Leggere Morante con Morante (con buona pace di Manzoni) #1

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Le ragioni dell’arte nell’era “atomica”. L’epica degli ultimi nel romanzo storico e neostorico. L’utile per iscopo.

Elsa Morante, lo sappiamo, è la sola autrice donna a cui il legislatore riconosca la dignità d’essere nominata tra gli scrittori che compongono il corredo letterario dei maturandi italiani, seppure tra i consigliati piuttosto che tra gli imprescindibili. Qualche settimana fa ho un po’ scherzosamente e molto superficialmente ipotizzato, su uno dei miei profili social, che alla coscienza civile degli italiani e delle italiane farebbe bene dedicare a La storia di Elsa Morante almeno lo stesso tempo che la scuola dedica ai Promessi sposi. Qualcuno ha preso sul serio la boutade, se ne è parlato in un incontro online del gruppo di lettura diretto da Demetrio Paolin e ora approfitto di questo spazio per salvare qualcosa del tanto che è stato detto.

La prendo (al solito) molto larga, dando per scontati i principali aspetti di contestualizzazione e trama, e mi affido a quel che emerge da uno studio di Monica Zanardo, ricercatrice impegnata da anni nella disamina delle carte autografe della scrittrice, in massima parte inedite, da lei raccolte e commentate in: «Per amore degli uomini, e a gloria di Dio». Autocommenti a La Storia (in “Nacqui nell’ora amara del meriggio”. Scritti per Elsa Morante nel centenario della nascita, a cura di Eleonora Cardinale, Giuliana Zagra, Roma, BNCR, 2013, p. 217-229 [ISSN 1723-9222], qui citato da “Quaderni della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma” [https://hal.science/hal-01314756], pp. 94-105).

Gli autografi della scrittrice e anche alcuni altri testi non narrativi (appunti di presentazione e comunicati e articoli per il lancio del romanzo, quarta di copertina e prefazioni alle edizioni straniere) offrono una percezione più nitida delle istanze etiche e poetiche alla base dell’opera, che quest’anno compie cinquant’anni. Possiamo misurare la tenuta del progetto e della sua realizzazione attraverso quel corredo di enunciati teorici, che non manchiamo di toccare, almeno superficialmente, quando avviamo le classi alla lettura de I promessi sposi: il problema della lingua, le diverse redazioni, il rapporto tra vero storico e vero poetico, solo per dirne alcuni. Il poco o il tanto che le mie classi trattengono, di solito, gira attorno alla nota formula proposta nella Lettera sul Romanticismo, al marchese Cesare D’Azeglio: «l’utile per iscopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo». Proviamo dunque ad articolare sulla base di queste tre categorie un confronto tra i due romanzi, ma prima chiamiamo in causa la definizione del genere letterario.

L’epica degli ultimi nel romanzo storico e neostorico

Quando nel 1974 La storia uscì fu ben chiaro che l’autrice auspicava ben più di 25 lettori: ottenne infatti dall’editore un prezzo irrisorio e fuori mercato (2 mila lire per oltre 600 pagine) e una tiratura ingente, ma non si trattò di mero calcolo economico. L’operazione editoriale faceva tutt’uno con le esigenze intrinseche del romanzo che ha per oggetto la Storia intesa come «lo scandalo che dura da 10 mila anni». Insieme al titolo, Morante curò ogni aspetto della pubblicazione: quarta di copertina, comunicati per il lancio e la presentazione, probabilmente anche la foto di Robert Capa, tinta di rosso sangue e con il corpo del bambino morto tra le macerie, che però non compare più nelle recenti edizioni, epurata insieme al sottotitolo. I gusti e le sensibilità cambiano, e ai lettori di oggi gli “inciampi” a cui il termine scandalo allude non piacciono, diranno i maestri del publishing. Ma c’è da chiedersi se le logiche della comunicazione non finiscano per tradire i voti dell’autrice.
In quella prima edizione (la stessa in cui ancora leggo) la quarta di copertina sintetizza tutti i valori fondamentali del romanzo: l’essere nato dall’esperienza della scrittrice, l’essere, per precisione, il condensato della sua massima esperienza «dentro la Storia»; infine la volontà di parlare a tutti; attraverso un linguaggio comune e accessibile. All’uscita dal romanzo l’autrice stessa compose un articolo di lancio intitolato Il 19 luglio 1943 («Il Messaggero», 16 giugno 1974, p. 3), nel quale l’occhiello precisava: «In un nuovo romanzo italiano, l’epica dei tempi moderni: dove definitivamente gli eroi non sono coloro che manovrano la macchina del potere, ma gli altri, che la subiscono».

La scelta dei termini, va da sé, non è casuale, e accende in chi legge una serie di inferenze spontanee che vanno dall’assunto hegeliano (il romanzo come moderna epopea borghese) alle reminiscenze classiche. Se dovessimo articolare su questo punto un confronto con i Promessi sposi, dovremmo riconoscere che la comune scelta antieroica (gli ultimi come protagonisti) non basta a creare un’equivalenza tra le due opere: i Promessi sposi sono, anche, il romanzo di formazione di un giovane del popolo, che prende coscienza del suo stato e con molta fatica (e provvidenziale fortuna) affranca la propria stirpe da una sudditanza quasi feudale, attraverso il lavoro di tessitore in una terra libera. Renzo insomma è un personaggio che evolve e si assume con l’aiuto di Lucia il compito di far perdurare nel nuovo status sociale la pietas propria della sua umile provenienza, arricchita dall’esperienza del mondo.

Al contrario, per Ida, Nino e Useppe non c’è alcuna possibilità di riscatto: il loro “scandalo” è più prossimo a quello della famiglia Malavoglia, schiacciata dalla fiumana del progresso, ma è proprio il progresso il grande assente per Morante, anzi la più grande delle menzogne.

