Durante la Seconda guerra mondiale e la Resistenza le donne, come in parte già era successo durante la guerra del ’15-’18, hanno avuto la possibilità di ricoprire ruoli tradizionalmente maschili e di acquisire quindi una nuova identità. Improvvisamente irrompono sulla scena della Storia, svolgendo i compiti più disparati. Prima sostituiscono gli uomini impegnati al fronte sul posto di lavoro; poi, subito dopo l’8 settembre 1943, entrano nella Resistenza in vari modi: forniscono ai soldati abiti civili per sfuggire all’arresto, aprono le loro case per nasconderli, oppure imbracciano il fucile contro i tedeschi, si spostano, per lo più in bicicletta, per portare ordini, bombe e armi ai partigiani nascosti in montagna o in città. Mostrano dunque la loro capacità di combattere, di compiere azioni pericolose superando i posti di blocco con semplicità e sicurezza, di affiggere in piena notte manifesti che incitano alla lotta sui muri delle città, di procurare cibo, di mettersi a studiare frequentando le riunioni politiche:
Giovani o vecchie, le donne nella Resistenza crescono, scoprono talenti e risorse che non sapevano di avere. Imparano tanto, tantissimo, e non solo dall’esperienza.[1]
Queste e molte altre azioni sono state raccontate in avvincenti romanzi, racconti, diari, articoli di giornale, tutti scritti dalle donne. Negli anni della Resistenza e del successivo processo di ricostruzione e democratizzazione dell’Italia repubblicana, dunque, si assiste a una vera e propria esplosione della letteratura delle donne e per le donne. Si tratta di un momento aurorale, in cui finalmente esse sperimentano la libertà di confrontarsi dopo la lunga notte del fascismo, che non solo aveva soppresso le libertà individuali, ma le aveva relegate a un ruolo subalterno e passivo all’interno della società. Da una parte la guerra e la Resistenza avevano rafforzato il ruolo tradizionale del maschio che combatte, dall’altra avevano aperto alle donne la strada dell’autonomia materiale e psicologica. E le donne avevano colto l’opportunità, partecipando attivamente alla lotta contro i nazifascisti e cominciando a raccontare e a raccontarsi.
Dagli storici apprendiamo che il fenomeno Resistenza è molto complesso, e si configura in modo diverso tra nord e sud: l’Italia dopo l’8 settembre 1943 è spaccata in due, e mentre il sud viene gradualmente liberato dagli Alleati, al nord, dove si è instaurata la Repubblica Sociale italiana con la complicità dei tedeschi, la popolazione subisce la durissima occupazione tedesca, e i partigiani reagiscono combattendo strenuamente. Al sud, dall’autunno-inverno del 1943 e a Roma e in Abruzzo dal giugno del 1944, la gente può sperimentare una qualche forma di libertà dopo la partenza dei tedeschi, pur dovendo affrontare le stesse difficoltà economiche, la fame e la disoccupazione che continuavano a subire tutte e tutti gli italiani.
Il sud appena liberato, dunque, si configura come un grande laboratorio culturale aperto e molto ricco di stimoli, grazie alla presenza degli Alleati, che da una parte favoriscono la libera circolazione delle idee, ma dall’altra svolgono compiti di controllo sui mezzi di comunicazione italiani, per esempio attraverso il Psychological Warfare Branch[2]. I suoi centri nevralgici sono Bari, Napoli e Roma, dove molte donne sono impegnate nel ruolo di scrittrici, attrici, giornaliste, redattrici e annunciatrici in trasmissioni radiofoniche – queste ultime con il compito di incitare la popolazione a combattere contro i tedeschi, come Alba De Céspedes, e poi di ricostruire l’Italia sul piano della cultura e dei valori democratici, come ad esempio Anna Garofalo, Paola Masino, Fausta Cialente, che da Radio Cairo in Egitto, ricopre lo stesso ruolo di Alba De Céspedes e di Anna Garofalo, svolgendo un’importante attività politica e vivacizzando l’ambiente con le esperienze culturali più diverse.
Natalia Ginzburg
Al centro sud arriva anche Natalia Ginzburg, che dal 1940 al 1943 ha seguito il marito Leone al confino a Pizzoli in Abruzzo e dopo la sua morte, avvenuta nel febbraio del 1944 per le torture dei fascisti, si stabilisce a Roma, liberata da pochi mesi; per un certo periodo anche Elsa Morante, che con Alberto Moravia è fuggita da Roma, occupata dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, si rifugia a sant’Agata di Fondi, in provincia di Latina, per evitare che Moravia, di origine ebraica, fosse arrestato.
Nella scrittura di entrambe emergono molti aspetti della loro vita durante la guerra: all’esperienza del confino in Abruzzo vengono fatti brevi riferimenti da Ginzburg nelle Piccole virtù (1962), nel capitolo intitolato Inverno in Abruzzo, e nella Storia di Elsa Morante (1974), si può ritrovare qualche ricostruzione dell’ambiente della Ciociaria. Sempre nelle Piccole virtù Natalia Ginzburg riporta, in maniera molto succinta, la morte atroce di Leone nelle carceri di Regina Coeli, e in Lessico famigliare (1963) racconta la sua famiglia d’origine, ma anche l’attività politica svolta da Leone già a partire dagli anni Trenta all’interno del movimento “Giustizia e libertà” e poi nell’ambito della Resistenza.
