Ci sono alcuni viaggi che partono in maniera assolutamente ordinaria per poi prendere un decorso inaspettato. Così è avvenuto per me nell’estate 2022 durante un soggiorno in Friuli-Venezia Giulia, che mi ha portata alla scoperta di Trieste e della Risiera di San Sabba. Proprio da questa visita è scaturito in me il desiderio di conoscere meglio le vicende di quel luogo carico di storia e di dolore, ma anche, singolarmente, di letteratura. Ne ho dunque tratto argomento per la mia tesi di laurea[1], che si è soffermata soprattutto sulle testimonianze letterarie (nel senso più ampio del termine: si va dai graffiti alle lettere d’amore, alle testimonianze processuali…) in lingua italiana, che in qualche modo sono legate a questo particolare contesto. Testimonianze che – un po’ sorprendentemente – erano state fino ad allora trascurate dagli studiosi, soprattutto per quanto concerne la loro raccolta e organizzazione sistematica (preciso che esisteva solamente un catalogo contenente graffiti, messaggi e lettere della Risiera, dal titolo Scritte lettere e voci: tracce di vittime e superstiti della Risiera di San Sabba, realizzato dal Civico museo della Risiera di San Sabba in collaborazione con il Comune di Trieste nel 2014 in occasione di una mostra).
In attesa della pubblicazione di questo mio lavoro, ho accolto volentieri la proposta di mettere a disposizione dei lettori de «La ricerca» qualche spunto da essa emerso, e lo faccio con particolare piacere in quanto siamo a ridosso della celebrazione della Giornata della memoria del 27 gennaio.
Perché proprio a Trieste?
La città di Trieste è sempre stata nella storia luogo di frontiera, senza un’identità precisa. È la patria di grandi scrittori come Svevo, Giani Stuparich, Anna Pulitzer e altri numerosi intellettuali, che in qualche modo hanno sempre associato il proprio modo di fare letteratura al peculiare contesto culturale di questa città. Costoro hanno sempre imbevuto il proprio pensiero nelle acque di un particolare multiculturalismo fatto di elementi italiani, influsso mitteleuropeo e influenza slava.
Di contro, le particolari condizioni storico-sociali di questo territorio hanno generato terreno fertile per alcune terribili vicende, come quella della Risiera di S. Sabba, un campo di concentramento nazista della natura mista del tutto peculiare.
Innanzitutto, la domanda sorge spontanea: perché un campo di concentramento proprio a Trieste? Fiumi di libri, carte e documenti parlano della situazione della città friulana durante la Seconda guerra mondiale: le fonti storiche non mancano. La ragione principale, secondo lo storico Tristano Matta (esperto dell’argomento e autore di numerosi studi sulla Risiera), sarebbe da rintracciare nel fatto che il territorio friulano era un passaggio obbligato per la regione dei Balcani, quindi la sua conquista avrebbe creato una cerniera tra il fronte balcanico e il fronte italiano. Altra ragione, forse più importante, è che questo territorio era uno dei più “caldi” d’Italia per le spinte contrastanti a cui era soggetto: in particolare, le scorribande di partigiani sloveni e croati da una parte, che miravano alla liberazione del territorio dalle incursioni fasciste (e naziste, dopo l’8 settembre del ’43); dall’altra l’ideale fascista di “italianità pura” su emulazione hitleriana, che stava esercitando ormai da vent’anni forme di discriminazione nei confronti della minoranza slovena e croata attraverso l’attuazione di un’operazione di italianizzazione forzata del territorio. A queste due ragioni ne va aggiunta una terza: a Trieste esisteva una delle comunità ebraiche più importanti d’Italia, pertanto la città poteva diventare naturale bacino di raccolta degli Ebrei catturati all’interno dell’area balcanica e allo stesso tempo punto di smistamento verso i campi tedeschi e polacchi.
Tutte queste ragioni avrebbero portato dunque alla costituzione da parte dei nazisti del Litorale Adriatico, una “zona di operazione” comprendente le province di Udine, Trieste, Gorizia, Fiume, Pola – a partire dall’aprile 1941 anche quelle di Lubiana, Sušak, Castua, Buccari, Veglia – e che risulta sostanzialmente come un tentativo di annessione del territorio al Terzo Reich. È in questo particolare contesto che viene creata la Risiera di S. Sabba.
