All’inizio era una promessa di felicità, di libertà e di emancipazione: cose a cui gli uomini, almeno in teoria, aspirano. Libertà da vincoli fisici invasivi e libertà da molti lavori manuali e usuranti, sostituiti dalle macchine e dall’intelligenza artificiale. Lo sviluppo tecnologico avrebbe agevolato la mobilità, la rapidità e avrebbe liberato gli uomini dal dover compiere le mansioni più faticose e logoranti. Infine, l’intelligenza artificiale avrebbe affiancato quella naturale e gli esseri umani avrebbero pensato e immaginato di più e lavorato di meno.
Il disegno complessivo o, comunque, la narrazione positiva di questo disegno vede nello sviluppo tecnologico un ausilio fondamentale al miglioramento netto della qualità della vita delle persone.
Eppure, come dimostra la cronaca, la storia non è andata esattamente in questo modo. Consideriamo per esempio la ricchezza: se è vero che è stata prodotta nuova ricchezza, è d’altro canto ugualmente vero che la sua redistribuzione in genere è stata e continua a essere insufficiente. Inoltre, in un mondo estremamente sofisticato sotto il profilo tecnologico e largamente globalizzato, la complessità finisce per essere l’elemento che caratterizza in modi decisivi l’assetto e le dinamiche sociali. Per muoversi efficacemente in contesti di questo tipo, la cultura e la formazione continua sono probabilmente l’unico strumento davvero utile.
Ora, che gli esseri umani debbano investire sulla propria cultura per essere in grado di dominare la complessità che li circonda sembra una buona notizia, così come sembra essere una notizia non cattiva il fatto che i nuovi assetti che stanno assumendo le società 4.0 prevedano che i lavori meno sofisticati siano gradualmente appaltati alle macchine, oggetti altamente performanti e vantaggiosi sotto il profilo economico.
In questa situazione ci stiamo progressivamente accorgendo di due cose: in primo luogo che non di rado gli esseri umani resistono al loro perfezionamento intellettuale e morale per indole naturale o perché la condizione sociale rende loro questo processo particolarmente gravoso. In secondo luogo, che il risultato di questa resistenza ha comportato, in molte circostanze, un aggravarsi della diseguaglianza sociale, poiché la forbice tra lavori prestigiosi, ben pagati e ad alta densità intellettuale e lavori precari, mal pagati e a bassa densità intellettuale si è non solo ampliata, ma ha anche dato corso a un processo di progressiva desertificazione dell’umano, nel senso che le macchine stanno appunto sostituendo gradualmente gli esseri umani, per cui coloro i quali vogliono o vorrebbero continuare a svolgere lavori a basso contenuto intellettuale spesso si trovano nell’impossibilità di farlo, sostituiti da macchine più e meglio performanti.
Un secondo punto mi pare debba essere considerato con attenzione: si tratta del grave rischio di precarizzazione a cui stanno andando incontro, oramai da oltre quindici anni, le nuove generazioni. In una realtà fortemente competitiva, in cui persone e cose si muovono in tempi molto contratti e la produzione industriale è in grado di raggiungere numeri elevatissimi, il peso delle trasformazioni dei cicli produttivi nell’industria è stato spesso spostato sui lavoratori. A parte alcune eccezioni, la gran parte delle imprese produce sulla base di quello che il mercato richiede. I lavoratori, perciò, spesso sono considerati funzionali allo scopo, ovvero alla soglia di produzione da mantenere o agli obiettivi fissati dal mercato: perciò generalmente le aziende individuano una quota fissa di persone che sostengono la produzione in pianta stabile e che rappresentano l’ossatura dell’impresa e una quota variabile che viene fatta lavorare soltanto in caso di necessità. Questa quota di lavoratori è destinata a essere mantenuta precaria nel caso in cui l’aumento della domanda si riveli variabile, oppure viene dismessa nel caso in cui la richiesta si affievolisca.