Nel 1952 esce Tutti i nostri ieri, forse il più trascurato dei romanzi di Ginzburg, ambientato a Torino negli anni dal 1935 al 1945: è la storia di due famiglie le cui vicende si intersecano e si sovrappongono alla storia dell’Italia di quel periodo. Nel romanzo, tutti i personaggi sono impotenti di fronte al corso fatale della storia, e in particolare la giovane Anna, quattordicenne esclusa dalle riunioni antifasciste che hanno luogo nel suo salotto tra i fratelli e i loro amici, che riflette su quella che lei chiama po-litica:
«Po-litica», ripeteva pian piano, e adesso a un tratto le pareva di capire: ecco perché Danilo s’era messo a venire così sovente da loro: perché faceva politica con Ippolito e Emanuele. Le pareva di capire il salotto, le frasi in tedesco, Ippolito che si accarezzava la faccia con gli occhi inquieti che cercavano sempre qualcosa. Facevano politica nel salotto, facevano di nuovo una cosa pericolosa e segreta, com’era stato il libro di memorie. Volevano buttare giù i fascisti, cominciare la rivoluzione. Il padre aveva detto sempre che i fascisti bisognava buttarli giù, che lui sarebbe stato il primo a salire sulle barricate, il giorno della rivoluzione. Diceva che sarebbe stato il giorno più bello della sua vita. E invece la sua vita era passata senza che ci fosse quel giorno. Adesso Anna s’immaginava d’esser lei sulle barricate, con Ippolito e con Danilo, a sparare fucilate e a cantare. S’accostò piano piano al salotto, spinse adagio la porta. Erano seduti tutti e tre sul tappeto, con un gran pacco di giornali davanti, e si spaventarono molto a vederla entrare. Emanuele buttò il cappotto di Danilo sopra i giornali e le gridò di andarsene via e mentre lei se ne andava sentì Danilo che diceva a Ippolito che era stato un cretino a non chiudere la porta a chiave.[3]
Anna si rende conto del potere della politica, ma come donna ne è esclusa; nella seconda parte del romanzo emerge una sorta di disillusione nei confronti dell’azione politica, di sfiducia in un’idea ingenua di rivoluzione: questo sembra essere il pensiero dell’autrice, in un momento della sua vita caratterizzato dalla profonda sofferenza per la morte recente di Leone.
Renata Viganò
Il primo romanzo che ha come protagonista una partigiana è L’Agnese va a morire, di Renata Viganò, pubblicato nel 1949. Alcuni anni dopo, nel 1956, uscirà il Diario partigiano di Ada Gobetti, in cui racconta, da protagonista, della Resistenza a Torino e in Piemonte dal 1943 al 1945. Nel 1946 invece era stato pubblicato Fronti e frontiere, di Joyce Lussu, che presenta le rocambolesche avventure del periodo della clandestinità di Joyce ed Emilio Lussu, trascorso spostandosi in diversi paesi europei a partire dal 1940 fino al 1943.
Renata Viganò (1900-1976) ha partecipato attivamente alla Resistenza in Emilia-Romagna nel ruolo di staffetta e infermiera. L’Agnese va a morire, scritto con grande semplicità, con uno stile asciutto e antiretorico, ma proprio per questo intenso e commovente, è basato sull’esperienza di Viganò durante la guerra. Natalia Ginzburg, allora redattrice di Einaudi, lo aveva molto apprezzato e ne aveva caldeggiato la pubblicazione: «Un bellissimo romanzo partigiano. Magnifico stile misurato, sobrio, magnifici effetti di paesaggio. Tra i migliori libri sulla resistenza che si possano leggere»[4].
È ambientato nelle valli di Comacchio e narra la storia di una donna non più giovane, Agnese, una contadina-lavandaia che, rimasta vedova, decide di seguire i partigiani perché non ha altra scelta: è completamente sola e ha ucciso un soldato tedesco che per gioco aveva ammazzato la sua gatta. Agnese ha un’incredibile energia e tenacia nel lavoro, sia quando percorre a piedi o in bicicletta molti chilometri per consegnare armi, sia quando trasferisce scorte di cibo, legna e armi in nascondigli più sicuri, o quando si trova a gestire di una “caserma” di cinquanta uomini.
Lei era sempre pronta, anche quando si sentiva stanca, o si trattava di cose di non grande importanza, […] come quella volta che era un gran freddo, una ripresa di tempo rigido, e doveva andare ad avvertire una staffetta che Walter non poteva trovarsi all’appuntamento: con la cattiva stagione i piedi gli facevano ancora male.[5]
Pur essendo una donna semplice, matura una coscienza politica:
Perché le ragazze dei signori vanno a ballare con un vestito nuovo e io non posso andarci a causa del vestito vecchio? – Perché il mio bambino porta le scarpe solo la domenica? – Perché mio figlio va a morire in Africa e quello del podestà resta a casa? […] Lei adesso lo sapeva, lo capiva. I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri, e ignoranti, e umiliati. I ricchi guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle.[6]
Nei confronti del Comandante, Agnese è sempre in soggezione, si sente inferiore a lui, in primo luogo perché è donna, poi perché sa di essere priva di cultura. Spesso si sminuisce, ma è sempre pronta ad agire, obbedendo a qualsiasi ordine. Quando il Comandante le chiede un parere sul comportamento degli alleati risponde: «Io non capisco niente, […] ma quello che c’è da fare, si fa»[7]. Nonostante le difficoltà, si sforza di imparare: «Si sedeva in disparte, con la calza in mano, e se afferrava un argomento, una frase che le apparivano comprensibili, dopo ci meditava sopra, approvando per tutto il tempo che essi occupavano in altre cose, oscure per lei»[8].