Un campo dalla natura peculiare
Questo luogo si presenta come un campo di natura mista, che per certi versi funziona in modo opposto rispetto ai campi nell’Europa del centro-nord. Si tratta infatti di un luogo di transito per i prigionieri di origini ebraiche (smistati poi verso Auschwitz e Ravensbrück), di un campo di sterminio per i prigionieri politici – questa è la spiegazione della presenza al suo interno di un forno crematorio, non presente negli altri campi di internamento italiani – e infine di un vero e proprio campo di concentramento per alcuni prigionieri “scelti” per lavorare al suo interno, prevalentemente di origine ebraica.
La Risiera si trova all’interno di un contesto urbano, precisamente nel rione Servola di Trieste. Il lager è ricavato da un ex stabilimento adibito alla pilatura del riso, e per adattarlo alla sua nuova funzione vengono chiamati diversi uomini appartenenti all’Einsatzkommando Reinhard, cioè un manipolo di fedelissimi al nazismo che in passato hanno preso parte all’operazione T4 (Tiengarten 4) detta anche “Operazione Eutanasia”, una folle impresa nazista durata dal 1939 al 1940 consistente nell’eliminazione sistematica in Germania di tutti i disabili mentali e fisici all’interno dei campi di sterminio polacchi. Questo gruppo di “esperti” viene precettato direttamente da Treblinka per esportare le proprie competenze anche nel Litorale Adriatico.
Tra questi compaiono nomi di personaggi tristemente noti: Globočnic, Allers, Wirth, Franz, Stadie e molti altri, che dalla Polonia sono trasferiti in Friuli per svolgere le stesse terrificanti mansioni.
Dopo la liberazione da parte degli Alleati, la Risiera è riprogettata come Memoriale dall’architetto Romano Boico. Appena varcata la soglia del campo, senza rendersene conto, il visitatore è trasportato in un luogo che, come ha giustamente affermato lo studioso Massimo Mucci, è uno «spazio estetico di sperimentazione»[2], dove il tempo diventa circolare, consentendo di vivere molte vite in pochi istanti. Tutto è stato progettato e disposto con un preciso criterio, l’occhio del visitatore è portato volutamente in un certo punto e poi richiamato in un altro spazio del memoriale, seguendo un iter che mira a evocare rimandi precisi.
Le mura parlanti della Risiera
Dopo aver visitato la Risiera di San Sabba, di cui oggi rimane solo una piccola parte – dato che prima della liberazione, nella notte tra il 29 e 30 aprile 1945, i nazisti tedeschi distrussero tutto ciò che poterono, nel tentativo di cancellare le tracce dei loro misfatti – ci si rende conto che le mura di quel campo in qualche modo parlano. L’edificio subito dopo l’entrata, a sinistra, è quello delle microcelle. All’interno di queste, i prigionieri rimanevano rinchiusi fino a dieci persone in uno spazio angusto di soli 1,20 metri di larghezza per 2 metri di altezza e profondità. Alcuni fra questi detenuti hanno voluto lasciare una traccia del loro passaggio, servendosi di strumenti di fortuna, come un mozzicone di matita o una forcina per capelli. Ad esempio Majda e Šasa Rupena, madre e figlia originarie della Ciceria – regione ora annessa alla Croazia, che un tempo faceva parte del territorio di Fiume – incidono le loro firme sulla porta della cella numero 14 insieme al disegno di un volto che probabilmente ritrae la quattordicenne Šasa. In un secondo momento, dopo la liberazione, quei graffiti si tramuteranno in parole: durante la fase istruttoria e le udienze del processo per l’accertamento dei crimini della Risiera del 1976, le due donne testimonieranno gli orrori vissuti attraverso ampie deposizioni. In particolare il racconto di Majda, ormai anziana, risulterà fondamentale per ricostruire il vissuto dei prigionieri all’interno del campo:
Preciso che i rumori […] venivano provocati attraverso altoparlanti che diffondevano, a pieno volume, musica che non sono riuscita nemmeno ad apprendere di quale genere fosse, stante l’alto volume e il conseguente gracchiare continuo di quegli apparecchi. Inoltre, i rumori venivano provocati da motori di automobile avviati a pieno regime.[3]
Gli aguzzini tedeschi compiono i loro delitti con il favore delle tenebre e cercano inoltre di coprire le urla dei prigionieri con stratagemmi facilmente riconoscibili dopo qualche notte di detenzione: la musica a tutto volume, il rumore degli automezzi avviati al massimo, il latrare dei cani. Questo ricordo è rimasto impresso nella memoria di molti reclusi, perché legato a un’emozione di paura cieca come il buio della notte.