Il dato significativo sotto il profilo scientifico, ma devastante dal punto di vista dell’equilibrio sociale, è che la quota di lavoratori precari, o addirittura a chiamata, sta diventando sempre più ampia. Questo è vero sia nel settore privato sia in quello pubblico. Per dare l’idea di quanto la situazione sia paradossale sarà sufficiente rappresentare un tipico caso italiano di cui sono protagoniste persone in carne e ossa: Federica, Alessandra, Laura e Andrea1, che per qualche tempo hanno “lavorato” per la Biblioteca Nazionale di Roma, la più grande biblioteca italiana. Il fatto che lavorassero per la Biblioteca Nazionale significa che erano state loro affidate le mansioni che normalmente vengono assegnate a un lavoratore di una biblioteca. Pur svolgendo mansioni del tutto normali, l’istituzione li considerava alla stregua di lavoratori fantasma: lavoravano senza che di fatto fossero riconosciuti né sotto il profilo economico – né il salario né le modalità di erogazione dello stesso erano equiparabili a quelli degli altri lavoratori – né sotto il profilo sociale. Tutti loro, infatti, formalmente non erano dipendenti pubblici, pur lavorando per il settore pubblico. In realtà, non erano nemmeno dipendenti e, a guardar meglio, non erano nemmeno lavoratori. Come ha mostrato l’inchiesta giornalistica che ha portato il caso all’attenzione dei media, Federica, Alessandra, Laura e Andrea per più di cinque anni vennero pagati utilizzando dei voucher: venivano riconosciuti loro circa 400 euro per un part-time di 24 ore settimanali. Tecnicamente, dunque, non erano lavoratori, eppure lavoravano. Erano classificati come volontari “Avaca” – Associazione volontari attività culturali e ambientali, un’associazione che molto assomigliava a un fornitore di manodopera qualificata. Il concetto di lavoratore occulto presenta una casistica piuttosto ampia. Sono considerati lavoratori particolari anche quei giovani che accedono a un tirocinio o a uno stage: in questo caso l’idea di fondo è che la formazione abbia un prezzo e che, in qualche modo, sia il lavoratore a dover pagare per poter accedere alla formazione sul campo. In questo modo il lavoratore, quando addirittura non paga per lavorare, e per imparare, accetta di lavorare quasi gratis, poiché l’idea è che il compenso principale sia nel trasferimento di competenze che riceve.
Questi pochi esempi rendono bene l’idea di come le forme del lavoro siano diventate, nel tempo, assai più difficili da catturare. Esiste un certo novero di domande che hanno a che fare con la natura del lavoro e del lavoratore come, per esempio: chi è che lavora per davvero? E quando lo fa? Possiamo identificare luoghi deputati al lavoro? Oppure, ancora, per quale motivo definiamo “volontari” persone che a tutti gli effetti svolgono una mansione lavorativa di otto ore al giorno? Altre questioni riguardano il ruolo che le istituzioni svolgono nella creazione, nella difesa e nella reinterpretazione del lavoro: per esempio, perché lo Stato non si assume l’onere di tutelare e difendere il lavoro? Perché, anzi, lo Stato è molto spesso ufficiosamente un datore di lavoro in nero o un datore di lavoro a condizioni che sono lesive della dignità personale, come è avvenuto nel caso dei “volontari” della Biblioteca Nazionale?
A questo proposito, nonostante il fatto che la definizione tradizionale di lavoro rimanga sostanzialmente invariata, ovvero «una attività umana rivolta alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale» (Treccani), la tendenza più diffusa sembra essere da un lato quella di remunerare, in termini di denaro e di diritti, solamente il lavoro altamente qualificato, quello cioè che non può essere surrogato da una macchina, dall’altro quella di precarizzare e impoverire in maniera drammatica il lavoro di bassa qualità, che è appunto quanto è accaduto ai lavoratori della Biblioteca Nazionale e quanto accade ogni giorno a migliaia di giovani stagisti.
Ripartiamo dunque da qui, ovvero dal fatto che nelle società 4.0 la definizione di lavoro non è cambiata – nonostante esistano buone ragioni per rivedere il modo in cui generalmente concettualizziamo il lavoro – e a essere cambiati, casomai, sono i luoghi, i tempi e gli investimenti necessari in termini di conoscenze che sono diventati imprescindibili e che dovranno essere ingenti.
