del mondo. Dice in conclusione: «La Verità con la V maiuscola è sulla vita PRIMA della morte. È sul valore reale di una vera istruzione, che non ha quasi nulla a che spartire con la conoscenza e molto a che fare con la semplice consapevolezza, consapevolezza di cosa è reale ed essenziale, ben nascosto, ma in piena vista davanti a noi, in ogni momento, per cui non dobbiamo smettere di ricordarci più e più volte: “Questa è acqua, questa è acqua.”»

Sono passati esattamente quarant’anni dal discorso Pro o contro la bomba atomica, trenta dal romanzo La storia, escludiamo qualsiasi parentela ideale (la storiella di DFW non è neppure la stessa). Ma è proprio Morante a offrirsi come maestra nel talento anarchico di tenere insieme testi molto diversi: i vangeli di Luca e Matteo e la filosofia zen, Omero e Leopardi, Simone Weil e Fanon. Quello che per altri sarebbe un confuso e dolciastro sincretismo per lei è attitudine a leggere i libri come una cosa vera, cercando in essi ciò che più le sta a cuore, ossia, da scrittrice, «tutto ciò che accade, tranne la letteratura», per citare Pro o contro la bomba atomica.

Confido che studenti e studentesse abbiano un grandissimo desiderio di Realtà, ossia di Verità con la V maiuscola. Non che Manzoni ne sia privo (tutt’altro), ma mi pare che oggi egli sia sentito come un avo lontano: il suo sguardo di fondo resta per noi quello di chi non poteva sapere né immaginare un tempo di là da venire, segnato dalla violenza sterminatrice dell’era atomica, da una confusa postmodernità e, oggi, da altre spaesanti rivoluzioni tecnologiche e culturali. Certo per chi non ha ancora vent’anni anche l’età di Elsa Morante è archeologia, ma è certamente un’età più prossima a noi e con un rapporto più stretto con ciò che interessa l’Italia attuale, con le sue contraddizioni.

Dunque diciamo pure che la boutade non diventerà una proposta al Ministro, ma, se proviamo a sentire lo spirito del nostro tempo, turbato da venti di guerra, se abbiamo il coraggio di ascoltare ciò che sgomenta o spaventa, forse converremo che c’è qualcosa che rende Morante dolorosamente più urgente di Manzoni, ed è proprio lo scandalo insieme alla certezza che, come nell’explicit del romanzo, la Storia continua.

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Elena Rausa

Docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: “Le invisibili” (Neri Pozza, 2024), “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza, 2018), “Marta nella corrente” (Neri Pozza, 2014).

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