Minneapolis, 25 maggio 2020. George Floyd, un cittadino statunitense di colore, viene ucciso da un poliziotto bianco durante un arresto. Derek Chauvin, dopo aver fermato George, lo blocca a terra, immobilizzandolo con un ginocchio sul collo, fino a provocarne il soffocamento. Alcuni testimoni riprendono la scena con il cellulare e quando viene pubblicata sui social media, scoppia la rivolta. “I can’t breathe” diventa lo slogan per protestare contro l’ennesimo abuso di potere della polizia statunitense ai danni di un cittadino di colore. Tra manifestazioni, rabbia e devastazioni, gli Stati Uniti sembrano ripiombare nel passato. All’improvviso, la questione razziale irrompe ancora una volta nella realtà americana contemporanea. La morte di George Floyd riporta alla luce un odio antico e mai sopito nei confronti della popolazione di colore. Un odio che fonda le sue radici in secoli di schiavitù, che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della Nazione. Non è bastata una sanguinosa Guerra Civile e neppure la successiva ratifica del Tredicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America (1865), che ha abolito la schiavitù, per sconfiggere la piaga del razzismo.
Alla fine Guerra di Secessione, il Ku Klux Klan cominciò a spargere il seme dell’odio, sostenendo la superiorità della razza bianca. Un cancro che è cresciuto silente nel Paese, è dopo una fiammata alla fine della Prima Guerra Mondiale, si è disperso come un veleno in mille rivoli per inabissarsi nei meandri più oscuri e reazionari della coscienza della Nazione. Come un magma incandescente, quietamente assopito nelle segrete di un’anima buia e violenta, è risalito ancora una volta in superficie attraverso le ferite mai cicatrizzate. Gli Stati Uniti sono tornati a bruciare tra rivolte, devastazioni e coprifuoco.
Sembra di essere tornati alle atmosfere descritte dal film Mississippi Burning (1988), uno splendido e crudo atto d’accusa contro il razzismo, firmato da Alan Parker. La sceneggiatura è ispirata a un reale fatto di cronaca, avvenuto nel 1964 in una piccola cittadina del Mississippi. Due agenti dell’FBI sono incaricati di indagare sulla misteriosa scomparsa di tre attivisti impegnati in una campagna per i diritti civili degli afroamericani. L’inchiesta porterà alla luce una serie di brutali omicidi a sfondo razziale, in cui sono implicati esponenti del Ku Klux Klan, la polizia locale e l’omertà di una popolazione silenziosamente complice.
Le immagini di Mississippi Burning offrono l’opportunità di ricordare i lungometraggi più belli e interessanti che hanno trattato il tema del razzismo negli Stati Uniti. Un’occasione per scoprire o rivedere, alcuni grandi film e di riflettere sulle radici di un fenomeno così profondamente radicato nella società.
Cominciamo con un grande classico: Il buio oltre la siepe (1962) di Robert Mulligan. Ambientato nell’Alabama degli anni Trenta, il film racconta la storia di un avvocato deciso a dimostrare l’innocenza di un giovane di colore, ingiustamente accusato d’aver violentato una ragazza bianca. Nonostante le prove della sua innocenza, l’imputato è condannato da una giuria razzista. È uno dei film simbolo di una Hollywood progressista e socialmente impegnata degli anni Sessanta, che ha il coraggio di guardare in faccia la realtà di un paese ancora profondamente segnato dai problemi razziali.
Sono anni di forti tensioni e violenti conflitti, delle rivendicazioni di Malcom X, assassinato nel 1965, di Martin Luther King, ucciso nel 1968, e del movimento del Black Power. Nel 1967, il pugile Muhammad Ali rifiuta la chiamata alle armi durante la Guerra del Vietnam, motivando la sua scelta con parole dure:
La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera.
Siete voi il mio nemico, il mio nemico è la gente bianca, non i Vietcong i cinesi o i giapponesi. Voi siete i miei oppositori se voglio la libertà, siete voi i miei oppositori se voglio giustizia. Siete voi i miei oppositori se voglio uguaglianza. Voi non mi sosterrete mai in America per il mio credo religioso. E volete che vada da qualche parte e combattere. Ma difenderete mai voi me qui a casa?
