Le signore del Decameron (e i loro corpi) #2

Tempo di lettura stimato: 8 minuti
Continua il nostro viaggio nel capolavoro di Boccaccio volto a esaminare i personaggi femminili delle novelle, i loro successi, le violenze di cui furono vittime, le avventure e le disavventure che le ebbero protagoniste.

Le monache di Masetto, fu vera ipocrisia? (III.1)

Attratto dalla possibilità di diventare giardiniere in un monastero di nove monache, Masetto si finge sordomuto per suscitare la compassione della badessa e farsi assumere. Il che puntualmente avviene. Come puntualmente avviene che prima due consorelle, poi tutte fino alla superiora si prendono da Masetto quello che il voto di castità avrebbe loro precluso.
Affaticato dalla ginnastica conventuale, Masetto alla fine rivela alla badessa la sua messinscena e di fronte alla possibilità di uno scandalo la monaca-Ceo lo promuove da giardiniere a «castaldo», cioè amministratore, tenendolo sempre con sé e rendendolo padre di svariati figli.

Sarebbe fin troppo facile vedere in questa novella la solita invettiva anticlericale contro l’ipocrisia dei religiosi e delle religiose, costrette a un celibato contro natura, disatteso nei fatti. Nel caso delle monache bisogna tener presente che migliaia e migliaia di ragazze – come ci ricorda la manzoniana Gertrude – furono indotte a prendere i voti contro la propria volontà, mentre le loro sorelle apparentemente più fortunate si sposavano e vivevano con minori costrizioni. La vera ipocrisia non era quella delle monache, vittime di un sistema che temeva più della peste la libertà delle donne, ma di chi tale sistema perpetuava, autorizzando monacazioni forzate e segregando stuoli di giovani donne in monasteri-ghetto.

Giletta di Narbona, una dottoressa per moglie (III.9)

Il re di Francia è indisposto: ha una fistola, e la giovane e ricca figlia di un medico, Giletta di Narbona, in premio dell’accordata guarigione chiede come marito Beltramo di Rossiglione, da lei amato per averlo frequentato da piccola. Il conte, inorridito dall’avere «medica per mogliere» come il Giasone del mito, accetta la regale imposizione, ma, per non dover consumare il matrimonio, si dà al mestiere delle armi, in Toscana. Giletta, diventata contessa di Rossiglione, governa da sola, risana la regione rimasta senza il suo feudatario e ottiene che il giovane Beltramo si innamori davvero di lei facendogli credere di essere un’altra ragazza di cui si era invaghito. Questa seconda donna esce di scena, destinata a ben più modesto matrimonio, mentre Giletta, incinta di due gemelli (prodigio nel prodigio secondo i racconti del tempo), è finalmente riconosciuta come degna sposa da Beltramo.

Più che in tutte le altre novelle, in questa di Giletta il personaggio femminile, pur muovendosi sempre secondo le regole del tempo, mostra un’indipendenza forse derivante dalla sua estrazione “borghese”. Ben prima che le donne fossero ammesse nelle facoltà di Medicina, Giletta è infatti «medica», femminile singolare.

Alibech, esorcista (III.10)

Tra le novelle più boccaccesche (e perciò censurate) del Decameron, quella di Alibech, un tempo presentata tra le crasse risate del pubblico, oggi va inquadrata nel suo contesto: e per l’età della protagonista (14 anni, tipica di tante giovani spose nel Trecento) e per i rapporti sessuali a cui un religioso la induce, come nel caso di Alatiel, apparentemente con il suo consenso. Alibech però è un’ingenua, non è esperta di pratiche sessuali e, volendo diventare una eremita, si fida di frate Rustico, l’unico ad accoglierla sfidando la possibilità che sia una tentazione diabolica, e della sua proposta ascetica («mettere il diavolo in Inferno», metafora fin troppo trasparente, insieme con quella della «resurrezion della carne»). Questi, inizialmente compiaciuto e poi sfinito dalle richieste di continui esorcismi, è presentato come vittima dell’ardore giovanile di Alibech ed è infine ben felice di renderla a Neerbale, un cacciatore di dote disposto a sposarla senza troppo sottilizzare sull’accertamento della verginità della futura sposa.
Alibech dunque sembra dare ragione alla morale di tanti se non tutti i racconti decameroniani: la natura, gli istinti, a partire da quelli sessuali, vincono su qualunque costrizione, sociale, culturale o metaforica che sia. Ma siamo certi/e che questa lezione sia una vittoria per le donne? Alibech è davvero padrona del proprio corpo e del proprio piacere? O non è forse una inconsapevole compagna di Alatiel, africana come lei? La discussione è aperta.

Bernardino Mei, Ghismonda con il cuore di Guiscardo, 1650-59, olio su tela, XVII-XVIII secolo (Siena, Pinacoteca Nazionale).

