L’anticolonialista digitale

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Ci sono gli entusiasti sostenitori dell’introduzione del digitale a scuola e ci sono le voci fuori dal coro. Tra queste, la prima che abbiamo voluto sentire è quella di Roberto Casati, autore del recente saggio “Contro il colonialismo digitale”.

 

Non è un luddista né un apocalittico del digitale. Roberto Casati è un filosofo del linguaggio e un ricercatore del CNRS di Parigi che affronta il tema della digitalizzazione a scuola e va dritto al cuore del problema chiedendosi se è davvero utile sostituire i libri di carta con quelli digitali. A suo parere, infatti, l’introduzione del digitale è una questione da valutare e rinegoziare caso per caso. Diversamente non ci si sottrae alle dinamiche di una colonizzazione a tappeto da parte del digitale.

D: Professor Casati, che cosa intende per “colonialismo digitale”?
R: Il colonialismo digitale è un’ideologia secondo cui dal semplice fatto che una qualche attività umana possa migrare verso il digitale ne segue che essa debba migrare verso il digitale. Dalla possibilità viene fatta seguire la necessità normativa: si può, quindi si deve. Ma a mio parere sarebbe importante capire che il digitale è una modalità, un insieme di strutture informazionali a nostra disposizione, e che non tutto può e deve migrare verso il digitale.
Ciò non significa opporsi al digitale di per sé: significa piuttosto avviare una riflessione circa l’implementazione della digitalizzazione. Un esempio di qualcosa da non digitalizzare è il voto. Digitalizzarlo è contro la democrazia, perché lo rende controllabile e manipolabile, e ne mette il meccanismo al di là della capacità di comprensione dei cittadini. Non c’è soluzione ingegneristica che tenga: i coloni digitali diranno che troveranno una soluzione al problema, ma il problema si crea proprio con la loro pretesa di digitalizzare il voto. Invece il libro e la scuola sono zone di mezzo, terra di confine. Non penso che non si debba passare al digitale in questi ambiti: dico solo che tale passaggio va negoziato di caso in caso. Il libro di carta, ad esempio, presenta dei vantaggi cognitivi che riguardano la gestione della memoria e dell’attenzione. Non tutti i libri, da questo punto di vista, sono sullo stesso piano. Wikipedia e i libri di cucina hanno tratto vantaggio dalla migrazione on-line: nessuno vuole stamparsi otto milioni di pagine di Wikipedia e tenersi in casa informazioni che non gli serviranno mai. Il saggio invece è una “tecnologia” diversa che favorisce il riesame cosciente dell’argomentazione. Quando si legge un saggio bisogna essere messi nella condizione di riesaminare continuamente quello che è stato detto e vagliarlo alla luce delle nuove informazioni che man mano vengono date. Ciò avviene al meglio quando il materiale è organizzato in una struttura completamente lineare come quella del libro cartaceo. Questo non è solo un modo per immagazzinare dei dati, è un modo per riesaminare le argomentazioni. Questo tipo di design, il libro cartaceo, andrebbe preservato.

D: Il suo libro Contro il colonialismo digitale mostra una certa verve polemica. Perché le è parso importante affrontare il tema della digitalizzazione?
R: La digitalizzazione procede a grande velocità, viene considerata un valore in sé e c’è scarso dibattito pubblico su di essa. I policy makers trovano molto utile poter misurare velocemente qualsiasi cosa: è facile, ad esempio, nel caso della scuola sostituire la difficilissima misurabilità dei risultati scolastici o della crescita morale e spirituale degli studenti con la misura del numero di connessioni Internet per regione o col numero di tablet distribuiti agli studenti per provincia.
Mi sembra importante invece che le persone siano messe nella condizione di rinegoziare in ogni singolo caso l’introduzione del digitale. Vi sono delle pratiche in cui la transazione fisica e non elettronica è un elemento di garanzia. In molti casi prima di passare all’elettronico vorrei che venissero discussi i costi di ciò che si perde. Quello che si guadagna viene continuamente vantato, ma non c’è mai una discussione su quello che si perde.
Ciò viene nascosto dalla retorica della smaterializzazione, della velocità, del costo più basso. Si pensi ai costi dell’archiviazione elettronica: è vero che spostare elettroni costa meno che spostare atomi, però il design globale della situazione che si sta producendo non è così economico, soprattutto ora che tutti si stanno spostando su cloud. I costi di accesso sono altissimi: Google da solo usa un decimillesimo di tutta l’energia del mondo. Sembra poco, ma in realtà è tantissimo, ed è solo un decimo dei costi energetici di accesso. Si ritiene che il libro di carta sia antiecologico rispetto a quello elettronico, ma si deve pensare anche che quello di carta immagazzina carbonio che poi sottrae all’atmosfera per tutta la sua vita, che può durare anche secoli.

D: Uno dei punti forti della nozione di “nativo digitale” sembra essere la capacità che essa ha di spiegare il disagio dei meno giovani verso le tecnologie. Lei che rifiuta tale nozione, come spiega questo disagio?
R: Secondo me il disagio è finito. L’era del disagio è terminata dai tempi in cui non si deve più guardare il manuale per capire la tecnologia. Mia madre sa usare lo smartphone, eppure ha ottant’anni e non aveva mai utilizzato un computer in vita sua. Recentemente le è stato regalato un tablet e lo usa benissimo. Siamo entrati nell’era del design totale. Questa è la ragione per cui i nativi digitali non esistono o, per dirla in altro modo, lo siamo tutti. L’argomento è chiuso appena uno si guarda in giro e vede i nonni digitali.

