La scuola che educa a orientarsi

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Che cosa significa educare a orientarsi? Che cosa significa sviluppare competenze orientative a scuola e imparare a raccontarsi? Un’esperienza – dal numero 26 de «La ricerca», “Il senso dell’orientamento”.

Mi capita spesso di sentir dire agli adulti o di leggere in commenti su Facebook frasi come: «Quando andavo a scuola io tutte queste sciocchezze, la pedagogia, la didattica, l’orientamento nessuno le nominava eppure ce la siamo cavata lo stesso». Un tempo restavo in silenzio: siccome non ero stata quella che propriamente si dice una studentessa modello, tutt’altro, addossavo a me sola le responsabilità, e non mi passava lontanamente per la testa di mettere in discussione il sistema: ero io che non avevo fatto il mio dovere.
Intorno ai 30 anni sono diventata insegnante, iniziando come tutor per ragazzi con difficoltà scolastiche, ruolo che ho svolto per un intero anno in un istituto paritario di Bologna. Nessuno dei tre ragazzi che seguivo mostrava difficoltà di apprendimento, il loro problema semmai era quello di non riuscire a star fermi e zitti, di annoiarsi durante le lezioni e di non trovare nessuna utilità nello studiare 5, 10, 15 pagine del libro da ripetere all’insegnante per portare a casa un voto decente. Quindi i primi studenti che ho incontrato corrispondevano, più o meno, alla studentessa che ero stata.
Dopo Bologna, mi sono trasferita in provincia di Ancona, e siccome di punti in graduatoria ne avevo davvero pochi, poche erano anche le speranze di essere chiamata da una scuola statale: presentai allora il mio curriculum in un istituto paritario – per intenderci, in uno di quegli istituti che tanti si limitano a liquidare, con fare sprezzante, “diplomifici”, e che io invece, dopo averci lavorato per qualche anno, ho cominciato a chiamare “l’ultima speranza”. L’ultima speranza per una parte dei ragazzi che la scuola respinge con “non sei portato”, “questa scuola non fa per te”: glielo hanno ripetuto talmente tante volte che alla fine si sono arresi e, per chi se lo può permettere, il diplomificio resta l’ultima speranza per aggiudicarsi il pezzo di carta. Per gli altri esiste l’agenzia interinale, non ci sono altre strade.

Diventare insegnante mi ha permesso di osservare le cose da un altro punto di vista, e ho scoperto che sì, anche la me studentessa “mediocre” aveva le sue responsabilità, ma la me insegnante ne ha molte di più. Per cui oggi, a chi inizia con «quando andavamo a scuola noi…», rispondo che quando andavo a scuola io le cose andavano malissimo, poiché nessun insegnante si è mai preoccupato di cercare di capire cosa non funzionasse per me: sono stata bocciata in prima superiore, e posso dire per esperienza diretta che la bocciatura non aiuta, ma devasta.
Dopo il diploma ho continuato gli studi, mi sono iscritta all’Università (e sono contenta di averlo fatto, anzi: credo sia stata, inconsapevolmente, una delle migliori scelte della mia vita), ma allora ciò che mi spingeva era soprattutto un desiderio di riscatto: dovevo dimostrare ai miei insegnanti che avevano sbagliato tutto, che non avevano capito nulla di me, e che questo aveva reso il mio percorso di studi tanto faticoso. Ci ho messo anni prima di riuscire a dire nel luogo dove lavoro che sono stata bocciata. L’ho detto una mattina di giugno durante uno scrutinio, a un mio collega che tentava di convincermi che le bocciature possono fare bene. Gli ho chiesto: sei mai stato bocciato? – Chi, io? No, mai! – Io sì, invece, quindi parlo con cognizione: le bocciature devastano.