Nello stesso anno esce al cinema La calda notte dell’ispettore Tibbs di Norman Jewison. In una piccola cittadina del Mississippi, un uomo viene misteriosamente ucciso. La polizia locale non trova di meglio che arrestare Virgil Tibbs, per il solo fatto di trovarsi in giro di notte e di avere, secondo la polizia, troppi soldi nel portafoglio per un uomo di colore. Peccato che Virgil sia un Agente Federale e da quel momento prenderà in mano le indagini, nonostante i pregiudizi della polizia locale. Il film è la spia di una società ancora attraversata da violente tensioni, che si manifestano agli occhi del mondo durante i Giochi Olimpici di Città del Messico del 1968. I due atleti statunitensi Tommie Smith e John Carlos, medaglia d’oro e di bronzo nei 200 metri, salgono sul podio e durante l’inno nazionale, abbassano il capo e alzano al cielo un pugno con un guanto nero.
Sul finire degli anni Ottanta è uno degli autori più rappresentativi del cinema nero americano a occuparsi della questione razziale. Nel 1989 Spike Lee firma Fa’ la cosa giusta e nel 1992 Malcom X, un bellissimo ritratto del leder del movimento afroamericano assassinato durante un comizio ad Harlem nel 1965. [Se non l’avete visto, recuperate anche il suo ultimo film, il divertente, inquietante Blakklansman, N.d.R.]
L’agguato (1996) di Rob Reiner racconta un’incredibile storia giudiziaria. Un esponente di un movimento razzista, ispirato al suprematismo bianco, viene accusato dell’omicidio di un attivista impegnato nel riconoscimento dei diritti dei cittadini di colore. Nonostante le prove schiaccianti, l’imputato viene assolto. Sarà un tenace avvocato a lottare per riportarlo davanti al giudice per ottenere giustizia.
Norman Jewison torna a occuparsi della questione razziale con lo splendido film The Hurricane (1999), basato sulla vera storia del famoso campione di pugilato Rubin “Hurricane” Carter. A metà degli anni Sessanta, Carter venne prima defraudato del titolo di Campione del Mondo dei pesi medi, con uno discutibile verdetto a sfondo razziale, e poi ingiustamente condannato per un triplice omicidio mai commesso. Alla drammatica vicenda di Rubin Carter, Bob Dylan ha dedicato la canzone Hurricane nel suo Album Desire (1976).
Quentin Tarantino ha portato sullo schermo il periodo della schiavitù nelle piantagioni di cotone del profondo Sud degli Stati Uniti con il suo Django Unchained (2012). Un film che si muove tra espliciti omaggi allo Spaghetti Western, citazioni postmoderne, iperboli visive, violenza, gusto del grottesco e una straordinaria interpretazione di Christoph Walz.
Nel 2013 il regista inglese Steve McQueen firma 12 anni Schiavo, mettendo il suo straordinario talento visivo al servizio di una storia di razzismo e segregazione. Un uomo di colore, che prima della Guerra di Secessione viveva da uomo libero nello stato di New York, viene rapito e deportato in Louisiana. Vivrà per 12 anni la dura esperienza della schiavitù prima di poter riacquistare la libertà.
Chiudiamo la rassegna con una splendida opera della regista Kate Bingelow: Detroit (2017). Un film che conferma il talento della cineasta statunitense e la sua capacità di raccontare con uno stile essenziale e sempre efficace, basato su una narrazione adrenalinica e una profonda capacità d’analisi psicologica dei personaggi. Il film è ambientato nel 1967 a Detroit, teatro delle violente manifestazioni degli afroamericani contro le discriminazioni razziali. L’uccisione di un ragazzo di colore da parte di un poliziotto scatena disordini e il coprifuoco. A farne le spese sarà anche un giovane musicista finito per caso in una retata, che senza colpa vivrà giornate da incubo.