Il personaggio di Agnese è così realistico da far pensare a una donna realmente vissuta. Sarà proprio l’autrice, dalle pagine de «L’Unità» del 17 novembre 1949, in un articolo dal titolo La storia di Agnese non è una fantasia, a testimoniare dell’esistenza di questa donna straordinaria:
la prima volta che vidi l’Agnese, o quella che nel mio libro porta il nome di Agnese, vivevo davvero in un brutto momento. Ero in un paese della Bassa, sola col mio bambino. Mio marito l’avevano preso le SS a Belluno, non ne sapevo più niente […] a causa dell’arresto di mio marito avevo perso i contatti con i compagni, […]. Venne l’Agnese, un giorno che stavo giù nel greto del fiume a guardar giocare il bambino sulla sabbia […] mi arrivò vicino con i suoi brutti piedi scalzi nelle ciabatte. Vidi per primi quei brutti piedi, ero tanto piena di odio e di pena che mi fecero schifo. Poi intesi la sua voce che diceva: “È lei la Contessa?” e allora tutto cambiò colore: mai il mio nome di battaglia mi aveva dato tanta gioia nel sentirlo pronunciare.[9]
Sull’analisi critica del personaggio di Agnese è stato scritto molto: per esempio Valeria P. Babini mette in evidenzia la novità nella rappresentazione del femminile:
La sua disobbedienza al plurisecolare ruolo domestico famigliare metteva in luce il dovere, per tutti e dunque anche per le donne, di scegliere, di parteggiare. Qualsiasi fosse la strada che avesse portato a prendere coscienza della necessità di schierarsi, era quella la via che restituiva all’essere umano la sua dignità, al di là di ogni appartenenza a ruoli, ordini o mansioni.[10]
Ada Gobetti
Per avere una testimonianza appassionata e sincera sulla Resistenza in Piemonte, e in particolare a Torino, è indispensabile leggere Diario partigiano di Ada Gobetti (1902-1968). Così la descrive Benedetta Tobagi:
è una figura completa, gigantesca eppure totalmente accessibile. Frequenta i massimi intellettuali antifascisti dell’epoca, […] ed è intellettuale lei stessa. […] Colta e razionale […] Cospiratrice di prim’ordine, non perde però occasione di prendersi in giro.[11]
Ada nel 1943 ha quarantun anni e un figlio, Paolo, di diciotto, nato pochi giorni prima della morte di Piero Gobetti, suo padre. Entrambi hanno un ruolo attivo nella Resistenza in val di Susa. Ada è stata un importante punto di riferimento per tutti gli antifascisti piemontesi, e ha raccontato nel Diario partigiano (1956) i venti mesi di intensa attività svolta tra la casa di via Fabro a Torino, la casetta a Meana, l’alta val Susa e la Francia, nel portare documenti, notizie, cibo e armi ai partigiani. Il suo racconto è vivace e privo di retorica, e da alcuni passaggi emergono le sue intense emozioni: la paura per la sorte di Paolo e le sue grandi qualità umane, come la pietà nei confronti di un giovane partigiano ucciso, che dovrebbe avere l’età di suo figlio:
Quanto a me, la mia angoscia era giunta ormai a quel punto in cui, provvidenzialmente, si trasforma in stolida, se pur dolorosa indifferenza.[12]
No, non era Paolo, anche se non se ne scorgeva il viso, reclino. Ma non provai nessuna reazione di sollievo. Una pena insostenibile mi scosse tutta alla vista di quella giovane carne denudata e straziata, come se fosse stata la mia stessa carne, quella di mio figlio. […] ognuna sente come figlio suo ogni figlio d’ogni altra donna.[13]
Negli ultimi mesi del 1943 Ada viene incaricata di organizzare i Gruppi di Difesa della Donna, che avrebbero svolto azioni di sostegno, che già Ada era solita compiere, ai partigiani in clandestinità, portando cibo, medicinali, abiti, denaro e sussidi alle famiglie dei prigionieri politici e dei deportati. Inoltre, avrebbe dovuto compiere azioni di proselitismo nei confronti di altre donne; nello statuto sono presenti anche richieste che dimostrano una forte sensibilità politica, tra cui quella della parità giuridica, politica ed economica con gli uomini. Emerge da parte di Ada una vena polemica a proposito della scelta del nome:
L’organizzazione si chiama “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà”. Non mi piace; in primo luogo, è troppo lungo; e poi perché “difesa” delle donne e “assistenza” ecc. Non sarebbe più semplice dire “volontarie della libertà” anche per le donne?[14]
Dopo la liberazione di Torino e la fine della guerra Ada viene nominata vicesindaco della città: il diario si chiude con le riflessioni di Ada sul nuovo incarico, che la preoccupa molto; sente il peso del gravoso compito di ricostruzione della società italiana del dopoguerra, in cui sarà impegnata ancora una volta in prima linea, nella consapevolezza che il rischio di un indebolimento delle istanze rivoluzionarie sarebbe stato molto forte:
confusamente intuivo però che incominciava un’altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza, […] ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti.[15]
Joyce Lussu
Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, più nota come Joyce Lussu (1912-1998), scrive un romanzo straordinario che merita di essere letto: è Fronti e frontiere (1946), in cui racconta le vicende vissute da lei e dal suo compagno Emilio Lussu, noto antifascista con un’intensa attività alle spalle: aveva fondato il Partito sardo d’Azione, aveva subìto un attentato fascista a cui era scampato, era stato mandato dal regime al confino a Lipari, da cui era fuggito per raggiungere Parigi, dove era stato tra i promotori di “Giustizia e libertà” con i fratelli Rosselli e altri. Le loro imprese, «durante la guerra, sono travolgenti, rocambolesche, piene di rischi e pericoli»[16]. La coppia vive l’esperienza della clandestinità e viaggia per un lungo periodo, spostandosi attraverso tutta l’Europa: saranno prima in Francia, poi in Portogallo, in Inghilterra, a Gibilterra e in Svizzera, prima del rientro in Italia, avvenuto subito dopo l’armistizio. La fuga inizia a Parigi, quando nel 1940 giungono i tedeschi, e continua ovunque debbano portare aiuto a chi deve sfuggire ai nazifascisti: l’attività principale di Lussu consisteva infatti nell’organizzare l’espatrio degli ebrei o degli antifascisti, procurando loro i documenti e i mezzi per raggiungere gli Stati Uniti.