Circa i luoghi e i tempi, è presto detto: è sufficiente un buon collegamento a internet e la sede di lavoro può essere ovunque. Poiché il lavoro spesso non è più rigidamente vincolato a luoghi definiti anche i tempi sono diventati più flessibili: se il luogo è mutevole, il tempo è completamente dilatabile purché lo si voglia o purché le specifiche dinamiche lavorative lo richiedano. È ormai possibile lavorare da casa con una certa facilità e in un futuro non troppo lontano sarà probabilmente possibile trasformare persino l’automobile in uno studio mobile, perfettamente connesso.
Questa situazione, in continua e profonda trasformazione, le cui dinamiche sono state accelerate dalla pandemia, innesca una serie di problemi di giustizia sociale, poiché non di rado si verifica la circostanza per cui uno stesso mercato del lavoro presenta disparità rilevanti per quanto attiene ai diritti fondamentali goduti dai lavoratori: da un lato abbiamo un mondo del lavoro composto da lavoratori – spesso si tratta dei più anziani – che possono godere una serie di diritti e di tutele che proteggono la loro professionalità, dall’altro lato, nuove generazioni che tardano moltissimo a stabilizzarsi e perciò a essere tutelate.
Definiamo questo fenomeno come iniquità transgenerazionale, ovvero come una condizione permanente di ingiustizia tra generazioni che caratterizza il mondo del lavoro contemporaneo.
L’iniquità transgenerazionale implica un problema importante, ovvero che in una medesima condizione lavorativa due individui, appartenenti a generazioni diverse, godano di diritti diversi, per esempio i più giovani subiscano una riduzione significativa del welfare. Per intenderci, i lavori flessibili (nel tempo e nello spazio) sono anche quelli che generalmente consentono l’accesso a un welfare ridotto, nonostante il fatto che questi lavori, come tutti gli altri, contribuiscono al benessere collettivo in termini di fiscalità generale.
La tesi che vorrei sostenere è che a monte di una situazione di iniquità transgenerazionale troviamo un deficit di transgenerazionalità, ovvero una generale sottovalutazione dell’importanza cruciale che i legami tra generazioni conservano all’interno delle nostre società2.
Che cos’è la transgenerazionalità
Incominciamo, dunque, da una riflessione sul “che cos’è”. Per comprendere la natura della transgenerazionalità può infatti essere utile partire dall’opposto, ovvero da quelle società che mostrano di essere chiaramente poco attente alla dimensione transgenerazionale. Qualche considerazione circa le società – ovvero le istituzioni e le persone – che negligono la dimensione transgenerazionale ci porterà a sviluppare alcune interessanti osservazioni.
La transgenerazionalità è un legame sociale che si fonda su di un doppio riconoscimento: da un lato, il rapporto biologico che lega i genitori ai figli, ovvero la “transgenerazionalità primaria”3, dall’altro il legame che unisce le diverse generazioni che appartengono a un medesimo contesto politico, ovvero la “transgenerazionalità secondaria”. Mentre la transgenerazionalità primaria è un vincolo che ha carattere biologico, la transgenerazionalità secondaria è un vincolo sociale, cioè un vincolo che emerge dalla struttura sociale che lega una generazione all’altra e che costituisce la condizione di possibilità dell’esistenza di Stati e metaStati. Già Kant negli scritti politici osservava che senza il passaggio generazionale l’umanità non sarebbe in grado di dispiegare le sue potenzialità e – aggiungiamo noi – ogni Stato avrebbe una durata circoscritta alla vita di poche generazioni. Gli esseri umani hanno bisogno di tempi lunghi, a volte lunghissimi, per imparare, organizzare buone pratiche, creare sapere: «Nell’essere umano (come unica creatura razionale sulla terra) quelle disposizioni naturali che sono dirette all’uso della ragione possono svilupparsi pienamente solo nel genere, ma non nell’individuo»4. Perciò il lascito generazionale è tanto prezioso: per un certo tratto della storia umana esso è cresciuto di generazione in generazione.
