Sono tre anni che manco da Atene, a causa (soprattutto) delle passate limitazioni degli spostamenti dovuti al Coronavirus, che si sono poi mescolate ad altre ragioni accessorie. Mi auguravo dunque che l’uscita dell’ultimo libro di Petros Markaris, La congiura dei suicidi, La nave di Teseo, Milano 2022, mi riportasse – pur nel consueto contesto giallo – alle vivaci atmosfere di quella città, alle sue taverne, ai suoi caffè, alle sue strade affollate. La vicenda è invece ambientata nel 2021, in pieno lockdown, e pertanto abbiamo un’Atene grigia, a tratti cupa, con locali e negozi chiusi, anche se – misteri di una città davvero sui generis – l’unica parvenza di normalità è data dal traffico automobilistico sempre caotico e incredibilmente sostenuto.
Tra suicidi e omicidi
Il commissario Kostas Charitos e i suoi colleghi si trovano come al solito a sbrogliare una matassa davvero ingarbugliata. Infatti la serie di delitti (riusciti o tentati) ideati da un’organizzazione no-vax che si firma «Combattenti del 2021», si innesta su un’altra serie: quella di suicidi di alcuni anziani, i quali a loro volta inneggiano a una «Congiura dei suicidi». Risulta subito chiaro (e pertanto si può scrivere) che gli anziani si tolgono la vita per sensibilizzare la pubblica opinione sulle conseguenze delle chiusure di negozi e ristoranti, e sui rischi sociali di una povertà diffusa, poiché – come dice uno di loro – «l’unica arma di cui disponiamo è quel poco di vita che ci resta». Sulle ragioni (o presunte tali) dei no-vax meglio passare oltre: ne abbiamo sentite di simili (in vari gradi di veemenza) anche nel nostro Paese, anche se – grazie al cielo – non hanno mai assunto i colori del terrorismo come nel romanzo del noto giallista greco, che ha dedicato questo suo libro alla memoria di Andrea Camilleri.
Una famiglia coesa, una società disgregata
Non posso dire molto altro, purtroppo (o per fortuna). Posso solo affermare che è sempre un piacere ritrovare Kostas Charitos, sua moglie Adriana (cuoca provetta), sua figlia Caterina (avvocata) con il marito Fanis (medico ospedaliero), nonché Lambros, l’adorato nipotino che cresce di romanzo in romanzo. Sì, Lambros, che deve il suo nome allo “zio” – per modo di dire – Lambros Zizis, amico di famiglia dal turbolento passato di attivista politico comunista (subì il confino al tempo dei colonnelli) e ora felice responsabile di un centro di accoglienza per persone in difficoltà. È un gruppo al quale noi lettori fedeli sentiamo di appartenere, con il quale ci pare di condividere le saporite cene con i gustosi ghemistà (pomodori ripieni) della signora Adriana, come pure le numerose discussioni sui più vari argomenti. L’impressione è quella che l’ormai anziano Markaris (che ha 85 anni) voglia opporre la coesione virtuosa (anche se non unanime) di questo nucleo familiare più o meno allargato alla disgregazione di una società greca lacerata dai conflitti sociali e ancor più da quelli generazionali. Una società dove quelli della sua età si sentono «sconfitti anche dai propri nipoti», perché chi ha combattuto in passato contro l’oppressione politica e la «povertà» (questa parola compare spessissimo nel romanzo) vede come quest’ultima sia ben lontano dall’essere sconfitta; anzi, si diffonda sempre di più.
La scuola della povertà
Si badi, però. Nessuna “strizzata d’occhio” da parte di Charitos (sempre più alter ego del suo autore) che possa giustificare le azioni criminali in atto: solo la voglia di capire, di non soffermarsi alla fenomenologia delle cose per coglierne le ragioni più profonde. Perché come i “colleghi” Maigret e Montalbano, il nostro commissario sa che dietro ogni azione c’è comunque un uomo (o più uomini) con il suo – giusto o sbagliato – universo spirituale e valoriale, la cui conoscenza è per un poliziotto altrettanto importante di quella della sequenza dei fatti. E perché sa che quella «povertà» cui già ho accennato può condizionare – e non poco – pensieri e azioni di tutti: è per questo che auspica insieme con la moglie che il nipotino, quando crescerà, frequenti spesso il centro di assistenza gestito dall’omonimo “zio” Lambros. Esiste infatti – dice la signora Adriana – una «scuola della povertà» che vale come e più degli studi universitari. Chi conosce l’opera di Markaris sa che non si tratta di affermazioni retoriche o demagogiche, perché l’impegno sociale è sempre affiorato nei suoi libri. Se invece qualcuno dovesse obiettare che gli ultimi gialli di Markaris – pur gradevolissimi – sono tra loro molto (troppo?) simili, un po’ di ragione credo l’avrebbe; ma non era forse anche il grande Italo Svevo a confessare «non ho scritto che un romanzo solo»? In fondo Markaris non è l’unico a considerare il format dei propri libri una sorta di “marchio di fabbrica”…