 

D: Colpisce che non si siano dimostrati effetti positivi dell’utilizzo di strumenti educativi digitali sui livelli di apprendimento. Che cosa emerge dagli studi?
R: Alcuni studi cominciano a essere pubblicati. Raccomando le ricerche di Marco Gui dell’Università di Milano Bicocca che sta facendo un lavoro molto serio sull’unica grande inchiesta disponibile, la PISA OCSE 2011. Considerando il risultato scolastico in funzione delle nuove tecnologie, i dati mostrano una curva a U invertita. Ciò significa che i risultati scolastici migliorano con un utilizzo molto modico delle nuove tecnologie. In seguito calano: col crescere dell’uso delle tecnologie, i risultati si abbassano al punto di scendere sotto i livelli di coloro che non utilizzano le tecnologie. Questo è un dato interessante che richiede di essere interpretato. Faccio l’ipotesi che l’uso massiccio delle tecnologie nelle scuole tenda ad avere un effetto distraente sui discenti. Tale ipotesi, del resto, sembra confermata da uno studio condotto dal Dipartimento francese di Les Landes allo scopo di verificare i risultati di un’iniziativa che assegnava un computer a ogni studente. L’esito è stato che le tecnologie sono distraenti.
C’è poi uno studio di Helene Hembrooke e Geri Gay: hanno diviso una classe in due gruppi, fornendo ad alcuni studenti il libero accesso alle tecnologie informatiche durante la lezione, vietandolo agli altri. Subito dopo hanno svolto a sorpresa un test e i primi hanno fatto peggio. Certamente bisogna fare ricerca, perché questi risultati sono molto limitati. Non si può però accettare di spendere in maniera totalmente acritica tutte le risorse che vengono investite negli strumenti digitali. Come si fa ricerca per l’introduzione di una nuova medicina sul mercato o per l’introduzione di un sistema di sicurezza sulle auto, così bisogna fare anche per la scuola. Va applicato, insomma, il principio di precauzione.

D: Il Decreto Crescita (ottobre 2012) segna l’introduzione di strumenti integrativi digitali per i libri scolastici. Nel decreto firmato dal ministro Profumo (marzo 2013), si prevede l’adozione di libri in versione digitale o mista a partire dal 2014-15. L’attuale ministro Carrozza ha posto un freno al decreto, ritenendo che l’accelerazione impressa fosse eccessiva. Come si può impiegare il tempo “in più” che il ministro ha reso disponibile?
R: Mettiamola così: il Decreto Crescita ci mette una pressione virtuosa per ripensare certi aspetti della didattica. È una sfida, ma è una sfida interessante. Non è affatto detto che la scuola debba stare seduta sui manuali di carta e non fare niente. Le idee ora in circolazione sono abbastanza povere, pensiamo a quella della digitalizzazione in blocco dell’intero testo. Invece il manuale cartaceo potrebbe essere ripensato seriamente. Se il difensore del libro di carta pensa che esso abbia valore, deve anche dimostrarlo. Ad esempio, se il design del libro tende a scimmiottare un sito web, è molto difficile poi far passare la tesi che il manuale cartaceo abbia un suo valore. Di questo abbiamo parlato anche con il filosofo Achille Varzi. Ad esempio, i manuali di logica in circolazione vanno dal semplice al complesso, sembra ovvio. In realtà ci sono dei vantaggi nell’insegnare la logica dal complesso al semplice, dai risultati metalogici all’indietro verso i fondamenti. Oltretutto, impostando al rovescio, si potrebbe dire in quaranta pagine ciò che prima si diceva in trecento, lasciando il resto agli approfondimenti. Mi parrebbe interessante fare manuali al rovescio che portano direttamente al cuore dei problemi.
Un’altra cosa importante che andrebbe fatta, su un altro fronte, è proporre un approccio da ricerca su tali questioni. Mettere intorno al tavolo soltanto gli industriali, i sindacati, i genitori, gli insegnanti non basta: bisogna metterci anche la ricerca. La tentazione sempre maggiore è quella di utilizzare degli indicatori semplici: quanti computer per studente, quante LIM per scuola e così via. Per capire a fondo la situazione servono invece indicatori più sensibili e intelligenti. Per svilupparli però serve la ricerca: bisogna inventare e programmare.
C’è infine una considerazione più generale, se si vuole di tipo umanistico, sul significato dell’istruzione e su cosa vuol dire tenere per almeno dieci anni degli studenti in una classe e cosa vuol dire farli crescere in questo ambiente. È una responsabilità che abbiamo: sono studenti della scuola dell’obbligo, hanno una libertà molto vincolata e non è giusto dare meno che il meglio ai ragazzi e alle ragazze che si trovano in questa condizione. E non dimentichiamo che la scuola deve essere esemplare: formare buoni cittadini non è solo formare persone in grado di usare l’ultimo tipo di tecnologia, ma persone in grado di adattarsi, guardare avanti, dotate di anticorpi per le situazioni impreviste che il futuro ci riserva.

Roberto Casati è direttore di ricerca del Centre National de la Recherche Scientifique all’Institut Nicod di Parigi. Collabora al Domenicale del “Sole 24 Ore” ed è autore di numerosi saggi, tra cui Buchi e altre superficialità (con Achille Varzi, Garzanti 1996) e La scoperta dell’ombra (Mondadori 2001). Nel 2013 ha pubblicato per Laterza il saggio Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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