In realtà Lussu aveva un piano più ambizioso: avrebbe voluto andare in Corsica, da cui passare in Sardegna, dove vorrebbe tentare un’insurrezione contro i nazifascisti. Ma in Sardegna Emilio arriverà solo alla fine di giugno del 1944, quindici giorni dopo la nascita del figlio Giovanni a Roma, per prendere contatti con il Partito d’Azione, mentre Joyce e il bambino giungeranno a settembre. Intanto Joyce aveva iniziato a lavorare alla prima stesura di Fronti e frontiere.
Nel testo lo sguardo della scrittrice è sempre orientato sulle donne incontrate durante il lungo periodo di clandestinità: pur nella difficoltà delle situazioni, tutte le donne presentano tratti di umanità ed esprimono affetto e solidarietà nei loro confronti. Joyce stessa, nella pagina iniziale di Fronti e frontiere, scrive:
Alcuni si domanderanno perché i capitoli portano come titoli dei nomi di donne, che non sono figure centrali nello svolgimento del racconto. […] si parla così poco di donne nella letteratura italiana, di donne nel pieno senso umano, e non solamente amoroso e sentimentale! Ma il filo della narrazione ha poi tradito questo intento iniziale.
Pure io lascio, in cima a ogni capitolo, questi nomi che mi sono cari, non come titolo, ma come dedica;[17]
Memorabile la presentazione di Madame Noёlie, conosciuta in un piccolo villaggio ai piedi dei Pirenei, che li ospitò per qualche tempo:
Era una contadina dagli occhi larghi e chiari e dal sorriso parco ma luminoso, piccola e magra e ormai vecchia, ma robustissima ancora. Era vedova da vent’anni e […] coltivava, senza nessun aiuto, un gran numero di orticelli e campicelli sparsi qua e là, […] avevamo l’usufrutto dell’orticello dietro la casa, a patto di lavorarlo e aumentarne la produzione. […] scacciavamo la riflessione con la fatica, e quando l’incubo della realtà generale s’affacciava allo spirito […], tacevamo o parlavamo d’altro. E Madame Noёlie, genio benefico e fonte perenne d’antica saggezza, presiedeva alla nostra convalescenza spirituale. Ci volle un po’ di tempo per entrare nella sua confidenza, poiché la sua scorza un po’ ruvida era fatta di timidezza. Ma rivelò poi un cuore generoso e una coscienza profonda.[18]
Il libro termina con il ritorno di Joyce e di Emilio in Italia alla fine dell’estate del 1943, per prendere contatti con gli americani e per «discutere la questione istituzionale. In particolare, bisogna confrontarsi con Croce sul destino della monarchia nel paese».[19] Nelle ultime pagine Joyce fa un breve accenno all’ultimo inverno di guerra «trascorso a Roma sotto l’occupazione tedesca: le ansie, i pericoli, il martirio di tanti amici […]. Altri descriveranno, meglio di me, la lunga attesa, fino a quella sera del 4 giugno, quando i tedeschi in fuga abbandonarono Roma, quattro anni dopo esser entrati invitti e orgogliosi a Parigi. […] Fuggivano, ora, i carnefici, con il terrore della morte alle costole»[20].
Alba De Céspedes
È il sud, gradualmente liberato dagli alleati, a offrire ampi spazi per l’affermazione delle donne in campo culturale. Un ruolo di primo piano per l’impulso dato alla cultura e per la libera circolazione di idee è svolto da Alba De Céspedes (1911-1997), intellettuale antifascista che nel 1938 aveva pubblicato Nessuno torna indietro, un romanzo censurato dal regime.
All’annuncio dell’armistizio Alba è a Roma, ma ben presto, con il compagno Franco Bonous, decide di fuggire in Abruzzo e poi a Napoli e a Bari. Dal 10 dicembre 1943 al 10 febbraio del 1944 interviene nel programma Italia combatte, trasmesso da Radio Bari, con lo pseudonimo di Clorinda, poi dal 10 marzo 1944 fino al giorno della liberazione di Roma da parte degli alleati, trasmette da Radio Napoli, con gli stessi obiettivi: da una parte incoraggiare i partigiani del nord a combattere contro i tedeschi, dall’altra suggerire alle ascoltatrici di compiere azioni di sabotaggio, come tagliare le gomme ai camion dei tedeschi, togliere il tappo ai radiatori, far rotolare i tronchi sulle strade, passare ordini in ritardo oppure passarli con degli errori.
Al Congresso di Bari, tenutosi a fine gennaio del 1944, che ha votato all’unanimità la sfiducia e la delegittimazione del re, partecipa anche De Céspedes: il suo intervento viene trasmesso nella rubrica Italia combatte. In esso Clorinda afferma:
Questo congresso è stato la prima riunione ufficiale dei partiti d’opposizione. Andai là ad assistere, seduta in un palco. Perché la riunione si svolse al teatro Piccinni, […]. E avevo anche dentro di me la sensazione di fare cosa proibita, non potevo ancora abituarmi all’idea che in Italia, ormai, ognuno poteva fare e dire quel che voleva. Quando vidi Benedetto Croce e […] lo udii dire così semplicemente, la libertà, come avrebbe detto una parola qualunque, una di quelle parole che gli spiriti liberi sono abituati a pronunciare con dimestichezza, allora mi gettai ad applaudire furiosamente.[21]
Se il suo compito è quello di svegliare le coscienze, molto spesso esprime il timore che il popolo italiano, assuefatto al fascismo, non abbia la forza di ribellarsi, non sappia coltivare la libertà, ottenebrato com’è da «furberia, servilismo, opportunismo, adulazione, assenteismo»[22].