Ci sarebbero moltissimi altri testimoni di quelle microcelle infernali a cui dare voce: alcune più note, come quella di Bruno Piazza (prigioniero politico poi deportato ad Auschwitz, autore del volume Perché gli altri dimenticano. Un italiano ad Auschwitz, Universale Economica Feltrinelli, Milano 1995), o quella delle sorelle Andra e Tatiana Bucci (o Bucich), deportate poi ad Auschwitz e ritrovate in seguito alla liberazione dalla madre dopo un anno e mezzo di ricerche (queste vicende sono raccontate all’interno di diversi libri, tra cui la celebre autobiografia Noi, bambine ad Auschwitz. La nostra storia di sopravvissute alla Shoah, a cura di Umberto Gentiloni Silveri e Marcello Pezzetti, Mondadori, Milano, 2019). Ma tante, la maggior parte, sono firme che non hanno più un volto, per i quali il buio, la fame, il freddo, la paura hanno generato il bisogno di adibire la propria cella a degno luogo di sepoltura, per mezzo di quegli epitaffi che sembrano volontà di riscatto da una morte orrenda e ingiusta. Le parole dei racconti dei sopravvissuti hanno il peso di opprimenti macigni:
Mi spogliarono e percossero. Mi colpirono così forte da farmi saltare tre denti […]. Finito l’interrogatorio mi calciarono brutalmente oltre la porta […]. Non c’era né luce né finestre. Non sapevo se era giorno o notte.[4]
Queste sono le parole di Albina Škabar, nata a Munrupino, un piccolo paese vicino a Trieste direttamente confinante con la Slovenia, arrestata con l’accusa di aver preso parte alla resistenza slovena. I prigionieri ancora in fase di smistamento trascorrono generalmente poche notti all’interno delle microcelle per poi essere trasferiti in uno degli stanzoni dell’edificio adiacente, suddiviso su tre piani a loro volta adibiti ciascuno a un tipo di prigionia differente. Tutto è perfettamente preciso e catalogato, secondo il modus operandi nazista. Precisamente, il secondo piano è destinato ai prigionieri di origine ebraica, nell’attesa che i treni siano abbastanza “carichi” per poter partire da Trieste alla volta dei campi tedeschi e polacchi; il primo piano è riservato ai prigionieri politici; il piano terra ai detenuti di origine ebraica scelti per rimanere all’interno del campo perché svolgano i lavori di pulizia, cucina, falegnameria, in condizioni estremamente precarie e disumane da ogni punto di vista.
I “sepolcri imbiancati di calce”
Anche le mura di questi stanzoni parlano, o almeno parlavano, prima che una mano di calce, per volere degli Alleati statunitensi, cancellasse quelle preziose testimonianze. Il fatto che questo “libro di memorie” sia giunto fino a noi è frutto di una mera coincidenza, una fortuna: Diego de Henriquez, noto collezionista a cui ora è dedicato un museo a Trieste, si reca spesso in Risiera nei mesi successivi alla sua liberazione, incuriosito da ciò che trova su quelle mura. Infatti, oltre ad avere la passione per il collezionismo, de Henriquez è un vero e proprio “grafomane”: scrive tutto ciò che vede di interessante all’interno dei suoi numerosissimi diari, suddivisi per tematica e per categoria (ne sono stati trovati ben 287). All’interno di quei «sepolcri imbiancati di calce», come li definisce lo scrittore Claudio Magris, autore di un celebre romanzo sulla figura di de Henriquez (Non luogo a procedere, Garzanti, Milano 2015), sono custodite le preziose memorie che lo studioso ha avuto la pazienza di annotare, scrupolosamente, all’interno dei suoi diari prima che andassero perdute per sempre. Sono parole che soffiano sul fuoco dell’emotività e che permettono di empatizzare e di comprendere a trecentosessanta gradi la tragicità di un’esperienza come quella vissuta dai prigionieri di un campo di concentramento nazista. Anche le semplici date dei compleanni, come quelle scritte dalla prigioniera Giannina Sereni Bordignon sul muro del suo stanzone, possono permetterci di comprendere l’importanza di una parola, il segno di un ricordo che può riportare alla realtà per pochi istanti e salvare dalla follia:
Arrestati 21 settembre 1944/ Marito Aldo Sereni nato 19 dicembre 1896/ Partito 12 ottobre/ Moglie zia mama Bordignon Sereni (si legge male) 24 maggio 1896/ Figli/ Ugo Sereni 6 maggio 1925/ Paolo Sereni 24 maggio 1927/ Elena Sereni 30 marzo 1930/ Che Iddio protegga la mia famiglia – la madre/ Ugo Paolo ed Elena Sereni partiti per la Germania/ 11/1/45 la madre/ 6 gennaio 44 compleanno di Ugo/ Che Iddio benedica la madre i miei figli e mio marito/ Sono desolata Giannina Sereni Bordignan/ (aggiunto da altra mano):/ Non potiamo kapire ke fine a fata kuesta signora Sereni.[5]
Il graffito riportato per intero rende l’idea del flusso zoppicante dei pensieri, interrotto dal passare dei giorni, dall’angoscia di un rumore inaspettato, dalle necessità impellenti di sopravvivenza o dal tentativo di recuperare notizie dei propri cari. È una cronologia di eventi che impedisce di perdere il contatto con la realtà, anche se si tratta di una realtà orrenda come quella di un campo nazista. Eventi gioiosi come le date dei compleanni dei famigliari si mescolano a momenti drammatici, come la partenza del marito e dei figli per il campo di Auschwitz. Solamente un membro della famiglia Sereni riuscirà a sopravvivere: Giannina morirà in Risiera, uccisa brutalmente solo per avere chiesto di riavere indietro la borsetta con i soldi al momento della sua liberazione. L’ultima frase riportata nella citazione è di un altro prigioniero, probabilmente di origini slovene o croate: avendo trovato i graffiti della signora, non riesce a spiegarsi che fine possa avere fatto e non può esimersi dall’evidenziare la scomparsa dell’autrice di quell’epitaffio. Un tragico epilogo, quello della famiglia Sereni: purtroppo solo uno fra i tanti.
Lettere e messaggi dal campo
Dalla Risiera di San Sabba però non sono emersi solo graffiti e testimonianze processuali. Dal campo sono scaturite preghiere, pensieri, poesie, scritti nel momento estremo, da prigionieri che poi spesso non hanno fatto ritorno. Un esempio è il messaggio lasciato da Dante Stoini, partigiano istriano imprigionato nel Carcere del Coroneo di Trieste e ucciso all’interno della Risiera in data 7 aprile 1945, come riporta il biglietto ritrovato all’interno della tasca dei suoi pantaloni salvati dal forno crematorio. Sul retro del foglio è riportato un elenco di persone da avvisare con i relativi indirizzi: si tratta con ogni probabilità dei famigliari delle vittime uccise insieme a lui. Nella parte anteriore, sotto alla data e al luogo «Risiera di San Sabba», sono riportate queste parole di saluto estremo:
Avvertire queste famiglie/ appena ti è possibile. -/ Siamo a S. Sabba in risiera/ non sappiamo ciò che sarà di noi/ domani forse non saremo più/ Saluti Grazie/ Baci a miei figli santi.[6]
Si tratta di un messaggio scritto molto in fretta, nella straziante consapevolezza che trovarsi in quel luogo significa morte imminente. Questo biglietto è l’unico scritto in lingua italiana uscito dal campo di San Sabba ed è un simulacro di memoria: simboleggia la voglia di vivere, di restare in qualche modo su questa terra, nonostante la morte.
Tra i compagni citati da Dante Stoini compare il nome di Pino Robusti. Giuseppe Robusti nasce a Trieste il 26 gennaio 1923. La sua commovente storia è raccontata in tribunale durante il processo del 1976, precedentemente menzionato, dalla fidanzata Laura Mulli. Pino viene arrestato quasi per sbaglio una sera, mentre passeggia in attesa proprio della sua amata, in ritardo di qualche minuto. Notato dalle SS, viene fermato e perquisito ed è immediatamente condotto nelle carceri del Coroneo: né i genitori né la fidanzata riusciranno a capire la ragione del suo arresto. In quei pochi giorni di detenzione ha modo di scrivere sei lettere all’amata Laura, di una tale cura e bellezza da sembrare poesie scritte in prosa. La più bella e al contempo triste tra queste lettere è quella datata 5 aprile 1945, scritta in previsione di un imminente destino di cui ormai è perfettamente consapevole:
L’esperienza che sto provando, credimi, è terribile. Sapere che da un’ora all’altra tutto può finire, essere salvo, e vedermi purtroppo avvinghiato, senza scampo, dall’immane polipo che cala nel baratro. È come divenir ciechi poco per volta […]. Addio, Laura adorata, io vado verso l’ignoto, la gloria o l’oblio, sii forte, onesta, generosa, inflessibile.[7]
Altre voci, alla ricerca di un perché