Se questo è vero, è altresì necessario che l’azione politica messa in campo dagli Stati tenga conto del fatto che il vincolo transgenerazionale esiste, è una delle condizioni che consente alle formazioni politiche di durare nel tempo, e deve essere messo in conto non soltanto nelle occasioni in cui una generazione avanza a un’altra delle richieste, reclamando, per esempio, dei diritti, ma anche quando è necessario prevedere dei doveri che accompagnino quei diritti.
Torniamo alla questione di che cosa significhi non essere transgenerazionali. Il legame transgenerazionale interno al mercato del lavoro assume almeno una duplice forma: quella che prevede il passaggio di competenze da una generazione a un’altra, e quella che prevede la “collaborazione” tra coloro i quali lavorano e coloro i quali sono in quiescenza, ovvero hanno lavorato per molti anni e, a un certo punto della vita, godono della pensione. L’assegno dei pensionati come è noto viene pagato dai lavoratori attivi, secondo un esemplare scambio transgenerazionale.
Ora, credo sia interessante considerare un vecchio caso italiano. È il 1973, il governo Rumor vara un provvedimento che sarà noto con il nome di “baby pensioni”: il D.P.R 10925 (cfr., in particolar modo, l’articolo 42). Si tratta di un provvedimento che accorda condizioni estremamente generose al pensionamento di alcune categorie di dipendenti pubblici: 14 anni, 6 mesi e 1 giorno è il tempo fissato affinché le lavoratrici sposate con figli possano andare in pensione. 20 anni di lavoro, e di contributi, è quanto occorre agli altri lavoratori statali, mentre ai dipendenti degli enti locali occorrono 25 anni di contributi versati. L’opportunità di uscita anticipata venne sfruttata da circa 400.000 persone, per una spesa che è stata stimata di circa 7,5 miliardi di euro all’anno.
Le pensioni baby vennero abrogate nel 1992 dal governo Amato, quando l’Italia rischiò una crisi valutaria che indusse quel governo a disegnare una manovra di rigore fondata sulla revisione del sistema pensionistico, sull’introduzione di una tassa sulla casa e su di un prelievo forzoso dai conti correnti.
Vediamo di considerare la misura dal punto di vista del patto transgenerazionale: da un lato abbiamo le generazioni che hanno avuto accesso a una pensione agevolata in termini di contributi versati e di età del lavoratore che ha avuto accesso alla misura pensionistica, dall’altro lato le generazioni che hanno sostenuto e che sosterranno quella misura e che, a loro volta, dovranno prima o poi accedere alla pensione. Il provvedimento Rumor ha lasciato conseguenze pesanti e protratte nel tempo: un considerevole ammontare di denaro pubblico è stato utilizzato per pagare pensioni a persone che ancora erano nel pieno della produttività e che avrebbero tranquillamente potuto continuare a lavorare per altri venticinque anni, contribuendo alla ricchezza propria e a quella del proprio Paese.
Veniamo alle conseguenze di quella decisione. Anzitutto ve ne sono state sul piano della giustizia tra le generazioni, poiché le generazioni successive a quelle coorti di baby-pensionati, oltre a dover sostenere parte della spesa per pagare gli assegni, sarebbero state soggette a trattamenti pensionistici assai meno vantaggiosi, sia in termini economici sia in termini di diritti, per esempio in riferimento alla età pensionabile. In una parola, sarebbero dovuti andare in pensione decisamente più tardi e con assegni più bassi, questo per consentire la sostenibilità del sistema. Per poter garantire pensionamenti anticipati nel lungo periodo – per poterli cioè accordare negli anni anche alle generazioni future, come sarebbe stato giusto in un’ottica di equità intergenerazionale – avrebbero dovuto verificarsi, congiuntamente, alcuni fattori: il saldo della curva della popolazione residente in Italia avrebbe dovuto rimanere positivo e la crescita economica avrebbe dovuto mantenersi sostenuta. E, invece, accade l’opposto: la crescita della popolazione residente, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, tese a rallentare in modo sostanziale fino a fermarsi negli anni Ottanta. Il livello più basso venne toccato nel 2017.
