Ieri Moktar, ragazzo di Dacca, ha intonato una canzone d’amore. È stato il suo modo per ringraziare l’insegnante delle due ore che lei, docente in pensione, gli aveva dedicato. Abbiamo chiesto il significato del ritornello e lui, col sorriso sulle labbra, ha sillabato: “Io tu, deci, sento, mile volta, tuto sieme”. La settimana precedente Puya, proveniente dalle campagne intorno a Teheran, aveva letto Petrarca: «Solo et pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi et lenti». Il suo accento iraniano, modellando i celebri versi, ce li restituiva con forza nuova, come se fossero stati decorati.
Sono queste le storie della Penny Wirton, la scuola di lingua italiana per giovani e adulti migranti che abbiamo fondato, dieci anni fa, nella chiesa di San Saba, sull’Aventino, nel centro dell’Urbe imperitura, dove padre Stefano Fossi ci concesse l’uso di qualche locale. Penny Wirton e sua madre è il titolo di un romanzo di Silvio D’Arzo, grande scrittore italiano, il cui protagonista è un adolescente pronto a tutto, proprio come Hafiz e Mihai.
Oggi siamo attivi nell’ostello universitario di Casal Bertone. A noi si ispirano, firmando una carta d’intesa, trentacinque associazioni [edit: dal momento della scrittura del pezzo a oggi i punti didattici sono saliti a quarantadue, N.d.R.] sparse in tutta Italia: da Udine a Messina, da Milano a Bari.
La nostra avventura si può vedere anche in video: “Italiani anche noi” è infatti il programma andato in onda su Tv 2000 lo scorso anno, disponibile sul nostro sito. Questo programma in dieci puntate ha lo stesso titolo dei due manuali pubblicati dalla Erickson di Trento, che io e mia moglie, Anna Luce Lenzi, entrambi laureati su D’Arzo, abbiamo composto per insegnare la lingua italiana agli immigrati. A Roma siamo duecento volontari per altrettanti studenti. In questi anni sono già passati da noi migliaia di persone.
Quante volte cade a terra e quante volte può rialzarsi in piedi un ragazzo di sedici anni? Me lo chiedo spesso quando vedo Giulio e Christian, adolescenti di borgata che sono chiamati quasi ogni giorno a passare attraverso invisibili cerchi di fuoco: ipocrisie, indifferenze, egoismi, incurie, superficialità e smemoratezze. Si tratta di nemici invisibili eppure pericolosi almeno quanto i fiumi in piena e i deserti aridi che hanno dovuto superare Izhaq e Mohamed, coetanei venuti da molto lontano. Ritrovare oggi insieme nella stessa aula Paolo e Ismail ha qualcosa di miracoloso: così distanti, così vicini, gli uni come frammenti italiani, gli altri quali schegge di un mondo che ha la febbre alta.
Ci sono anche gli adulti. Eccole lì, Lena, Tatiana, Katerina, Barbara, coi loro maglioni pesanti, le camicette fuori moda, i capelli grigi. Se qualcuno le definisse “ripetenti della vita”, non si scandalizzerebbero. Vengono dalle pianure spoglie, dai paesi sprofondati nel fango, dalle fattorie isolate dove fa notte alle quattro di pomeriggio. Ho l’impressione che queste donne, russe, ucraine, moldave, polacche, sedute intorno al tavolo con Paola, Angela e Claudia, le loro professoresse, fino a qualche settimana fa avessero inforcato gli occhiali solo per introdurre il filo nell’ago, non certo nel tentativo di controllare le doppie o mettere gli accenti al posto giusto. Sembra quasi di vederle, alla luce fioca delle stanzette dove abitavano prima di venire in Italia a fare le badanti.
