C’è una poesia che Nazım Hikmet dedica a suo figlio, dice così:
Non vivere su questa terra
come un inquilino,
o come un villeggiante stagionale.
Vivi in questo mondo
come se fosse la casa di tuo padre.
Credi al grano,
alla terra, al mare,
ma prima di tutto ama l’uomo.
Ama la nuvola,
il libro
la macchina,
ma prima di tutto
l’uomo.
Senti in fondo al tuo cuore
il dolore del ramo che secca,
del pianeta che si spegne,
della bestia ferita,
ma prima di tutto
il dolore dell’uomo.
Quando, da ragazza, la imparavo a memoria, insieme alle altre Poesie d’amore del poeta turco, non sapevo che dietro ogni parola, dentro ogni parola, ci fosse la voce di una donna che aveva letteralmente reso possibile gran parte delle cose che io ritenevo importanti (la democrazia, il femminismo, la poesia di Hikmet). Questa donna era Joyce Lussu.
Marchigiana di origini inglesi, Joyce Salvadori aveva attraversato il Novecento amando il libro, il grano, la terra, ma soprattutto gli uomini e le donne con una originalità, una forza, un’intelligenza che ora Silvia Ballestra restituisce in un libro bellissimo, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu (Laterza, Roma-Bari 2022).
Partigiana, traduttrice, poetessa, femminista, militante del Partito d’Azione e poi del Partito socialista, compagna di Emilio Lussu, che conosce negli anni della clandestinità, Joyce, diminutivo di Gioconda, come scrive Ballestra, è tutto questo e ancora non basta:
a volte cambio l’ordine, di alcune definizioni so che avrebbe da ridire (per esempio su «intellettuale», e probabilmente pure su «agitatrice culturale»), quasi sempre mi sembra che nessuna di queste etichette riesca a dar conto della sua grandezza, neanche se messe, appunto, tutte assieme.
Nata nel 1912, dal 1924 vive in fuga, dopo che suo padre, il sociologo Guglielmo Salvadori, è stato picchiato selvaggiamente dai fascisti di Firenze, città dove insegna. I Salvadori si rifugiano in Svizzera: lì Joyce cresce poliglotta e curiosa, e inizia a scrivere poesie che presenta a Benedetto Croce durante un viaggio in Italia ormai adolescente. Decide di studiare filosofia a Heidelberg, ma quando nel 1932 Hitler si reca in visita alla città la giovane si rende conto di quanto i suoi professori siano passivi di fronte al Borgomastro, per cui, come scrive Ballestra,
una prima fase della vita di Joyce si chiude così, con il rigetto per l’establishment culturale delle accademie e delle università, del sapere ufficiale ai massimi livelli di raffinatezza del pensiero che però non ha saputo o voluto riconoscere i segni della tragedia incombente neanche quando ce li ha avuti sotto gli occhi. Distratto e miope.
L’anno dopo, nel 1933, Joyce Salvadori incontra Emilio Lussu in Svizzera. Lussu è già un rivoluzionario ricercato dalle polizie fasciste di tutta Europa. Comandante della brigata Sassari, pluridecorato, fondatore del Partito d’Azione, è riuscito a fuggire al confino fascista di Lipari insieme a Carlo Rosselli e Fausto Nitti. Ma Joyce parte per l’Africa insieme al fratello e a un marito con cui passerà solo pochi anni. Tornata in Europa, infatti, inizia la grande storia d’amore e di resistenza con Emilio Lussu. La vita dei due nel volgere degli anni Trenta è segnata, come scriverà Joyce nel suo Fronti e frontiere, da continui attraversamenti, operazioni in incognito, che mettono in luce, secondo Ballestra, la
dimensione mondiale alla resistenza, segnando un itinerario internazionale che dalla Francia passa in Spagna, in Portogallo, in Inghilterra, di nuovo in Francia, dentro e fuori dalla Svizzera che è territorio neutrale e base fondamentale per il passaggio dei fuoriusciti, e infine il ritorno nell’Italia da liberare. Ed è il racconto di una lotta intrapresa sin dal 1938, quando pareva che nazismo e fascismo fossero imbattibili, una lotta che è una anticipazione e una prefigurazione della resistenza con tutto ciò che ne consegue in termini di lungimiranza politica e solidarietà umana.
I due attraversano l’Europa in guerra con ogni mezzo, protetti proprio dal loro essere una coppia dall’apparenza rispettabile, cambiando continuamente identità. E in coppia partecipano alla lotta clandestina nei mesi dopo l’8 settembre, quando tutto diventa più pericoloso. Joyce aspetta un figlio, e incinta attraversa le linee per portare un messaggio agli inglesi nel sud Italia. Il figlio, Giovanni, nascerà a Roma nei giorni della liberazione della capitale.