In questo quadro, al prodotto interno lordo, come è facile immaginare, non tocca una sorte migliore, e infatti il rapporto debito/PIL è andato crescendo in modo costante dagli anni Settanta del secolo scorso sino al 1994, per poi prendere ancora una volta a risalire a partire dal 20086.
Considerando i dati, la situazione non è, evidentemente, delle più allegre: a partire dagli anni Settanta del secolo scorso la situazione debitoria italiana si è progressivamente aggravata a causa di una spesa pubblica elevata – il comparto pensionistico è una delle voci che incidono in maniera più significativa. Questo dato s’accompagna a una marcata riduzione del tasso di natalità, a un considerevole aumento dell’età della popolazione e a una riduzione progressiva del PIL.
La domanda a questo punto diventa chiaramente questa: tutto ciò era prevedibile nel 1973, ovvero all’epoca del DPR Rumor? Come insegna il filosofo Hans Jonas7, quando parliamo di questioni transgenerazionali – e le pensioni lo sono dato che le conseguenze di una decisione presa in questa materia si misurano su tempi assai lunghi – le previsioni peggiori vanno considerate con attenzione al momento di decidere. Il governo italiano, nella persona di Rumor e del parlamento tutto, non lo fecero e preferirono assumere una decisione che poteva garantire vasto consenso ai partiti di governo. Governo e parlamento non furono all’altezza del compito di governare per il bene dello stato, ovvero per il bene dei concittadini e dei cittadini futuri.
Iniquità transgenerazionale
Le riflessioni sulle questioni di giustizia – nel caso specifico, meglio sarebbe dire ingiustizia sociale – sollevate da questo provvedimento meritano ancora qualche considerazione. Il sistema pensionistico di un Paese rappresenta un tassello importante dello Stato sociale, che in genere è piuttosto difficile da mantenere in equilibrio. Determinata un’età congrua per il ritiro dal lavoro, qualunque legge che regoli questa materia deve fondarsi su considerazioni che investono almeno due piani: da un lato deve tenere presente considerazioni che attengono alla sfera della giustizia sociale e distributiva e che tengano conto delle diverse tipologie di lavori, del tipo di usura o di fatica che richiedono, delle differenze di genere e così via. Dall’altro lato sono necessarie considerazioni che mirano a perseguire la giustizia tra generazioni: che tendano cioè a porre padri e figli in condizioni almeno analoghe relativamente ai diritti di cui godono e ai doveri a cui vanno soggetti. La legge Rumor ha sovvertito la direzione del lascito generazionale di cui parlava Kant, ponendo le basi per un netto indebitamento – in questo caso impoverimento poiché il debito non è stato usato per creare nuova ricchezza – delle generazioni future.
Esaminando il sistema italiano di previdenza, si possono agevolmente verificare le numerose riforme a cui è stato sottoposto8. Consideriamo brevemente le tappe fondamentali. La previdenza sociale in Italia nasce nel 1898 con l’obiettivo di tutelare l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Nel 1919 l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia diventa obbligatoria per i lavoratori dipendenti privati. S’introduce l’istituto della pensione di invalidità e vecchiaia. Sempre nel 1919 viene introdotta l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione. Tra il 1927 e il 1941 viene introdotta la Cassa Integrazione guadagni, importante per tutelare i guadagni delle persone che perdono il lavoro, il limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia viene portato a 60 anni per gli uomini, 55 per le donne, viene istituita la pensione di reversibilità. Nel periodo che va dal 1968 al 1972, il sistema retributivo basato sulle ultime retribuzioni percepite sostituisce quello contributivo. Nascono la pensione di anzianità e la pensione sociale erogata a tutti i cittadini al di sopra dei 65 anni di età e al di sotto di una certa soglia di reddito. Nel 1992 il legislatore eleva l’età minima a 65 anni per gli uomini e per le donne e il requisito assicurativo minimo a 20 anni. A partire dal 1995 vengono introdotti una serie di correttivi che mirano a calcolare le pensioni su alcuni principi: l’ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa, la durata prevista della prestazione pensionistica, la speranza di vita.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, l’idea di fondo è che l’allungamento delle aspettative di vita debba incidere sulle modalità di calcolo degli assegni. E, in effetti, se le persone godono di una maggiore speranza di vita e hanno accesso a una migliore qualità della vita è auspicabile che rimangano attive nel mondo del lavoro più a lungo. Questo almeno in termini generali e fatte le dovute eccezioni sui singoli casi o relativamente ad alcune categorie di lavoratori. Niente da eccepire in teoria, se non fosse appunto che all’interno di questo trend generale il governo Rumor ha consentito che si allontanasse prematuramente dal lavoro una intera generazione, ponendo le premesse per creare una situazione di vera e propria ingiustizia generazionale nei confronti di quei cittadini che non solo non hanno più potuto godere dei medesimi diritti per via di una composizione demografica, sociale ed economica che nel frattempo era molto cambiata, ma che anzi in molti casi hanno dovuto sostenere i diritti di quei baby-pensionati a scapito dei propri.