Dopo la liberazione di Roma Alba De Céspedes torna in città, con l’idea di fondare una rivista, che uscirà per la prima volta a settembre 1944, con il titolo Mercurio. Mensile di politica, lettere, arte, scienze (l’ultimo numero sarà pubblicato a giugno del 1948). L’iniziativa sarà appoggiata anche da Benedetto Croce e si inquadra
nell’ambito di una diffusa creazione di nuove testate e di nuovi progetti che testimoniano le spinte propulsive di rinnovamento e di ricostruzione dell’impegno collettivo per il paese […]
La rivista romana connotata, dunque, da accenti di pluralismo ed eclettismo svolge un ruolo particolarmente significativo nell’ambito delle riviste politico-culturali, poiché si interroga sulle contraddizioni che segnano la storia italiana dell’immediato dopoguerra.[23]
La storia della rivista è divisa in due fasi: la prima, dal settembre 1944 al febbraio 1946, è caratterizzata dalle testimonianze sulla guerra partigiana e sulla lotta di liberazione; la seconda, da marzo-aprile 1946 a marzo-giugno 1948, racconta invece il processo di formazione dello stato democratico, lasciando ampio spazio alle questioni riguardanti l’acquisizione del diritto di voto alle donne e il loro ingresso in magistratura. Dopo il 1948 la rivista terminerà le sue pubblicazioni. De Céspedes stessa ci fornisce il motivo:
Il finanziatore della rivista, che, tenuto conto prima della particolare situazione bellica e poi della svolta di Salerno, mi aveva lasciato le briglie lente sul collo, d’un tratto mi proponeva di sterzare verso posizioni di ortodosso atlantismo. Scoprivo come il potere mercantile sia permissivo agli inizi e come si serva di un titolo di giornale allorché un congruo numero di lettori si è abituato a seguirlo. Rifiutai.
L’intensa attività di Alba De Céspedes come redattrice, giornalista e direttrice di Mercurio è affiancata alla scrittura di un romanzo, Dalla parte di lei, pubblicato in Italia nel 1949, in cui racconta in un lungo arco di tempo, dagli anni Trenta fino alla liberazione di Roma, la storia di Alessandra Corteggiani, protagonista e io narrante. La narrazione si presenta come un memoriale, scritto da Alessandra durante la permanenza in carcere, dove si trova in attesa di giudizio per aver ucciso Francesco Minelli, suo marito. È diviso in tre parti: nella prima viene narrata la storia di Eleonora, madre di Alessandra, che vive nel mito del grande amore e arriva a suicidarsi per l’impossibilità di realizzare il suo sogno a causa della morale corrente e delle pressioni familiari; la seconda è ambientata in Abruzzo, dove Alessandra viene accolta a casa della nonna paterna dopo la morte della madre e dove rimane fino allo scoppio della guerra; nella terza Alessandra raggiunge il padre a Roma, si iscrive alla Facoltà di lettere, conosce Francesco e se ne innamora. È il romanzo della vita adulta di Alessandra, che comprende il matrimonio, l’impegno politico attivo nella Resistenza fino all’omicidio del marito e alla stesura della memoria difensiva.
Dall’armistizio alla liberazione di Roma Alessandra diventa una staffetta, in particolare durante la clandestinità e l’arresto di Francesco, che era un elemento di spicco nella Resistenza romana.
In quel tempo tutte le donne si recavano a prendere la verdura negli orti della periferia. […] Nel pomeriggio si vedevano lunghe file di queste biciclette, guidate da donne. Al ritorno quando passavano dinanzi al posto di blocco i militi guardavano nei cestini e nelle cassette. Talvolta si contentavano di guardare, altre volte affondavano la mano, frugavano, e portavano via una manciata di piselli. […] Io avevo una bicicletta molto vecchia: pesava più delle altre anche perché sotto i piselli c’era l’insalata e, sotto l’insalata, c’erano le bombe. […] ero davanti al posto di blocco. Il milite metteva la mano nel cestino. […] sicché egli mi dette una spinta per il sellino senza sapere che, altrimenti, non sarei potuta ripartire perché non sentivo più le gambe e le bombe pesavano.[24]
Dopo la fine della lotta di liberazione Francesco è sempre più assorbito dagli incarichi istituzionali; la distanza emotiva tra i due aumenta. Alessandra, sempre più esasperata, arriva a compiere il gesto estremo, preceduto dalle riflessioni che gradualmente l’hanno portata a una situazione di non ritorno:
Non dissi più nulla; egli cambiò discorso, persuaso d’aver scherzosamente dissipato il nostro malumore: […] poco dopo, mi trovai ad esser sola dietro il muro delle sue spalle. […] vedevo le donne sveglie nel buio, dietro l’invalicabile muro delle spalle maschili. Parlavamo lingue diverse, ma tutte tentavamo invano di fare udire le stesse parole: nulla poteva attraversare l’incrollabile difesa di quelle spalle. Bisognava rassegnarsi ad essere sole, dietro il muro; [25]
qualora io avessi deciso di abbandonare Francesco, la legge gli avrebbe ugualmente riconosciuto il diritto di rimanere padrone del mio corpo. E se io avessi usato della libertà del mio corpo, non avrei avuto soltanto frustate, come gli schiavi, ma addirittura il carcere e il disonore. L’unico modo in cui potevo disporre del mio corpo era quello di gettarlo nel fiume.[26]
De Céspedes in questo romanzo ha espresso la sua insofferenza nei confronti della mentalità maschile, ma soprattutto della società italiana, che continua a mantenere le donne in un ruolo di minorità; anche Natalia Ginzburg nel 1947 aveva dato alle stampe È stato così, in cui si racconta del matrimonio infelice di una donna senza nome, che alla fine arriva a uccidere il marito sparandogli negli occhi. Il periodo storico e il contesto culturale all’interno dei quali vengono scritti i due romanzi sono gli stessi, ma in quello di Natalia Ginzburg mancano i riferimenti alla Resistenza.