Tra tanti studenti che ho incontrato alla paritaria, ricordo D.: arrivò in quinta da un liceo statale, era stato bocciato insieme ad altri compagni perché avevano ripreso in classe, con il cellulare, un docente durante la lezione (giravano allora i primi smartphone). D. era un ragazzo molto intelligente, laconico e allo stesso tempo molto ironico, e nutrivo una grande simpatia per lui. Un giorno arrivò a scuola più imbronciato del solito, capii che qualcosa non andava quando gli rivolsi una domanda e lui mi rispose in maniera brusca, cosa che non aveva mai fatto. Lo lasciai stare, ma alla fine della lezione gli chiesi se avesse voglia di venire fuori a parlare un po’ con me. Lo portai in sala docenti, cominciammo a conversare, e la prima cosa che fece fu chiedermi scusa per la risposta che mi aveva dato a lezione: lo tranquillizzai dicendogli che capivo che era una giornata-no, e lui, con mia enorme sorpresa, scoppiò a piangere, singhiozzando, come un bambino, e mentre piangeva mi diceva: non ne posso più, io volevo andare al tecnico, invece i miei genitori non hanno voluto, non mi hanno permesso di scegliere, o il liceo o niente. Qualche anno dopo – in un professionale alberghiero, l’IIS “Einstein–Nebbia” a Loreto, dove ancora lavoro, in provincia di Ancona – M. una mattina, annoiato più del solito, mi dice:

– Prof, ma io che ci faccio qui?
– In che senso?
– Nel senso che io non voglio fare il cuoco, mi spiega allora lei perché sto in questa scuola?
– Non so, dimmelo tu.
– Perché alle medie ero un casino e quindi mi hanno suggerito di iscrivermi a un professionale, e tra tutti i professionali questo mi è sembrato quello più adatto a me.

M. oggi non fa il cuoco e non si è nemmeno iscritto all’università, come a un certo punto sembrava volesse fare; lavora invece con il padre in una ditta edile. Cosa raccontano queste due storie? Che spesso noi adulti ci sostituiamo ai ragazzi, non lasciamo che siano protagonisti delle loro vite ma solo spettatori delle “loro” scelte: spesso tendiamo, noi adulti, a vedere i ragazzi troppo giovani!, incapaci di decidere da soli, consideriamo il loro bagaglio di esperienze troppo leggero per poter fare scelte sensate. Forse questo è quello che ci raccontiamo. Credo invece sia più probabile ciò che dice Matteo Lancini in Sii te stesso a modo mio:

Ci troviamo a fare i conti con un’infanzia costellata non di ideali ma di forme di iperadattamento o, addirittura, di microtraumi cumulativi dovuti alla sensazione di dover essere sempre se stessi nel modo di qualcun altro, dei genitori, della scuola e di una società ricca di contraddizioni.1

Ma è compito della scuola occuparsi delle scelte dei ragazzi? Credo sia compito della scuola educare i ragazzi a fare scelte consapevoli e offrire – qui prendo in prestito le parole di Federico Batini – «un contributo all’incremento del potere e del controllo di un soggetto sulla propria vita e sulle proprie scelte»2. Quindi dovremmo educare i ragazzi a conoscersi, a osservare e conoscere ciò che li circonda, insomma a essere soggetti responsabili della loro vita e del loro futuro (empowerment3). Qualcuno penserà: ecco, ulteriori incombenze per i docenti. Ma non è così: inserire nel proprio curricolo attività di didattica orientativa4 non significa aggiungere lavoro a quello che già si fa: chi insegna lettere, come me, potrà servirsi della letteratura anche in chiave orientativa, seguendo per esempio i principi dell’orientamento narrativo5.

Da lettrice, che ha tratto dalle storie grandi insegnamenti e rivelazioni, quando sono diventata insegnante è stato per me naturale dare alla lettura un ruolo da protagonista. Così quando mi sono imbattuta in Insegnare con la letteratura di Simone Giusti6 (era tra i libri da studiare per uno degli esami per conseguire l’abilitazione all’insegnamento), e da quando a Le storie siamo noi7 ho seguito un seminario sul Writing and Reading Workshop, le mie classi hanno assunto sempre più un assetto laboratoriale. Oggi durante le mie lezioni le storie raccontate, lette, condivise, scritte sono imprescindibili, e in questo contesto l’orientamento narrativo ha trovato una sua collocazione naturale.