Se assumiamo l’idea che un individuo debba lavorare per il proprio benessere e per il benessere collettivo sino all’approssimarsi della vecchiaia, possiamo concordare sulla tesi secondo cui il limite per accedere alla tutela pensionistica può variare in riferimento a diversi fattori, ma che tuttavia non deve andare a sostituirsi anzitempo all’attività lavorativa poiché un sistema in cui l’età della popolazione cresce, le nascite sono in costante diminuzione e l’immigrazione non riesce a sostituirsi in modo ottimale alla perdita di popolazione attiva, può essere sostenibile solo se le persone lavorano (dunque si auto-sostengono) il più a lungo possibile. A meno, è ovvio, che non si vogliano ridisegnare completamente i sistemi sociali così per come li conosciamo.
NOTE
- I dati completi si possono ricavare dall’inchiesta giornalistica pubblicata da R. Ciccarelli su «Il Manifesto» il 4 giugno 2014, dal titolo Manuale per uccidere una biblioteca nazionale.
- Per una trattazione sistematica della questione transgenerazionale mi permetto di rimandare a T. Andina. Transgenerazionalità. Una filosofia per le generazioni future, Carocci, Roma 2020.
- Per un approfondimento delle questioni relative alla transgenerazionalità primaria rimandiamo a A. Schützenberger, The Ancestor Syndrome: Transgenerational Psychotherapy and the Hidden Links in the Family Tree, Routledge, London 1998.
- I. Kant, Idea per una storia universale in un intento cosmopolitico, trad. it. M. C. Pievatolo, in Sette scritti politici liberi, Firenze University Press 2011, p. 28.
- Per il testo completo si rimanda qui.
- Per una interessante comparazione dinamica degli andamenti delle economie dei principali paesi industrializzati tra il 1960 e il 2017 cfr. il World GDP by Country.
- Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità: un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it. P. Rinaudo, Einaudi, Torino 1990, ed. or. Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Suhrkamp, Frankfurt/M 1979. Jonas affronta la questione dell’importanza del futuro per la strutturazione dei modelli sociali, soffermandosi soprattutto sul ruolo e sulle potenzialità della tecnica. La tesi di fondo, in buona sostanza, è questa: poiché lo sviluppo tecnologico ha accelerato in maniera consistente le possibilità dell’uomo di intervento sulla natura e poiché mai come nell’ultimo secolo lo sviluppo tecnico si è mostrato in grado di alterare gli equilibri profondi della natura, l’uomo deve assumersi il compito di elaborare previsioni che si facciano carico anche delle conseguenze più negative. Per Jonas, perciò, costruire il mondo sociale significa prima di tutto prendersi carico delle conseguenze delle decisioni e delle azioni sociali, dunque fare i conti con il futuro.
- INPS.
Per approfondire
• T. Andina, Transgenerazionalità. Una filosofia per le generazioni future, Carocci, Roma 2020.
• T. Hobbes, Leviathan, a cura di C.B Macpherson, Penguin, Harmondsworth 1968.
• H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Suhrkamp, Frankfurt/M 1979; trad. it. Il principio responsabilità: un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it. P. Rinaudo, Einaudi, Torino 1990.
• A. Schützenberger, The Ancestor Syndrome: Transgenerational Psychotherapy and the Hidden Links in the Family Tree, Routledge, London 1998.