Paola Masino
Dopo la nascita della Repubblica Sociale italiana Paola Masino (1908-1989) e il compagno Massimo Bontempelli vivono a Roma, sono antifascisti e sono dunque costretti a nascondersi presso la casa di alcuni amici, per sfuggire alla condanna a morte per Bontempelli e all’esilio per lei.
Pochi mesi dopo la liberazione di Roma, l’11 novembre 1944, Masino fonda il settimanale «Città», il cui titolo allude al bisogno di ricostruire dal punto di vista culturale le città italiane. Il comitato direttivo era composto da Massimo Bontempelli, Ercole Maselli, Goffredo Bellonci, Guido Piovene, Alberto Moravia, Alberto Savinio e la stessa Masino.
L’autrice intanto aveva già pubblicato un romanzo che era stato sottoposto a tagli e censure tra il 1941 e il 1942, Nascita e morte della massaia, in cui aveva espresso una critica al tradizionale ruolo femminile della massaia. Si tratta di una denuncia della società patriarcale, oppressiva nei confronti della donna, relegata solo a ruoli subordinati. Il romanzo costituisce dunque una critica alla politica sociale del regime nei confronti della donna, che è vista soltanto come moglie e madre. Nel romanzo confluiscono surrealismo e metafisica, realismo magico e mondo onirico.
Già prima della fine della guerra Masino si era espressa in modo chiaro sulla necessità di estendere il diritto di voto alle donne, conquista che sarà raggiunta con difficoltà soltanto il 2 giugno 1946. Tutte coloro che avevano partecipato al dibattito, tra cui Maria Bellonci, Sibilla Aleramo e Anna Banti, avevano espresso la convinzione che le donne, votando, avrebbero finalmente potuto impedire un eventuale ingresso dell’Italia in una nuova guerra.
Dalle pagine di «Foemina»[27], settimanale uscito per la prima volta il 25 ottobre 1946 sotto la direzione di Marise Ferro, che aveva iniziato la sua attività giornalistica a Londra, dove il marito Guido Piovene era corrispondente del «Corriere della Sera», Paola Masino interviene sul problema dell’educazione che, per essere efficace, deve condurre gli individui al pieno sviluppo delle loro potenzialità, indipendentemente dal fatto che siano maschi o femmine. In particolare, critica il fatto che ai bambini vengano dati giochi di guerra come armi giocattolo e alle femmine giochi di cura, come le bambole.
Masino collabora anche con altre riviste, tra cui «Noi donne,» «Vie Nuove», «Spazio» – settimanale diretto da Bontempelli, Goffredo Bellonci, Ercole Maselli, Alberto Moravia, Alberto Savinio, Guido Piovene – su cui tiene due rubriche, La lanterna di Diogene e Moda. I suoi interventi sono sempre caratterizzati da una grande lucidità, sia quando riflette sulla disuguaglianza salariale tra uomini e donne proponendo provocatoriamente alle donne di prostituirsi per colmare il divario tra le paghe, sia quando interviene sulla maternità, da sempre proposta alle donne come un valore irrinunciabile che di fatto però ne limita l’autonomia.
Anna Garofalo
Anche Anna Garofalo (1903-1965), giornalista antifascista, a Roma dà inizio, nel settembre 1944 con l’appoggio delle Forze alleate e con la supervisione del Psychological Warfare Branch, a una trasmissione radiofonica dal titolo Parole di una donna, i cui interventi in seguito verranno riportati in un libro, pubblicato nel 1956 con il titolo L’italiana in Italia, una specie di osservatorio sociologico[28] sulla condizione della donna in Italia. La trasmissione, che andrà in onda fino agli inizi degli anni Cinquanta (1952 circa), darà voce a tutte le donne e ai loro problemi: si parla di temi caldi, come il diritto di voto e il divorzio, l’ingresso delle donne in diplomazia e in magistratura, che avverrà soltanto nel 1963, la pace.
La voce di Anna Garofalo è lucida e critica nei confronti degli stereotipi della femminilità, così radicati nella cultura italiana come ad esempio il valore della verginità, che viene ancora ritenuta irrinunciabile dalla maggioranza della popolazione. Sui privilegi del genere maschile all’interno delle famiglie italiane, scrive, denunciando una sensibilità femminista ante litteram:
Diversità di comportamento, in certe famiglie italiane, verso il figlio maschio, privilegiato, in confronto alle femmine. Il senso dell’ingiustizia fa nascere molto presto nelle bambine il risentimento. Il padre, il fratello, uomini da servire. Hanno diritto di essere stanchi, di essere irritati, di uscire ed entrare quando fa loro comodo. “Sono uomini.” bisogna portar loro le scarpe, il caffè, scendere a comprare le sigarette; nascondere le lacrime, il malessere, il desiderio di svago, la pena d’amore. E temerli, soprattutto temerli.[29]
In seguito alla vittoria democristiana alle elezioni del 18 aprile 1948, Garofalo teme che il processo di emancipazione delle donne venga ostacolato o che addirittura sia bloccato:
Ha inizio un nuovo ciclo politico, nel quale anche i partiti di centro e di centro-sinistra avranno una funzione di reggicoda. La emancipazione della donna segnerà anch’essa una battuta d’arresto.[30]
È cambiato il clima, i dirigenti della RAI suggeriscono «conversazioni leggere e melliflue, di tono paternalistico, che risospingono la donna negli antichi confini»[31].