Mi viene in mente quello che scrisse una volta Franz Kafka a Elias Canetti spiegandogli perché avesse deciso di aiutare senza compenso i profughi ebrei a Berlino: “Da questo lavoro si può ricavare più miele che da tutti i fiori di Marienbad”. Credo che possa valere anche per noi. Quaranta, cinquanta studenti per quasi altrettanti professori, in un rapporto che cerca di avvicinarsi quanto più possibile a quello che stabilirebbero due amici, due amiche. Come se parlare e scrivere fossero acqua, pane e vino. Senza classi. Da questo lavoro si può ricavare più miele che da tutti i fiori di Marienbad, scriveva Kafka della nostra scuola.Senza voti. Senza registri. Senza burocrazie. Cercando di dare a ognuno ciò di cui lui o lei ha bisogno. Matiur entra in aula, sorride, ti stringe la mano e si mette a sedere. Tu subito gli consegni il foglio con la matita e lo aiuti a decifrare l’alfabeto. Poi a gruppi sparsi, arrivano gli altri: Abdì, Raissa, Dimitri, Mascia… Stanno tutti seduti a leggere e scrivere sui quaderni colorati. Le insegnanti accanto a loro scandiscono lente: bo-cca! E si toccano le labbra. Na-so! E lo indicano con il dito. Pie-de! E si chinano per mostrarlo. Abdul, occhi sgranati sulla pelle scura, esclama: bu-cca. Imran, nello stupore della nuova scoperta, ripete: no-so! Omar, al massimo della concentrazione, dichiara: be-de!
È una scuola così, con tanti studenti che arrivano da ogni parte del mondo, con almeno sessanta nazionalità rappresentate, e afferrano le parole come frutti dall’albero. Ciao Hassan! Forza Matiur! Grande Silvester! Venite tutti qui a diventare italiani insieme a noi.
Con gli anni mi sono reso conto da dove vengono quelli che il codice definisce “minorenni non accompagnati”. Uno farebbe presto a dire: dal Bangladesh, dall’Egitto, dalla Romania, dal Camerun, dall’Afghanistan. Certo, questi, e tanti altri, sono i luoghi di provenienza geografica. Ma non bastano a farci comprendere la vera stazione di partenza. Gli adolescenti senza famiglia che studiano alla Penny Wirton, spesso istruiti da coetanei italiani che svolgono presso di noi l’alternanza scuola-lavoro, hanno subìto il vecchio tradimento che da sempre gli adulti mettono in atto nei confronti dei giovani. Trascuratezza, noncuranza e insensibilità si sono mischiate, da una generazione all’altra, a polvere, fango e sangue, come l’acqua alla pasta, il latte al miele, la notte al giorno. È questo ciò che unisce Marco a Rashedur, Paolo a Malick: l’inganno subito da parte degli adulti. Se ne rendano conto, oppure no, sono stati colpiti quando non potevano difendersi.
Adesso Joseph crede davvero che, fra qualche anno, diventerà l’idolo dei tifosi interisti, alla maniera del suo famoso connazionale, Samuel Eto’o; Leonid è sicuro che, appena sarà grande, tornerà a Chiscinau trionfante sulla BMW ornata di fiori; Ahmed è convinto di riuscire a spedire allo zio i soldi che serviranno per comprare il terreno nelle campagne intorno a Dacca.
Chi avrà il coraggio di raccontare ad Abu la vecchia verità delle stelle finite nei fossi, a Ruslan la vicenda dei mari trasformati in rigagnoli, a Mustafà la cronaca dell’oro che diventa sasso, a Giovanni la storia di Pinocchio?
Dovranno farlo da soli nella lingua italiana, scoprendo le parole che noi saremo stati in grado di consegnare loro: tazze calde e mantelli di velluto, certo, ma anche spade e pugnali, perché ci sono esperienze che non possono essere vissute senza ferirsi.
Nella nostra scuola c’è chi cerca un padre. E chi trova un figlio. Chi vuole soltanto qualcuno che lo guardi in faccia. A volte il guizzo di comprensione che brilla negli occhi di Sumon o di Florina ti fanno balenare il senso di una vita che si avvia, di un’altra che si riprende. E che dire del sorriso di Alina che si accosta con la mano piena di caramelle ucraine saldamente intenzionata a infilartele in tasca come ricompensa per quello che ha ricevuto? La piega della sua bocca porta inciso il segno delle amarezze conosciute, ma lo sguardo va già oltre e ha la luce di chi è pronto a ricevere su di sé la fortuna o la grazia di un tempo migliore.