Ghismonda, morta emancipata (IV.1)

La novella di Ghismonda, che inaugura la giornata dedicata agli amori dall’«infelice fine», tra le più lette a scuola, è normalmente interpretata in chiave psicoanalitica: l’affetto morboso del padre vedovo, il principe salernitano Tancredi, per la figlia, nella cui camera si intrattiene fino a scoprirne la relazione con il valletto Guiscardo, pieno di virtù ma «di nazione assai umile». Tanto che il racconto è appunto noto come la novella «di Tancredi e Ghismonda». Ossessionato dalla figlia (come nella fiaba di Pelle d’asino), il padre fa uccidere il povero Guiscardo, ordinando di preservarne il cuore (come nella fiaba di Biancaneve), che verrà consegnato all’innamorata in una «coppa d’oro». A nulla valgono le argomentazioni della ciceroniana Ghismonda, che si appella alla naturalità dell’amore, all’uguaglianza biologica («tutti nascemmo e nasciamo iguali») su cui la virtù agisce come discrimine, alla scelta di un amante voluto («con diliberato consiglio»). E con fermezza Ghismonda porta a termine il suo progetto suicida, sottovalutato dal padre. Boccaccio sottolinea a più riprese che dei due la persona che dimostra animo virile è lei: Tancredi (chiamato per nome anziché con il titolo di «padre» o «signore») piange come «le femine», mentre Ghismonda agisce «senza fare alcun feminil romore». Come tante eroine classiche, Ghismonda è l’eccezione con cui gli autori confermano la regola della potestà maschile. La società non ammetteva l’indipendenza femminile nella vita; solo dopo la morte Ghismonda e Guiscardo possono giacere insieme, nella stessa tomba.

Lisabetta da Messina, testo consumato (IV.5)

La stessa volontà prevaricante che ha animato l’aristocratico Tancredi colpisce i tre fratelli mercanti di Lisabetta. Anche loro, accortisi di una relazione non gradita con il collaboratore Lorenzo, procedono alla sua soppressione, ma in questo caso la vicenda si complica. Diversamente da Tancredi, i tre fratelli occultano il cadavere dell’ucciso (pratica ancora tristemente vivissima), che però appare in sogno a Lisabetta indicandole il luogo della sepoltura. La giovane, con un senso pratico degno dei suoi parenti mercanti, lo disseppellisce e, novella Giuditta, ne stacca la testa, conservata in un vaso («testo») di basilico quotidianamente innaffiato dalle lacrime. Caduta in uno stato di depressione catatonica, Lisabetta viene notata dai vicini, che informano i fratelli; questi, dopo aver scoperto il contenuto del vaso, riseppelliscono la testa e lasciano Messina, abbandonando Lisabetta, che non ribatte, a un dolore che la consumerà.

Se Ghismonda reagisce alle ingiustizie con gesti eclatanti, Lisabetta si sfoga in maniera più riservata, secondo il suo carattere; ma nemmeno lei manca di spirito decisionale. Entrambe sono vittime di un ambiente che non ne ammette l’iniziativa (l’inglese agency) e per questo lo sbocco inevitabile della difesa a oltranza delle proprie azioni è la morte, l’annullamento fisico conseguente alla negazione del riconoscimento da parte della società.

Maestro di Jean Mansel, Il seppellimento di Lorenzo e il suo successivo ritrovamento, 1430-50, tempera su pergamena (Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal).

La moglie di Guglielmo Rossiglione, ignara cannibale (IV.9)

In Provenza, nella stessa contea di Beltramo e Giletta, si verifica un altro delitto d’onore: Guglielmo di Rossiglione, scoperto l’amore della moglie per Guglielmo Guardastagno, suo amico e compagno d’armi, medita tremenda vendetta. Asserragliatosi nel silenzio come tutti gli omicidi di questa triste giornata, organizza un agguato: attira il Guardastagno nel proprio castello, lo sorprende in un bosco vicino e lo uccide dandogli del «Traditor». Quindi il Rossiglione estrae il cuore dal cadavere e lo fa cucinare per la moglie come nella peggiore tradizione mitologica. Apprezzata la vivanda e scopertane la ricetta, la donna rivela di averlo amato liberamente («non isforzandomi egli») e si suicida buttandosi da un’alta finestra e così distruggendo il proprio corpo. Anche in questo caso l’assassino, temendo ritorsioni, lascia il Paese.

La novella dei due Guglielmi segna l’apice della serie di racconti di «infelice fine»: dall’omicidio di Guiscardo (con cuore estratto) a quello di Lorenzo (con testa staccata), a quello del Guardastagno (con cuore estratto e imbandito). In tutti e tre i racconti la donna coinvolta muore e il suo corpo, avvelenato (Ghismonda), consumato (Lisabetta) o distrutto (la moglie del Rossiglione), diventa strumento di ribellione contro le ingiustizie e i soprusi maschili. Sono femminicidi, per così dire, indiretti, ma solo in questo modo le donne riescono a mettere in luce l’inumanità dei loro carnefici, che, se fossero rimaste vive, nessun tribunale avrebbe giudicato colpevoli.


Leggi la prima parte qui.

Leggi la terza parte qui.

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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