Il geografo Strabone, greco vissuto ai tempi dell’imperatore Augusto, descrive così la realtà geo-antropica del “cuore” della pianura padana prima della conquista da parte di Roma:
Anticamente, come ho detto, la regione intorno al Po era abitata in massima parte da Celti. Le stirpi celtiche più importanti erano quelle dei Boi e degli Insubri e inoltre dei Senoni … Milano era anticamente un misero villaggio (tutti infatti abitavano in villaggi), mentre oggi è una città importante al di là del Po, quasi ai piedi delle Alpi. Vicino ad essa sorge Verona, anch’essa una grande città. Più piccole sono invece Brescia, Mantova, Reggio e Como. (Strabone, 5, 1, 6).
Arrivare al controllo di quest’area lombardo-veneta e, in generale, di tutto il Nord Italia non fu certo facile per i Romani, che realizzarono l’impresa passo dopo passo, con la consueta duttilità militare e politica. Dunque battaglie – dure battaglie – combattute a Nord di Roma, come quelle (ne cito solo due!) di Talamone contro un’assortita coalizione celtica (225 a.C.) o di Clastidium-Casteggio contro i bellicosi Galli Insubri (222 a.C.); ma anche alleanze, come quelle della prima ora con i Veneti e con i Galli Cenomani di Brixia-Brescia; oppure mirate trattative e progressiva occupazione del territorio mediante la fondazione di colonie romane o latine (Senigallia, Rimini, Cremona, Piacenza, Parma, Modena, Brescia, Aquileia etc.) e la costruzione di strade (Via Emilia in primis) o opere pubbliche. È la prassi nota col termine di “romanizzazione”, che consisteva nella progressiva diffusione da parte di Roma della propria lingua, della propria religione, delle proprie leggi e dei propri mores nei territori sottomessi prima di annetterli formalmente ai domini romani; senza disdegnare anche di assorbire ciò che di buono la cultura dei popoli vinti o alleati poteva dare, in un’osmosi “globalizzante” che fu certo tra i punti di forza del governo romano del mondo.
Dunque l’Italia del Nord divenne in un primo tempo “territorio di occupazione”, strenuamente difeso da Gaio Mario dall’assalto dei Cimbri nel 101 a.C; fu quindi trasformata in provincia in un’epoca incerta, ma forse in età sillana; solo in seguito si vide assegnare la civitas latina, nell’89 a.C., e nel 49 a.C. – auspice Cesare – ottenne la cittadinanza romana optimo iure: d’altronde era lo stesso Cicerone, in quegli anni, a definire la pianura padana “il fior fiore dell’Italia”, ed era dunque impossibile che i suoi abitanti non assumessero la pienezza dei diritti politici e civili.
L’interferenza di Annibale
Queste vicende sembrano avere una loro linearità, ma le cose non stanno certo così; anche perché nell’Italia del Nord – o Cisalpina che dir si voglia – accanto alle numerose tribù celtiche (i Romani li chiamavano Galli) che vi si insediarono dal V sec. a.C. in poi, vi erano – tra gli altri – i Liguri, i Veneti, gli Etruschi. Non solo, ma quando il cartaginese Annibale nel 218 a.C. giunse in Italia per sfidare Roma (seconda guerra punica), cercò di sobillare le genti locali, e in parte ci riuscì se è vero che molti Galli si arruolarono con lui, come attesta quel famoso passo nel quale Tito Livio ricorda come nella battaglia del Trasimeno (217 a.C.) il console Gaio Flaminio sia stato ucciso dal cavaliere insubre Ducario (allora al fianco di Annibale) per vendicarsi delle sconfitte inflitte alla propria gente dal generale romano. Si dice infatti:
I nemici si scagliavano con grande violenza contro di lui [il console Flaminio] , che si distingueva per l’armatura, mentre i suoi concittadini lo proteggevano, finché un cavaliere insubre, che si chiamava Ducario, riconoscendo il console anche dal volto, rivolto ai suoi connazionali: «Ecco», disse, «è proprio costui che fece strage delle nostre legioni e saccheggiò i nostri campi e la nostra città! Io consacrerò questa vittima come un’offerta ai Mani dei concittadini indegnamente uccisi» (Ab Urbe condita 22,6, trad. B. Ceva).
