Le geometrie imperfette della Commedia

Tempo di lettura stimato: 11 minuti
La Commedia presenta un’accurata architettura di numeri: vale la pena approfondire le macrostrutture dei regni, e il caso particolare rappresentato dal Canto XII del Purgatorio.
Gustave Doré, La visione dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso di Dante Alighieri

Un’accurata architettura di numeri

Che la Divina Commedia risponda a un progetto architettonicamente elaboratissimo, ricco di elementi numerologici e di simmetrie interne, svolti attraverso una messe di rimandi e di riprese, è cosa talmente assodata ed evidente che perfino i manuali destinati alla scuola secondaria di primo grado, nelle pagine dedicate a Dante, non mancano di soffermarvisi. La ricorsività e il valore simbolico dei numeri 1, 3 (col suo quadrato 9), 7 e 10 (col suo quadrato 100); l’invenzione della terzina, con le sue trentatré sillabe metriche, che rimandano ai trentatré canti di ciascuna cantica (più quello di introduzione generale a tutta l’opera); la decisione di concludere ogni cantica con la parola “stelle”; l’argomento politico “in climax” dei canti VI (dedicati rispettivamente a Firenze, all’Italia e all’Impero); la suddivisione di ciascun regno in dieci zone (i nove cerchi infernali più l’Antinferno; le sette cornici del Purgatorio più la spiaggia, l’Antipurgatorio e il Paradiso terrestre; i nove cieli del Paradiso più l’Empireo) – sono queste, se non erro, le principali informazioni fornite agli studenti, magari più organicamente di come si sia fatto qui, come mappa per orientarsi nell’immenso disegno del poema.
A cui si potrebbero aggiungere, volendo, osservazioni più puntuali, relative a singoli episodi o canti, per esempio sul fatto che le dieci bolge dell’ottavo cerchio a qualcuno sembrano riprodurre l’intero Inferno in miniatura; sulla posizione del canto di Ulisse, collocato a nove canti dal termine della cantica, a richiamare la riflessione sui limiti della ragione umana anticipata simmetricamente nel canto IX, laddove Virgilio viene respinto dai diavoli di fronte alle mura di Dite e deve attendere l’aiuto del “messo celeste” per poter proseguire il viaggio; o ancora, sulla scorta di Singleton, sulla simmetria certo non casuale che si osserva nel numero di versi dei canti centrali del poema – la sequenza dal XIV al XX del Purgatorio, disposta intorno al fulcro del XVII come segue:

151 + 145 + 145 + 139 + 145 + 145 + 151

XIV – XV – XVI – XVII – XVIII – XIX – XX

Chi volesse approfondire meglio la questione, può avvalersi utilmente dell’esaustivo saggio di Manfred Hardt, I numeri della Divina Commedia, pubblicato da Salerno nel 2014. In questa sede io mi propongo di mostrare come questa esibita geometricità del progetto, in realtà, non conduca a una struttura rigida e prevedibile, ma al contrario dia luogo a una dialettica fra ordine e caos, simmetria e disarmonia, in cui i secondi termini delle coppie costituiscono non un difetto, ma un elemento di vitalità e di interesse dell’opera, su cui riflettere e al quale, con tutte le cautele, tentare di attribuire un significato.

Dati i limiti di spazio, prenderò in considerazione pochi esempi macroscopici, relativi cioè alla suddivisione interna e ai rimandi fra le cantiche, e uno solo relativo a una sequenza precisa di terzine, all’interno del canto XII del Purgatorio, lasciando al lettore il compito di procedere autonomamente su questa linea di osservazioni.

Problemi macrostrutturali: alcuni esempi

Per quanto riguarda la topografia dei tre regni, è evidente che la divisione in dieci zone si accompagna, nel passaggio da una cantica all’altra, a forzature piuttosto violente. Già nella struttura dell’Inferno il numero dieci appare più volte contraddetto: a prima vista la divisione in un Antinferno più nove cerchi non sembra lasciar adito a dubbi; e tuttavia la “mappa” che Virgilio fornisce a Dante (e Dante al lettore) nel canto XI non solo tace riguardo all’Antinferno, al Limbo e al VI cerchio (degli eretici), ma presenta un Basso Inferno fortemente irregolare, con un VII cerchio diviso in tre zone, un VIII cerchio, come abbiamo già detto, in dieci, e un IX in quattro. Se pensiamo alla compattezza delle cornici purgatoriali e dei cieli paradisiaci, l’impressione che il disegno infernale sembra volerci trasmettere è piuttosto di caos che di ordine – e questo vale, in una certa misura, anche per i primi canti, giacché nel Limbo si trovano due categorie di anime che più dissimili sarebbe difficile immaginarle, quali i bambini morti senza battesimo e gli spiriti magni del mondo pagano (e tralasciamo i patriarchi dell’Antico Testamento, che costituivano, prima della discesa di Cristo, una terza categoria ancora diversa); nel secondo e nel terzo cerchio si trovano lussuriosi e golosi, ma nel quarto e nel quinto sono puniti i colpevoli di peccati opposti (avari e prodighi, iracondi e accidiosi) – non mancano le giustificazioni teologiche ed etiche per tali scelte, ma resta una indiscutibile difformità di impianto.