Quello che accade dopo la guerra è, fuori da ogni eroismo, quanto di più emozionante c’è nella vita di Joyce Lussu. Capisce di non poter crescere all’ombra del compagno, dell’eroe, ora parlamentare della Repubblica, e pur restandogli accanto, cerca una sua strada. Gli anni sono difficili, perché dopo la prima ondata di entusiasmo intorno alla Costituente lo spazio per la partecipazione politica femminile si fa sempre più stretto, le donne elette diminuiscono subito, i partiti ne candidano solo quanto basta per adempiere con decenza al mandato costituzionale. Joyce Lussu lo vede, lo sa, mentre partecipa alla costituzione dell’UDI, l’Unione donne italiane. Ma prende molto sul serio questo suo impegno soprattutto dopo aver scoperto la drammatica condizione di vita delle donne sarde, nelle aree rurali, nelle aree minerarie. Lì i bambini muoiono di fame, le
donne spaccano il granito con martelli rudimentali accovacciate sull’orlo delle strade, l’analfabetismo che affligge la maggior parte della popolazione colpiscono profondamente Joyce che non immaginava di trovare nel suo paese condizioni peggiori di quelle che aveva osservato in Africa tanti anni prima.
Il racconto di questi anni è commovente, e Ballestra restituisce in modo nitido la difficile condizione femminile anche nei partiti di sinistra, per cui non bastano i garofani rossi che le vengono fatti trovare in ogni occasione a mascherare un maschilismo persistente e odioso:
Joyce lo racconta allegramente: arrivava magari dopo dieci ore di treno verso sud o verso nord, nelle piazze e nelle sale, e le trovava stipate di uomini […] imbarazzati davanti alla richiesta di Joyce: «Dove sono le donne?». Le donne sono a casa, balbettavano quelli, non vengono in sezione, non si intendono di politica, non vogliono stare tra gli uomini, devono preparare il pranzo domenicale, badare ai bambini piccoli, andare a messa. Ma sono tesserate, eh! E allora Joyce prendeva a urlare «Ah sì? Restano a casa perché sono donne oneste! E io che giro con voi per le piazze e le osterie, che cosa sono?».
Io che cosa sono? Una per la quale ogni risposta appare insufficiente. A un certo punto Silvia Ballestra, tirando le somme del primo decennio del secondo dopoguerra nella vita di Joyce Lussu, ricorda questa poesia:
avrei dovuto trovare la bilancia giusta affinché l’amore personale e la vita ideale
si fossero alleati senza farsi male.
La conciliazione fra vita pubblica e vita privata, che Joyce Lussu rivendica con forza al punto da litigare con i suoi compagni, riemerge come una ferita dolorosa quando si trova a fare i conti con quanto ha perduto della vita privata. Queste pagine sono fra le più belle del libro, e parlano di una condizione universale, nemmeno più soltanto femminile, ma che lo sguardo delle donne ha insegnato a guardare in faccia. Cosa si è disposti a lasciarsi alle spalle pur di perseguire i nostri progetti di vita.
Nei tardi anni Cinquanta, attraversati da un nuovo conformismo familista, la ribellione di Joyce Lussu è totale. Si allontana dalla vita di partito e intraprende una nuova entusiasmante strada, che è quella delle traduzioni di poeti provenienti da paesi in lotta. Sono gli anni della decolonizzazione. È proprio durante il Congresso per il disarmo e la cooperazione internazionale a Stoccolma, nel luglio del 1958, che Lussu incontra Nazım Hikmet, ospite anche lui tra i delegati mondiali. Lei non parla turco, i due traducono insieme, facendosi aiutare dal francese. Quello che ne esce è uno dei capolavori della cultura europea del Novecento, non solo nella sua forma originale, ma proprio per il contributo della traduttrice. Come se nei versi precipitasse la storia di un secolo che si riflette nella vita di questi due incredibili personaggi, parola dopo parola.
Anche in questo caso le pagine di Ballestra sono luminose. Il lavoro della traduzione è lavoro politico culturale di prima grandezza, come lo era stato per Vittorini e Pavese negli anni del fascismo. Joyce lo sa e continua su questa strada con caparbia intelligenza.
Per scrivere quelle introduzioni, per penetrare nel mondo dei suoi poeti, Joyce viaggia nei loro paesi, studia tutto quello che riesce a trovare, contatta famiglie, amici e compagni di lotta dei poeti. È convinta che con la poesia si possa fare storia. Cita Rimbaud che parla di poeti «moltiplicatori di progresso», Majakovskij che esalta quelli che «non rimangono al loro posto aspettando che l’avvenimento passi, per rispecchiarlo, ma si slanciano in avanti per trascinare con sé il tempo stesso».
A proposito della consapevole scansione di questi anni della sua vita, Ballestra racconta:
Ricordo la sera del novembre ’95 a San Tommaso in cui, alla fine di una giornata di incontri in giro per le Marche, riprendendo il nostro lavoro al registratore, mi disse: «Comunque, mi è venuta in mente una periodizzazione di cose con cui ho avuto a che fare dal secondo dopoguerra in poi. È una periodizzazione divisa per decenni, chissà poi perché: dal ’48 al ’58 comizi elettorali, sindacati, partiti di massa, Unione donne italiane. Conseguenze: ulcera gastrica con operazione d’urgenza. Dal ’58 al ’68: molti viaggi, ricerca di poesie nel mondo, partecipazione a movimenti di liberazione anticolonialisti, in Africa e in Medio Oriente. Conseguenze: stata sempre benissimo».
Degli ultimi anni si intuisce una grande attività di lavoro, traduzioni, attività politica, impegno nella comunità marchigiana, dove tornerà a vivere dopo la morte di Emilio. Finito il libro rimane la voglia di stare ancora un po’ in sua compagnia, di rileggere Fronti e frontiere, per esempio. Un libro che fa venire voglia di leggerne altri: questo è anche questa bellissima biografia.