La storia transgender di Susan Stryker

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In una calda giornata di fine maggio, abbiamo incontrato a Gorizia una delle massime studiose di tematiche transgender a livello mondiale: la storica statunitense Susan Stryker. Assieme a lei ripercorriamo le tappe fondamentali che hanno portato negli ultimi decenni la comunità trans* all’affermazione di princìpi e pratiche identitarie, e come la storia recente si ricollega a personaggi e miti di epoche più antiche.
Susan Stryker (al centro) parla di storia transgender a Gorizia – © Sara Urbani.

Il pomeriggio goriziano è caldissimo e sotto la grande tenda bianca intitolata a Erodoto il pubblico si sventola come può alla ricerca di un filo d’aria. Lo spazio è gremito per ascoltare Susan Stryker, che terrà una lezione sulla Storia transgender (come il titolo del suo libro, appena tradotto in italiano da Laura Fontanella e Marta Palvarini per Luiss University Press). Siamo al festival internazionale èStoria, giunto ormai alla sua diciannovesima edizione, che ogni anno offre al suo pubblico un gran numero di eventi, spettacoli, incontri e presentazioni incentrati sul tema scelto: quest’anno è “donne” la parola chiave attorno a cui ruota tutto. E nel ricco programma dedicato alle donne nella storia, uno degli incontri è proprio quello con Stryker, professoressa emerita di Gender and Women’s Studies (ha insegnato alla University of Arizona, a Yale e a Stanford). Suo è anche il film Screaming Queens, che racconta la sommossa dell’agosto 1966 alla Compton’s Cafeteria di San Francisco, cioè la prima rivolta transgender della storia americana, con cui ha vinto un Emmy nel 2005.

Stryker inizia la sua conferenza sotto la tenda dando una definizione molto semplice del termine transgender:

trans vuol dire “attraverso” e quindi essere una persona transgender significa muoversi attraverso i confini costruiti dalla società di cosa significhi essere donna o uomo. E credo sia più importante e interessante il moto stesso di attraversamento dei costrutti sociali, piuttosto che il motivo per cui li si attraversa.

L’inquadramento iniziale è utile per affrontare la questione, perché appunto bisogna distinguere fra sesso biologico, governato principalmente da cromosomi e ormoni (che suddivide i corpi delle persone in maschili, femminili o intersex), e genere, che invece è un costrutto sociale. Da molti anni, infatti, la sociologia riconduce l’appartenenza di una persona a un genere in base a fattori di natura sociale e non, invece, a differenze di tipo fisico; in pratica il genere esprime un’appartenenza culturale e non biologica.

 

 

Le caratteristiche che definiscono i generi variano in base ai diversi contesti storico-sociali, ma gran parte delle culture umane adotta il cosiddetto binarismo di genere, che contempla solo due generi (maschile e femminile), e chi è al di fuori di questa dicotomia di solito usa il termine “non binario”. Alcune culture però hanno specifici ruoli di genere che sono distinti da uomini e donne, come gli hijra dell’Asia meridionale. E proprio gli hijra sono uno degli esempi portati da Susan Stryker per illustrare i vari generi che ci possono essere fra gli esseri umani; infatti, racconta che

in India e Pakistan c’è una tradizione molto lunga di persone considerate appartenenti al “terzo genere”: una categoria protetta che gode di diritti civili ed è riconosciuta come patrimonio culturale della società.

Un altro esempio, più vicino alla nostra cultura di matrice ebraico-cristiana, affonda le sue radici nel passato remoto:

chi studia la storia delle antiche culture ebraiche sa che potevano essere contemplati ben sette generi differenti. Oltre a quelli maschile e femminile c’erano anche diversi tipi di eunuchi e persone androgine, tutti collegati a sette differenti status sociali e tipi di corpi, ognuno di questi generi aveva diverse responsabilità civili e religiose.