Come ho detto, lavoro in un istituto professionale, dove da anni la didattica è improntata al raggiungimento, a conclusione dei vari percorsi, di una serie di obiettivi in termini di competenze, per cui ogni anno, tra settembre e novembre, noi docenti ci riuniamo in gruppi di lavoro e progettiamo le UdA. Una di queste, ideata ormai quasi dieci anni fa, ha come titolo “Scelta consapevole”: corrisponde all’esigenza di progettare un percorso indirizzato alle classi seconde che abbia come obiettivo competenze orientative, in quanto ci si è resi conto, noi docenti, che i ragazzi alla fine del biennio sceglievano l’indirizzo per i successivi tre anni senza alcuna consapevolezza. In realtà, sembrava che molti avessero scelto quella scuola come ripiego e non fossero felici della scelta.

L’UdA prevede il coinvolgimento di più discipline tra cui italiano, ovviamente, e qui il lavoro è improntato seguendo i dettami dell’orientamento narrativo. Nel triennio, con il fine di consolidare le competenze orientative, il percorso prosegue con altre UdA, e l’ultima, in quinta, ha il titolo “Come sono diventato”.

Ma stando all’UdA “Scelta consapevole”, provo a illustrare come si è deciso di impostare il lavoro nelle ore di italiano: si parte da una serie di letture attraverso cui fornire ai ragazzi spunti di riflessione per scrivere brevi testi che poi si condividono con i compagni: la scelta dei brani è fondamentale, e qui ricordo che inizialmente, quando stavamo ancora imparando come funziona l’orientamento narrativo, ci hanno molto aiutato tre piccole antologie: Non so che fare, Non mi importa di voi,
Non mi vedo
8, dove i brani, corredati da una serie di attività, permettono al docente di avviare discussioni o attività di scrittura, tutte allo scopo di permettere ai ragazzi di riflettere su sé stessi, di imparare a conoscersi, e a compiere scelte sempre più consapevoli.

Quest’anno, inoltre, in alcune classi seconde l’UdA si è legata a un progetto, finanziato dall’Università di Siena, dal titolo Orientare con la letteratura9. Lo scopo del progetto è realizzare un protocollo di formazione e dei kit didattici per insegnanti di Lingua e letteratura italiana che permetterà loro di creare in autonomia percorsi di orientamento formativo.

Negli anni, ciascun docente ha organizzato la propria personale biblioteca per l’orientamento, fatta di racconti, poesie, canzoni, albi illustrati, podcast. Tra i miei titoli, per citarne solo alcuni, compaiono Nodi al pettine10 di Marie-Aude Murail, Mike11 di Andrew Norriss, Cris12 di Manuela Salvi e l’albo Come sono diventato Marc Chagall13 di Bimba Landmann, il cui testo è liberamente tratto dall’autobiografia La mia vita14 di Marc Chagall. Lo scorso anno insegnavo in due classi seconde e ho iniziato il percorso leggendo proprio quest’ultimo albo. Il racconto è in prima persona, l’artista narra della sua infanzia in Russia all’interno di una famiglia ebrea, parla dei sogni che aveva da bambino e di quello che i genitori desideravano per lui, del suo rapporto con la scuola, di quanto si annoiasse, della disperazione dei genitori davanti al suo desiderio di diventare pittore e della sua determinazione: «Ma io continuavo a pensare alla pittura. Questa volta sognavo di entrare alla Scuola di Belle Arti di Pietroburgo. E anche questa volta riuscii a convincere papà». Perché proprio quest’albo? Perché leggendolo si possono aprire tante piste per riflettere, su sé stessi, su chi siamo, su cosa vorremmo per noi, su cosa invece desiderano gli altri per noi. Di solito funziona così: leggo io una prima volta l’albo per intero, chiedo loro di ascoltarmi e di appuntare sul taccuino, se ce ne sono, domande/impressioni/connessioni15: c’è sempre qualcuno che annota qualcosa, e così, dopo la lettura integrale dell’albo, chiedo, a chi ha voglia, di condividere con i compagni le domande, le curiosità, le connessioni. Accade quasi sempre che nasca una discussione animata dove ci si confronta, ci si racconta, si negozia significato. La seconda lettura dell’albo invece è a stazioni, nel senso che ci soffermiamo su alcune tavole, ne analizziamo i disegni e poi rileggo io alcuni passi e do un’attività di scrittura rapida. Porto qui un esempio: «I miei genitori mi avevano mandato a studiare alla scuola russa per farmi diventare contabile o fotografo. Sognavano per me un buon impiego, una buona paga». Partendo da questo passo, ho fornito lo stimolo per scrivere un quickwrite: «È successo anche a te che altri abbiano scelto per te? Quando è successo? Come ti sei sentita? Come hai reagito?»