Laudomia Bonanni
Nel 1948 Laudomia Bonanni (1907-2002), autrice abruzzese che non sembra aver partecipato alla Resistenza, scrive un bellissimo romanzo, dal titolo La rappresaglia, che ha avuto una complessa vicenda editoriale, terminata con la pubblicazione, avvenuta solo nel 1985. La vicenda racconta di una partigiana incinta catturata da un gruppo di fascisti, che decidono di ucciderla subito dopo il parto.
Il testo pare completato già nel 1949, con il titolo provvisorio di Stridor di denti, come risulta da una lettera inviata a Maria Bellonci nel 1952. Nello stesso anno sul Giornale d’Italia esce un racconto dal titolo Una donna tra le mogli, che riporta un episodio narrato nel settimo capitolo del romanzo. Ma i lettori potranno leggere La rappresaglia, romanzo ideato in pieno neorealismo, quando ormai i tempi saranno cambiati.
La struttura narrativa è molto interessante, per diverse ragioni. Innanzi tutto il narratore – che è sia testimone sia cronista dei fatti, narrati a distanza di quarant’anni – non è allineato con le decisioni degli altri membri del gruppo di fascisti, di cui pure fa parte. In secondo luogo, i fascisti occupano il posto che tradizionalmente è dei partigiani, cioè si trovano a dover vivere alla macchia. Inoltre la partigiana catturata non ricopre il ruolo della vittima, ma quello della provocatrice; è dotata di lucida consapevolezza della sua superiorità morale, non mostra mai di avere paura, sa gestire le situazioni estreme con una perfetta padronanza di sé. Così apostrofa i suoi carcerieri:
Su, bucatemi subito. Qui dovete sparare, farne un crivello di questo ventre di puttana con tutto quello che c’è dentro. Seme d’uomo, ah ah. Voglio strapparmelo con le unghie questo frutto della vostra razza schifosa d’ipocriti maschi.[31]
Quando, dopo aver partorito in totale solitudine, si rende conto di avere le ore contate, così si rivolge al prete, che non ha potuto e voluto salvarla:
questo corpo voglio salvare, questo corpaccio fetente che mi serviva tanto bene, che potevo trasportare su per le montagne, sottoporre a qualsiasi strapazzo, riempire di cibo, far fremere nell’amore, spremerne altre vite […] sì, questa orribile femmina che hai davanti ama l’umanità più di voi. Tutta, te perfino. […] anche la rivoluzione è oscena e sanguinaria per amore. È invasata per amore. La rivoluzione è femmina, partorisce da sola come me. Ah ah, io sono la rivoluzione. Tu l’hai capito, perciò non hai voluto salvarmi, lo so. La vendetta è tua.[32]
Un altro elemento spiazzante, che rende il romanzo ancor più interessante, è la riflessione sul titolo: a ben vedere la rappresaglia non è quella compiuta dai fascisti quando uccidono la partigiana che prima aveva massacrato il figlio di uno di loro, ma è quella compiuta dal destino, che trasforma i carnefici in vittime. A uno a uno tutti gli aguzzini della Rossa andranno incontro a una fine tragica.
Fausta Cialente
Tra le donne che partecipano in forme diverse alla Resistenza e contribuiscono a creare un clima culturale aperto e libero c’è anche Fausta Cialente (1898-1994), militante antifascista, che nel 1921 ha sposato Enrico Terni, compositore e musicologo con cui si era trasferita in Egitto.
Alla fine degli anni Venti scrive un romanzo, dal titolo Natalia, in cui esprime il desiderio omoerotico, che però è bloccato dalla censura del regime; nel 1931 termina la stesura di Cortile a Cleopatra, romanzo di ambientazione levantina. Dopo un lungo soggiorno in Italia, allo scoppio della Seconda guerra mondiale Cialente ritorna in Egitto, dove inizia un’intensa attività politica antifascista.
Nel 1940 è incaricata, dai funzionari del British Ministry of Information, di coordinare la propaganda antifascista, e dal 21 ottobre 1940 al 14 febbraio 1943 diventa responsabile della trasmissione Siamo italiani, parliamo agli italiani, mandata in onda da Radio Cairo. I notiziari che Fausta deve trasmettere sono diretti alle truppe italiane mandate dal regime fascista a combattere in Libia, ma dovrebbero essere ricevuti anche dall’Italia. Nello stesso tempo ha intrapreso l’attività giornalistica sul «Corriere d’Italia», su «Fronte Unito» e sul «Mattino della domenica», tre testate presenti al Cairo.
La sua collaborazione con Radio Cairo termina a causa dei contrasti ideologici con gli inglesi, sorti per le sue posizioni antimonarchiche e antimperialiste. A partire dal 21 ottobre 1943 Cialente fonda «Fronte Unito. Quindicinale italiano Indipendente di Lotta – Informazione – Cultura», distribuito tra i prigionieri militari in Egitto, Libia, Eritrea. Il settimanale termina le pubblicazioni nel 1947, poche settimane prima del ritorno di Cialente in Italia.