Parlando invece della classicità greca, Stryker cita varie storie che oggi potremmo chiamare di “transizione” da un genere all’altro. Come quella dell’indovino Tiresia che secondo il mito sarebbe nato uomo, ma poi avrebbe vissuto per sette anni come donna per ritornare infine uomo. O ancora si ricorda il celebre passaggio del Simposio di Platone, dove Aristofane narra il mito secondo cui un tempo non esistevano soltanto due sessi, bensì tre: quello maschile, quello femminile e l’androgino, cioè un essere che aveva caratteristiche sia maschili che femminili. E ancora prima dei miti greci – come ricorda la professoressa statunitense – c’erano

le pitture o le incisioni rupestri, che troviamo sulle pareti di grotte abitate decine di migliaia di anni fa, in cui si vede una percentuale molto alta delle figure umane rappresentate con genitali che non sono né maschili né femminili, oppure hanno un miscuglio di parti anatomiche femminili e maschili, o addirittura sono un mix di parti sia umane che di altri animali. Sembra quasi che immaginarsi un corpo diverso sia una componente molto profonda della cultura umana, e queste fantasie di immaginare cose diverse dall’ordinario o che fanno attraversare le differenze sono parte integrante dell’essere umani.

Venendo a tempi più vicini a noi, anche nella storia del cristianesimo ci sono delle figure che “cambiano sesso” persino fra i santi: un esempio interessante è quello di santa Vilgefortis (o Wiltgefortis), la cui leggenda è nata nel XIV secolo e che ha come caratteristica distintiva una folta barba. Ovviamente non è mai esistita, ma secondo la leggenda questa giovane nobildonna, che viveva in Portogallo o in Galizia, era stata promessa in sposa dal padre a un re pagano contro la sua volontà, dato che aveva fatto voto di castità. Per impedire le nozze indesiderate, Vilgefortis aveva pregato di assumere un aspetto ripugnante e Dio l’avrebbe esaudita facendole crescere la barba proprio la notte prima del matrimonio. Questo aveva mandato a monte il fidanzamento, ma il padre l’avrebbe fatta crocifiggere per punizione.

Santa Vilgefortis (o Kümmernis) in un dipinto di Leopold Puellacher, circa 1825 – Wikimedia

 

Si pensa che il nome di questa santa derivi dai termini latini virgo fortis, ovvero “vergine coraggiosa”, ma è conosciuta anche con altri nomi che cambiano in base alla lingua: per esempio, Kümmernis in tedesco (che significa “dolore”, “ansia”) o Débarras in francese (“liberazione”). A volte la sua figura viene sovrapposta a quella di santa Liberata martire, molto venerata in Spagna e in Italia, che però non ha la barba. In realtà, Vilgefortis non è mai stata canonizzata ufficialmente dalla chiesa cattolica e il suo culto viene soppresso nel 1969, ma per secoli è stata una figura popolare a cui rivolgersi per cercare sollievo dalle tribolazioni, in particolare le donne che non volevano sposarsi o desideravano essere liberate dai mariti violenti. Inoltre, per il suo aspetto, Vilgerfortis viene spesso descritta come una “santa transgender” e talvolta è vista come la patrona delle persone che si identificano come gender fluid.

Un’ultima riflessione che ci regala Susan Stryker, mentre il fresco della sera arriva anche sotto la tenda Erodoto, riguarda un personaggio storico: Simone de Beauvoir. Nel suo libro Il secondo sesso (il Saggiatore, trad. R. Cantini, M. Andreose, Milano, 2016), la filosofa e femminista francese scriveva che «donna non si nasce, lo si diventa», ed era il 1949. Oggi questa affermazione è condivisa anche da Stryker, secondo cui

tutte le persone hanno esperienza che i ruoli sociali cambiano nel corso della vita, e questo è totalmente naturale e normale; per diventare le persone che siamo, veniamo plasmati da strutture sociali e culturali che mutano nel tempo. In questo senso le esperienze delle persone transgender ci insegnano che anche il corpo può significare varie cose e può cambiare, non necessariamente i suoi aspetti biologici ma il suo significato. L’idea di de Beauvoir che una persona non nasce donna ma lo diventa, attraverso la sua esperienza nella società, si avvera proprio nelle persone transgender che di fatto lo dimostrano ogni giorno.

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Sara Urbani

Laureata in scienze naturali con un master in comunicazione della scienza, ha lavorato per la casa editrice Zanichelli. Scrive anche per Odòs – libreria editrice e per i magazine online La Falla e Meridiano 13.

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