Il percorso prosegue con altre letture e altri spunti di scrittura, e per tutta la sua durata gli studenti utilizzano il taccuino per raccogliere le riflessioni e le altre loro attività. A conclusione del percorso, chiedo di comporre un testo, in prosa o in versi, a loro scelta, in cui raccontino cosa significa scegliere consapevolmente. Tutto questo lavoro confluisce poi nella composizione di un prodotto finale, di solito multimediale, che presenteranno alla classe e ai docenti delle discipline coinvolte: racconteranno di sé, del percorso svolto e infine comunicheranno, se hanno già deciso, la scelta dell’indirizzo per il triennio.
È evidente che in questo percorso la competenza orientativa non è l’unica che si persegue.

È grazie al lavoro della Dirigenza e della funzione strumentale per la didattica e grazie all’impegno di tante colleghe e colleghi che da anni a scuola proviamo a praticare, accanto alla didattica per competenze, anche una didattica orientativa; e così, quando quest’anno è stata inserita la nuova figura del docente tutor orientatore, non è stato difficile per noi che, appunto, non eravamo completamente all’oscuro di ciò che dovevamo fare: si è trattato più che altro di organizzare la gestione delle trenta ore, e di capire cosa prevede e come funziona la piattaforma UNICA16. A ciascun docente è stato assegnato un gruppo di studenti con i quali, attraverso la piattaforma, fissare incontri individuali o, più di rado, in piccoli gruppi, o anche con i genitori.

Durante gli incontri i colloqui sono improntati all’ascolto attivo e non giudicante17, non diamo consigli e non suggeriamo scelte, perché le scelte spettano ai ragazzi, e noi, semmai, li sosteniamo e li educhiamo a compiere scelte, in sé né giuste né sbagliate, ma che siano consapevoli.

Ora, al rientro dalle vacanze pasquali i miei studenti di terza sono in alternanza scuola-lavoro, la maggior parte in strutture turistiche della zona eccetto due, partiti per Valencia grazie al progetto Erasmus. Prima di salutarci, ho dato loro una consegna: Dovrete tenere un diario di bordo, anche digitale, in cui raccontare giorno per giorno le esperienze più significative che vivrete nelle prossime settimane: non vi preoccupate di essere dettagliati, accompagnate il racconto con delle foto, con un disegno o comunque con un’immagine magari creata con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Finito il PCTO, appena ritornati in classe, dovranno prepararsi per l’esame di qualifica in cui una delle prove prevede il racconto dell’esperienza appena vissuta; al di là di questo, è importante che ricostruiscano l’esperienza appena vissuta per, come dice Paolo Jedlowski, «riconsiderare quel che si è vissuto e trarne partito»18.