Ci sarebbero molti altri testimoni della Risiera a cui dare voce, troppi per rientrare all’interno di poche pagine: nella mia ricerca ho provato a dare spazio a quanti più ho potuto, ai “sommersi e salvati” di quel campo triestino che troppo spesso passa inosservato all’interno dei nostri libri di storia. Ho scovato in tutte le carte, ho ascoltato numerose registrazioni di interviste, ho letto un romanzo scritto da un soldato deportato in Risiera per due mesi e mezzo[8], ho trovato perle rare, come la poesia San Sabba 1944 scritta a posteriori da Elodie Stuparich, moglie dell’intellettuale triestino Giani Stuparich imprigionata in Risiera per alcuni giorni insieme al marito e alla suocera[9]. Ho esaminato gli atti processuali e i numerosi documenti storici, alla ricerca della verità su questa terribile pagina della nostra storia (sotto la preziosa guida della professoressa Elena Rondena, che ringrazio infinitamente). Non so se l’ho trovata, ma spero quantomeno di avere reso giustizia alle numerose vittime innocenti della Risiera di San Sabba. La mia indagine mi ha portata a Milano, a Trieste e anche a Firenze, dove il 6 maggio 2023 sono stata accolta tra le accoglienti mura di casa di Erminia Braun, detta Kitty, fiumana di origini ebraiche ex deportata del campo di San Sabba e sopravvissuta di Ravensbrück e Bergen-Belsen. Le sue parole mi sono rimaste impresse, perché credo che contengano molta verità ma allo stesso tempo compassione nel senso più elevato del termine, al di là della vendetta e dell’odio, che forse è proprio il senso più profondo di questa giornata della Memoria. Con alcune delle sue parole – da me personalmente ascoltate e trascritte in Appendice alla mia tesi – voglio concludere questa breve trattazione:
Mi chiedevo: “perché sono prigioniera, cosa ho fatto”? È sempre stato il mio pallino, di capire perché, non ho mai capito perché. […] L’amore dà gioia, è solo l’odio che dà sofferenza, io so cosa vuol dire. Mi dicono: “ma cosa pensi dei tedeschi?”, quello che io penso è che mi fanno pietà […] quando sono uscita io ero serena, non avevo astio, odio. Ero solo dispiaciuta […] mi dispiaceva per loro, io non vorrei il male di nessuno. E se quelli che mi hanno fatto male non stanno bene mi dispiace. Non mi viene il fatto di dire: “ben gli sta”, no. Non fa mai bene pensare il male, fa sempre male, anche se i motivi li abbiamo.
Note
[1] M. Villa, La Risiera di San Sabba: tra deportazione e memoria letteraria, Tesi di Laurea magistrale in Filologia moderna; relatore: prof. Giuseppe Langella; correlatrice: prof.ssa Elena Rondena; Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, A.A. 2022-2023.
[2] M. Mucci, La Risiera di San Sabba a Trieste. Un’architettura per la memoria, Libera Editrice Goriziana, Pordenone 1999.
[3] A. Scalpelli, San Sabba. Istruttoria e processo per il lager della Risiera, voll. I e II, ANED – Edizioni Lint, Trieste 1995. All’interno di questi due volumi sono riportati alcuni atti del processo del 1976 e altri importanti documenti, tra cui diverse testimonianze raccolte durante la fase istruttoria e processuale.
[4] Archivio Bubnič, Sezione di Storia ed Etnografia presso la Biblioteca Nazionale Slovena e degli Studi, Trieste. Molte di queste testimonianze sono state riportate all’interno del catalogo Scritte, lettere e voci precedentemente menzionato.
[5] Diario di Diego de Henriquez n. 75, graffito 320, riportato all’interno di Scritte, lettere e voci, catalogo in versione estesa su CD. È l’unico caso in cui è presente anche la fotografia della scritta originale.
[6] Scritte, lettere e voci; l’originale si trova all’interno dell’IRSREC FVG di Trieste, cioè l’Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea del Friuli-Venezia Giulia.
[7] A. Scalpelli, San Sabba. Istruttoria e processo per il lager della Risiera, vol. II. Non si conosce l’esatta ubicazione degli originali delle lettere.
[8] D. Fangaresi, Dieci settimane a San Sabba, Edizioni Polistampa, Firenze 2003.
[9] La poesia citata – così come l’intera vicenda della famiglia Stuparich – si può leggere all’interno di: B. Vasari, Giani Stuparich. Ricordi di un allievo. Con otto testimonianze sull’internamento alla Risiera di San Sabba a Trieste a cura di Giovanna Stuparich Criscione, Lint-Editoriale, Trieste 1999.