Zanardo segnala che, negli anni della redazione del romanzo, Morante rileggeva l’Iliade con l’ausilio di Simone Weil, che definiva l’opera omerica il «poema della forza». Si comprende bene il rapporto tra la forza bellica di cui parla Weil e la «macchina per il potere» a cui fa riferimento la scrittrice italiana; gli eroi della moderna epopea sono «quelli che la subiscono» e questo è anche un segno dei tempi. L’epoca di redazione del romanzo, segnata da un grande fermento politico-culturale: la riflessione estetica ed etica sull’arte si apriva a una prospettiva politica che guardava con solidarietà a tutti gli oppressi e (mi ricorda giustamente Paolin) rifletteva sul tema della “fine del mondo” in termini nuovi, come di qualcosa che non è di là da venire ma che è già stato ed è per molti popoli sconfitti o marginalizzati. Sono questi i “dannati della terra”, per citare l’omonimo saggio di Francis Fanon, che Morante ha certamente presente, poiché, nella prefazione all’edizione americana del romanzo del 1977, fa propria una sua significativa affermazione: «diventerà cieco chi non legge nei loro occhi un’unica perpetua domanda» (Zanardo, p. 103).

La moderna epopea morantiana rovescia dunque il sistema valoriale dell’epopea borghese, ponendo al centro della scena proprio coloro che non solo sono inesorabilmente schiacciati da un sistema di potere che è anche espressione della classe borghese, ma per i quali non esiste alcuna consolazione possibile. Così recita anche la citazione in esergo del sopravvissuto di Hiroshima: «Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte».

L’utile per iscopo

Manzoni, come sappiamo, attribuiva all’arte una finalità educativa civile e morale, secondo il concetto antico per cui compito dell’artista era docere et delectare. Le ragioni di Morante sono un po’ diverse: una sfiducia nella Storia più che leopardiana mina l’ipotesi che l’arte abbia una finalità pedagogica. Qual è dunque la sua utilità?

Nel 1976, sulle pagine del Corriere della Sera e dell’Unità, Morante rende note le ragioni che l’hanno portata a recidere il contratto con gli editori spagnoli del romanzo, in ragione di una traduzione che ha omesso alcuni passaggi chiave del testo per ragioni di censura, e in quel frangente scrive: «prima ancora che un’opera di poesia (e questo, per grazia di Dio, lo è) il mio romanzo La Storia vuol essere un atto d’accusa contro tutti i fascismi del mondo. E insieme una domanda urgente e disperata, che si rivolge a tutti, per un possibile risveglio comune» (Zanardo, p. 94).

Comprendiamo che l’istanza etica è centrale anche per lei, che segue una via bene esplicitata da due testi precedenti, Pro o contro la bomba atomica (1965) e Il mondo salvato dai ragazzini (1968), non a caso citati nella quarta di copertina del 1974. In questi testi la riflessione mostra in filigrana Weil e Fanon, ma forse anche Albert Camus, che nel 1957, ricevendo il Premio Nobel, si esprimeva così: «La missione dello scrittore è fatta ad un tempo di difficili doveri; per definizione, non può mettersi oggi al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono. O, in caso contrario, lo scrittore si ritrova solo e privo della sua arte. Tutti gli eserciti della tirannia con i loro milioni di uomini non lo strapperanno alla solitudine anche e soprattutto se si adatterà a tenere il loro passo. Ma il silenzio di un prigioniero sconosciuto ed umiliato all’altro capo del mondo sarà sufficiente a trarre lo scrittore dal suo esilio, ogni volta, almeno, che arriverà, pur nei privilegi della libertà, a non dimenticare questo silenzio e a divulgarlo con i mezzi dell’arte». E più oltre: «Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga».

Chi abbia letto la trascrizione della conferenza Pro o contro la bomba atomica (Adelphi, 1987, qui citato), che nel 1965 Elsa Morante pronunciò nei teatri di Torino, Milano e Roma, non potrà che riconoscervi più di qualche punto di contatto con la lezione di Camus: laddove si dice che la vera centrale atomica è nella coscienza di ciascuno, che la bomba atomica è il fiore (ossia la più tipica espressione) della società contemporanea, e che da ciò si evince come l’istinto di morte abbia prevalso sull’istinto di vita, fino alla «disintegrazione delle coscienze».

Mi si perdonerà la parafrasi di un testo che invece (anche per la misura contenuta) si presta particolarmente a un’analisi in classe: uno stretto procedimento argomentativo introduce una riflessione politica ed estetica allo stesso tempo; e credo piacerà ai più giovani anche la distinzione che Morante stila tra i letterati, a cui importa solo della letteratura, e lo scrittore-poeta, ossia «colui a cui sta a cuore tutto quanto accade fuorché la letteratura». Compito di questo tipo di scrittore, e dell’artista in genere, è salvare la «realtà» e con ciò «impedire la disgregazione della coscienza umana». Come fa «Geppetto, quando mostra a Pinocchio (che ormai ha preso la sua figura finale di vera persona umana) la spoglia del burattino, miseramente rovesciata sulla sedia; e intanto gli mette davanti uno specchio, dicendogli: “Ecco, invece, quello che tu sei”».

Abbiamo dunque svelato l’utilità dell’arte secondo Morante? In parte sì, ma c’è anche nel romanzo La Storia una componente ermeneutica, d’inchiesta filosofica, su cui varrà la pena tornare nella seconda parte della nostra riflessione.

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Elena Rausa

Docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: “Le invisibili” (Neri Pozza, 2024), “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza, 2018), “Marta nella corrente” (Neri Pozza, 2014).

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