A questo proposito, vorrei aggiungere soltanto una considerazione sulla piattaforma UNICA. Nei primi incontri con i ragazzi, come docente tutor ho presentato la piattaforma e poi, insieme a loro, dopo aver recuperato le credenziali di accesso o, in alcuni casi, dopo aver creato il profilo individuale sul sito del Ministero, siamo entrati e insieme abbiamo controllato quello che era menzionato per ognuno nella sezione e-portfolio: qui, rivedere tutto il proprio percorso scolastico dalla primaria fino ad oggi, per un verso li ha sorpresi («prof, ma come fanno a sapere tutto di noi?») e io ho provato allora a spiegare come lavorano le segreterie scolastiche, come vengono gestite le informazioni che li riguardano. Qualcuno invece si è soffermato sui ricordi personali, del tipo «prof, lo sa che in prima media sono stato bocciato», «prof, le ho mai detto che ho frequentato i primi tre anni della primaria a Palermo?». Negli incontri successivi, partendo da quegli stessi ricordi, abbiamo provato a ricostruirne le esperienze, nell’ottica di «trarne partito».
Non si tratta di analizzarle in chiave psicoanalitica, bensì più semplicemente di raccontare le esperienze, di “rivedere il film” di ciò che si è vissuto da un’altra angolazione, per dargli un ordine e assumerne consapevolezza. Quando io andavo a scuola tutto questo non c’era, purtroppo: quello che importava era soltanto che io e i miei compagni conoscessimo la storia della letteratura, che sapessimo tradurre un brano di Cicerone, che sapessimo risolvere un problema di matematica. Non dico, ovviamente, che tutto questo non possa essere utile (anche se ho seri dubbi che possa servire a qualcosa studiare la letteratura esclusivamente in un’ottica storico-letteraria), ma credo sia di particolare importanza, oggi, porre al centro dell’azione educativa la persona e i suoi bisogni.

Per concludere, prendo di nuovo in prestito le parole di Paolo Jedlowski, che ben sintetizzano quanto sia importante imparare a raccontarsi: «Non è che la vita non raccontata sia meno vissuta (anche se a molti, a dire il vero, pare proprio così): ma è una vita meno compresa, e probabilmente anche più vulnerabile»19.

NoteNOTE

  1. M. Lancini, Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, p. 20.
  2. F. Batini, Costruire futuro a scuola, I Quaderni della Ricerca #24, Loescher, Torino 2015, p. 7.
  3. Batini, Costruire futuro a scuola cit., p. 21.
  4. Batini, Costruire futuro a scuola cit., pp. 27–30.
  5. «Si tratta di un metodo sviluppatosi in Italia dalla fine degli anni Novanta (precisamente a partire dal 1997), che si pone la finalità di sviluppare nei soggetti la strumentazione atta all’esercizio di un maggiore controllo e di un maggior potere sulla propria vita e sulle proprie scelte, fissando il focus sull’empowerment». Tratto da L’orientamento narrativo di F. Batini, su La ricerca online, 30 agosto 2013.
  6. S. Giusti, Insegnare con la letteratura, Zanichelli, Bologna 2011.
  7. Convegno biennale sull’orientamento narrativo diretto da Federico Batini e Simone Giusti, online: www.lestoriesiamonoi.eu.
  8. Curate da F. Batini e S. Giusti e edite da Loescher Editore nel 2013.
  9. A proposito del progetto si veda in questo numero l’articolo Didattica orientativa e insegnamento letterario, di Simone Giusti.
  10. M.A. Murail, Nodi al pettine, trad. it di F. Angelini, Giunti, Milano 2018.
  11. A. Norriss, Mike, trad. it. di S. Bandirali, Uovonero, Crema 2020.
  12. M. Salvi, Cris, Fandango Weird Young, Roma 2022.
  13. B. Landmann, Come sono diventato Marc Chagall, Arka, Cornaredo (MI) 2015.
  14. M. Chagall, La mia vita, trad. it. di M. Mauri, SE, Milano 2012.
  15. F. Serafini, Around the Reading Workshop in 180 Days: A Month-by-Month Guide to Effective Instruction, Heinemann, Portsmouth 2006.
  16. Si veda https://unica.istruzione.gov.it.
  17. Batini, Costruire futuro a scuola cit., p. 27.
  18. P. Jedlowski, Esperienza, narrazione e vita quotidiana, in F. Batini e S. Giusti (a cura di), Le storie siamo noi, Liguori, Napoli 2009, p. 4.
  19. Jedlowski, Esperienza, narrazione e vita quotidiana cit., p. 6.
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Antonietta La Manna

, campana di nascita, è docente di materie umanistiche negli istituti professionali. Insegna all’IIS “Einstein-Nebbia” di Loreto in provincia di Ancona. Ha una rubrica sulla scuola, “I ferri del mestiere”, sul blog «Le parole e le cose».

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