Parallelamente a questa intensa attività, dal 1941 al 1947, Cialente scrive un diario, dal titolo Diario di guerra, costituito da riflessioni e appunti di lavoro, che accompagnano l’attività della Resistenza. Tra questi spesso compare un rifiuto della letteratura, forse giudicata un’attività oziosa in un periodo così denso di avvenimenti importanti. Alla letteratura, comunque, si dedicherà intensamente a partire dal suo rientro in Italia, nel 1947. Il suo romanzo più autobiografico, in cui sono narrati gli eventi relativi al fascismo e alla Seconda guerra mondiale, è Le quattro ragazze Wieselberger, pubblicato nel 1976 e vincitore del premio Strega nello stesso anno, in cui Cialente narra prima la storia di sua madre, Elsa Wieselberger, e poi la sua, fino agli anni Settanta.
Dal 1949 ha ripreso anche l’attività giornalistica, scrivendo su «Noi donne», sull’«Unità», su «Rinascita» e su «Vie Nuove». L’impegno politico antifascista costituisce la cifra della sua vita, come affermerà lei stessa negli anni Ottanta, intervistata da Sandra Petrignani: «sono aperta con la gente di cui mi fido (soprattutto politicamente, intendo). Voglio dire che per me la posizione politica di chi incontro è fondamentale. Io sono fra quelli che credono che essere di sinistra significhi ancora qualcosa…»[33].
***
In conclusione, negli anni della Seconda guerra mondiale e della Resistenza le donne si affacciano alla ribalta della Storia proponendo una nuova immagine del femminile: da una parte le giovani e coraggiose combattenti, dall’altra le intellettuali raffinate e preparate; tuttavia, come abbiamo visto, spesso i ruoli si sovrappongono e si scambiano. Tutte, comunque, si sono spese, anche se in modi molto diversi, per creare una società più equa e meno discriminatoria nei confronti delle donne, anticipando l’esplosione del movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta.
Non dobbiamo dimenticare che proprio negli anni del dopoguerra, e precisamente nel 1949, Simone de Beauvoir ha pubblicato in Francia Le Deuxième Sexe, un testo fondamentale, in cui afferma che donna non si nasce, ma lo si diventa per i condizionamenti sociali subiti. Per la prima volta compare la distinzione tra sesso biologico e genere, inteso come costrutto sociale. Tutto questo ha avuto un enorme impatto sul pensiero femminista e ha creato anche in Italia, dove il saggio è stato pubblicato solo nel 1961, le premesse per il successivo sviluppo del movimento femminista.
Forse le autrici presentate non avevano letto Simone de Beauvoir alla fine degli anni Quaranta, ma sicuramente “sentivano” sulla loro pelle l’oppressione a cui le donne dovevano soggiacere e avevano potuto, anche grazie alla partecipazione alla Resistenza, sperimentare un modo di vivere e di partecipare alla vita comune più ricco e appagante.
NOTE
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[1] B. Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi, Torino 2022, p.108.
[2] Psycological Warfare Branch o PWB: «ufficio anglo-americano che durante la Seconda guerra mondiale ebbe il compito di controllare il settore della stampa e propaganda anche nei paesi di occupazione militare alleata» (da Enciclopedia online Treccani).
[3] N. Ginzburg, Tutti i nostri ieri, in Opere, I, Mondadori, Milano 1986-1987, p. 297.
[4] L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta a gli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 448.
[5] R. Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, Torino 2005, p. 231.
[6] Ivi, p. 166.
[7] Ivi, p. 142.
[8] Ivi, p. 227.
[9] Ivi, p. 243.
[10] P. Babini, Parole armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione, La Tartaruga, Milano 2018, p. 202.
[11] B. Tobagi, cit., p. 76.
[12] A. Gobetti, Diario partigiano, Einaudi, Torino 1972, p. 104.
[13] Ivi, p. 107.
[14] Ivi, p. 72.
[15] Ivi, p. 375.
[16] S. Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu, Bari-Roma, Laterza, 2022, p. 61
[17] J. Lussu, Fronti e frontiere, Abbot Edizioni, Roma 2023, p. 11.
[18] Ivi, pp. 24-25.
[19] S. Ballestra, La Sibilla, cit., p. 121
[20] J. Lussu, Fronti e frontiere, cit., p. 238.
[21] Clorinda, «L’Italia combatte», in «Mercurio», 1944, n. 4, op. cit. in M. Avagliano, M. Palmieri, Paisà, sciuscià e segnorine. Il sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile, Bologna, Il Mulino, 2021, p. 167.
[22] V. P. Babini, Parole armate, cit., p. 38.
[23] L. Di Nicola, Intellettuali italiane del Novecento. Una storia discontinua, Pacini Editore, Pisa 2020, pp. 133-134.
[24] A. De Céspedes, Dalla parte di lei, cit., pp. 469-470.
[25] Ivi, p. 343.
[26] Ivi, p. 488.
[27] P. Masino, Io e voi, in «Foemina», II, 1 gennaio 1947, op. cit. in V. P. Babini, Parole armate, cit., p. 80.
[28] V. P. Babini, Parole armate, cit., p. 68.
[29] V. P. Babini, Parole armate, cit., p. 30.
[30] V. P. Babini, Parole armate, cit., p. 88.
[31] V. P. Babini, Parole armate, cit., p. 90.
[32] L. Bonanni, Il fosso. La rappresaglia, Textus edizioni, L’Aquila, 2022, p. 200.
[33] L. Bonanni, Il fosso. La rappresaglia, cit., p. 277-278
[34] S. Petrignani, Le signore della scrittura, cit., p. 48.