Anche il rapporto fra la struttura dell’Inferno e quella del Purgatorio non è privo di problematicità. Ai nove cerchi “corrispondono” (le virgolette sono ahimè d’obbligo) solo sette cornici, perché diversa, come è noto, è l’impostazione etica nelle due cantiche, quale emerge dal confronto che qui non possiamo affrontare fra l’XI dell’Inferno e il XVII del Purgatorio. Ciò “costringe” (sempre tra virgolette) il poeta, per raggiungere il numero perfetto di 10, a inventare altre due zone, oltre all’Antipurgatorio, e cioè la spiaggia e il Paradiso terrestre. Ma anche così, è difficile riconoscere una simmetria, giacché se l’Antipurgatorio rimanda all’Antinferno, la spiaggia non trova corrispettivo e il Paradiso terrestre (con la sua “selva” e gli incontri che ne scandiscono i canti) non può che rimandare alla “selva oscura” del canto di introduzione generale, che però fino a questo momento era stata esclusa dal novero delle zone, proprio in quanto non appartiene propriamente all’Inferno, trovandosi al di fuori della relativa porta.

La presenza del canto introduttivo (non è un’osservazione originale, ma merita di essere ribadita qui) rende inoltre imperfetti i rimandi verticali tra le cantiche, primo fra tutti quello tra i canti VI (i “canti politici”, definizione contro cui giustamente polemizzava Gramsci): quello di Ciacco, infatti, sarebbe a rigor di logica il quinto dei 33 dedicati all’Inferno propriamente detto, il che sarebbe di per sé una non piccola irregolarità; ma soprattutto (cosa spesso trascurata da chi vorrebbe un testo più rigidamente costruito di quanto non sia) nel canto di Sordello si parla sì di Italia, ma anche di Impero e anche, e molto, di Firenze.

A conferma della libertà con cui Dante rompe gli schemi che pure suggerisce ai lettori, si osservi la collocazione delle tre grandi digressioni affidate alla voce di Virgilio che scandiscono l’Inferno: la prima, sulla fortuna, nel canto VII; la seconda, sul Veglio di Creta, nel canto XIV; e la terza, sulle origini di Mantova, non come ci si aspetterebbe nel canto XXI (7 x 3), bensì in quello precedente; e quella dei tre sogni di Dante che scandiscono l’ascesa nel Purgatorio: il primo, quello dell’aquila, nel canto IX; il secondo, quello della femmina balba, non nel XVIII (9 x 2), ma all’inizio del successivo; e il terzo, quello di Lia, al centro del canto XXVII.

Un’illustrazione di Doré per il canto XII del Purgatorio: i superbi.

Un caso particolare: Purgatorio XII

Prendiamo ora in esame un caso che riguarda l’articolazione di un singolo episodio, anzi di una singola sequenza. Siamo nel canto XII del Purgatorio, versi 25-63, dove Dante, dopo il grande colloquio con Provenzan Salvani, vede incisi sul pavimento della seconda cornice gli esempi di superbia punita. Caso particolarmente interessante, perché Dante ricorre a una tecnica (l’acrostico) estremamente artificiosa, nonché lontanissima dal gusto moderno, che a lungo ha spinto la critica a tacciare tutta la sequenza di impoeticità. Dante infatti inizia quattro terzine con la parola “Vedea” (io vedevo), poi quattro terzine con “O” seguito dal vocativo, poi ancora quattro terzine con “Mostrava” (soggetto sottinteso: il bassorilievo), per un totale di dodici terzine; segue una terzina conclusiva, in cui le tre parole (la prima leggermente variata) costituiscono l’incipit dei rispettivi versi:

Vedeva Troia in cenere e in caverne;
O Ilïón, come te basso e vile
Mostrava il segno che lì si discerne!

Le tre lettere iniziali v-o-m, giusta l’ambiguità che aveva ai tempi il segno v/u, formano la parola uom, cioè uomo (nel senso di essere umano).
Entriamo meglio nel testo per comprendere le ragioni di una dotta e apparentemente un po’ astrusa disputa che da tempo appassiona i dantisti: posto che le terzine coinvolte nel gioco sono inequivocabilmente 4 + 4 + 4 + 1, gli esempi di superbia punita in altrettanti riquadri sono dodici o tredici? La questione è legata alla seconda e terza strofa della sequenza: dopo aver descritto Lucifero che precipita dal cielo (primo e sommo esempio di superbia), Dante scrive infatti:

Vedëa Brïareo fitto dal telo
celestïal giacer, da l’altra parte,
grave a la terra per lo mortal gelo.

Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d’i Giganti sparte.

Si tratta di due scene relative alla gigantomachia: ma, per l’appunto, si tratta di due scene, cioè di due distinti riquadri del bassorilievo, o di una scena sola? Nell’uno e nell’altro caso, siamo di fronte a un’irregolarità – non se ne esce: o Dante dedica eccezionalmente due terzine anziché una alla stessa scena, o Dante dedica eccezionalmente due riquadri anziché uno allo stesso episodio. Da qui in poi, il testo procede con perfetta regolarità, dedicando ogni terzina a un episodio/scena e alternando (con perfetta regolarità, ribadiamolo) episodi dell’Antico Testamento e della mitologia classica (Nembròt e la torre di Babele, Niobe, Saul, Aracne, Roboamo, Almeone e sua madre Erifile, Sennacherìb e i suoi figli, Tamiri e Ciro, Oloferne, Troia).

Dobbiamo rassegnarci: Dante ci propone uno schema, ci lascia intravedere un principio di ordine geometrico-matematico, ma qualcosa interviene a turbare tale schema, a scompigliare, in maniera più o meno grave, più o meno evidente, la perfezione della simmetria che il poeta faceva intuire al suo lettore.

Gustave Doré, Paradiso, canto 31.

Conclusioni provvisorie

In fondo, si potrebbe dire, tutti gli artisti sanno che la simmetria è noiosa, e perfino il più classicista dei poeti o dei pittori o dei musicisti, se ha un minimo di talento, introduce elementi che rompono la prevedibilità dello schema. Forse, muovendo dal caso specifico del canto XII del Purgatorio, potremmo azzardare anche un’interpretazione in chiave quasi esoterica: l’aspirazione a creare qualcosa di perfettamente ordinato potrebbe apparire come un segno di superbia, giacché solo Dio è capace di vera perfezione (come sanno i tessitori di tappeti persiani, che inseriscono volutamente nella loro trama un difetto, una sbavatura, per non sfidare l’ira della divinità) – Dante, in questo caso, nasconderebbe nel suo acrostico un invito all’umiltà, coerente con il tema della rappresentazione.
Le due chiavi di lettura non sono necessariamente alternative fra loro, perché Dante, nel prosieguo dell’episodio, sviluppa proprio una riflessione sull’arte e sul rapporto fra creazione artistica e creazione divina. Ma, in mancanza di riscontri testuali più precisi e dichiarazioni teoriche a sostegno, peccano a mio avviso di una certa astrattezza. Possiamo ipotizzare una spiegazione che renda conto della compresenza di una solida struttura architettonica e di evidenti scricchiolii – incertezze, contraddizioni, irregolarità – e che nel contempo sia meglio radicata nell’humus culturale da cui nasce tutta la produzione dantesca?

Il poema di Dante costituisce un grandioso tentativo di mettere ordine in un universo che, nella vita dell’individuo Alighieri e nella concreta esperienza storica dei contemporanei, si presenta come dolorosamente caotico. La fede cristiana garantisce al poeta la certezza che Dio non abbia creato l’universo a caso e gli offre una serie di strumenti concettuali, filosofici, teologici, nonché artistici, per riconoscere, sotto all’apparente disordine, la presenza di un principio di armonia e di organicità.
Nella sua lotta titanica e a tratti furibonda contro le dissonanze del mondo contingente, tuttavia, Dante non solo è costretto a riconoscere l’insufficienza di ogni schema, ma vuole rendere partecipe il suo lettore di tale consapevolezza: come il poeta, sapendo che il mondo non può essere assurdo e insensato, è costretto a elaborare sempre nuovi modelli interpretativi, di fronte a una realtà sempre sfuggente e “irregolare” (pensiamo a quanto è diversa la visione politica dantesca nei primi canti dell’Inferno e in quelli del Paradiso; o alle profezie che Beatrice, a dispetto delle promesse di Virgilio, non spiega…; e vorrei richiamare anche la suggestiva ipotesi, sostenuta recentemente da Enrico Malato a partire da una celebre osservazione di Boccaccio, secondo cui l’intero “cartone” della Commedia abbia subito un ripensamento radicale all’altezza del canto VIII dell’Inferno), così il lettore si trova di fronte a un continuo lampeggiare di “regole” che il poeta stesso disattende, o varia, o elude.
Dante (è la conferma di una strategia generale, ovviamente) prevede un lettore attivo, capace di collaborare alla creazione di senso del testo, riconoscendo l’orizzonte di attesa che la narrazione costruisce e gli elementi di rottura e di dissimmetria che l’autore introduce per meglio coinvolgerci nella sua visione.

Condividi:

Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it