La mostra di Brescia
Insomma, chi volesse saperne di più di questa storia complessa di conquista, assimilazione, mescolanza tra genti e cultura diverse, non può perdersi la grande mostra che si tiene al Museo di Santa Giulia a Brescia, dal titolo Brixia: i Romani e le genti del Po. III-I sec. a. C., un incontro di culture, curata dagli archeologi Luigi Malnati e Filli Rossi. Un mostra il cui biglietto consente la visita anche al cosiddetto “santuario repubblicano”, ubicato sotto il Capitolium, oggetto di recenti restauri che ne valorizzano la suggestiva decorazione murale a encausto: davvero un unicum (o quasi…) per la nostra Lombardia, il cui clima umido, nel corso di due millenni di storia, non è certo stato tenero con le pitture romane!
Ma torniamo a Santa Giulia, per dire che ospita una rassegna davvero molto “archeologica”, che ci illustra le vicende da me succintamente riassunte sopra con la potenza documentaria degli oggetti. Abbiamo infatti circa 500 pezzi, dai più minuti a quelli di maggiore evidenza, e tra questi mi permetto di segnalarne qualcuno.
- Particolare del Frontone di Talamone
- Falera da Manerbio
- Decorazione murale del santuario repubblicano di Brescia
- Ritratto di Catullo da Sirmione
- Arianna e Dioniso da Rimini
- Stele di Ostiala Gallenia
Fra i molti capolavori spiccano così il frontone di Talamone, in terracotta un tempo colorata, rappresentante una rivisitazione locale del mito dei Sette contro Tebe: esso celebra la disfatta dell’offensiva celtica avvenuta nel 225 a.C. sul promontorio toscano, e si propone come un’emozionante sorpresa per gli amanti dell’archeologia. E poi uno splendido busto fittile di guerriero, proveniente da Ravenna; un grande vaso decorato a figure rosse, da Adria; una statua di Apollo panneggiata da Piacenza, attribuita all’artista greco Kleomenes; una testa colossale di divinità femminile da Alba, di raro pathos espressivo; un’elegante figura femminile in marmo di gusto ellenistico, da Milano; una lastra architettonica a rilievo, raffigurante Dioniso e Arianna, dal Riminese. E – da ultimo – ammiriamo un affresco da Sirmione, con l’immagine di un poeta che potrebbe essere Catullo, il quale sulle rive del Garda era un vero e proprio Genius loci: ottimo esempio di un intellettuale latino di origini “settentrionali”.
Non mancano le documentazioni della vita materiale, come armi, monete, ornamenti di guerrieri (le famose falere di Manerbio), come pure iscrizioni funerarie o mosaici pavimentali. Il tutto a dimostrare come non furono solo le usanze di Celti, Liguri o Veneti a fondersi con le “imposizioni” dei Romani conquistatori; ma che alle spalle di queste manifestazioni di civiltà c’erano i superiori modelli greci ed etruschi, che, mescolandosi con le culture locali, diedero origine ad un’eclettica realtà, a una sorta di di melting pot d’altri tempi – come già dicevo prima – al quale il titolo convenzionale di “romanizzazione” sta forse stretto…
Mi rendo però conto come l’elenco di oggetti da me proposto sopra sia breve, confuso, e poco “professionale” e di questo mi scuso con i lettori; l’alternativa era quella di scrivere un articolo lunghissimo, perfino noioso, e pertanto invito tutti alla lettura del bel catalogo, edito da Silvana Editore, proposto sia in una versione più divulgativa, sia in un’altra di maggiore spessore scientifico.
Un’appendice… epigrafica
Il primo è quanto resta di una base di statua da Aquileia (CIL V, 8270 e seguenti), che ricorda il trionfo del console Gaio Sempronio Tuditano contro genti illiriche di confine nel 129 a.C.: rappresenta la Roma che vince e sottomette.
Il secondo è costituito da una coppia di frammenti bronzei di catasto, trovati recentemente (1996, 1999) a Verona, e rappresenta la Roma che organizza e amministra sapientemente il territorio agricolo in età tardo-repubblicana.
Il terzo è una stele funeraria da Padova, la stele di Ostiala Gallenia (II-I secolo a.C.), manufatto che mescola eccezionalmente elementi venetici e romani: una donna – il cui nome è scritto in caratteri latini – vi è infatti raffigurata insieme con il marito mentre è trasportata sopra un carro guidato da un cocchiere verso l’Aldilà. Ostiala veste panni venetici e porta una strana acconciatura, che gli abitanti dell’Urbe avrebbero forse guardato con divertito stupore; il marito, invece, è perfettamente agghindato con la toga romana e sembra pronto a sedersi – se l’occasione lo consente – nel Senato romano; l’epigrafe rappresenta dunque la Roma che esporta i suoi modelli presso le altre genti, senza però rifiutare la loro tradizione: la Roma che “romanizza”, insomma.