La ritenevo un passatempo per chi ama trastullarsi in pensieri piacevoli e inconsistenti, vani passatempi per chi si chiede se è bello perché piace, o se piace perché è bello. Rompicapi certo più chic del “viene prima l’uovo o la gallina”, e tuttavia frivoli. L’estetica non reggeva il confronto, ai miei occhi, coi settori della filosofia duri e puri, come la filosofia teoretica, la metafisica, l’epistemologia e con settori importanti e magari urgenti per i risvolti pratici, come l’etica, la filosofia sociale e la filosofia politica.
Sono state soprattutto la frequente rilettura del Fedro e del Simposio di Platone, la suggestiva lezione neoplatonica, il fascino dell’estetica di Schelling e lo studio dei lavori di von Balthasar – quanto ai classici – e le riflessioni di Umberto Curi sul bello a portarmi progressivamente a cambiare idea. Ho infatti maturato la convinzione che, a guardare alle radici del pensiero occidentale, nella tradizione greca la questione del bello riguardi prima di tutto l’essere, non la percezione e il gusto.
Non si tratta dunque di una questione fatua. La riflessione sul bello, infatti, è stata svolta da un popolo la cui aspirazione dominante era il kléos, la gloria, conseguita tramite la morte in battaglia, appunto una “bella morte”, e bello sarà il testo tragico, dice Aristotele nella Poetica, se segue le opportune regole di stesura.
Questi due sono indizi che la questione della bellezza può essere ed anzi è stata affrontata dagli antichi greci in maniera niente affatto estetizzante. Ciò è ancor più evidente nel nesso tra kalón e agathón, tra bello e buono. Anzi, al riguardo Curi rilancia: in Platone e nella cultura greca arcaica «kalón è tutt’uno con agathón, ma esso è anche indissolubile rispetto a ciò che è alethés» (L’apparire del bello, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 57).
Buono, bello e vero sono legati, così che il perseguimento dell’uno si svolge nel nesso con gli altri. È poi fecondo il nesso tra kalós e kairós, tra il bello e il tempestivo, cioè ciò che avviene al momento opportuno, nel momento critico: la bellezza non è sostanza, non è una condizione stabile, è fugace, ed è proprio questa sua impermanenza che va colta nell’attimo fuggente ad accrescerne l’attrattiva e il valore. Il bello non solo passa veloce, ma anche si manifesta improvvisamente, exáiphnes. Questa sua contingenza e fugacità, dice della vita, della morte ed è un rimando ad altro.
Le pagine di Platone, nel Simposio e nel Fedro, sono davvero eloquenti nel mostrare come il bello abbia la funzione di muovere ad altro, di spingere a un percorso di elevazione. Curi vi insiste, a mio parere, efficacemente: to kalón, il bello, «esprime una eccedenza, ancor più che una presenza. Non compendia in sé i requisiti per i quali qualcosa possa essere riconosciuta come “bella”, ma allude piuttosto a un piano di realtà altro e diverso, rispetto a quello dell’esperienza ordinaria» (ivi, p. 11). Questo è compendiato nell’espressione “kalón kaléin”, il bello chiama: si tratta di andare al di là di quanto dicono i sensi, perché la manifestazione è solo un indizio.
Sempre Curi chiarisce che il bello «chiama a compiere un percorso di ascesa che è insieme un viaggio iniziatico, un processo di guarigione, un itinerario di approssimazione alla verità» (ivi, p. 50).
Su queste basi, l’estetica moderna e quella contemporanea acquistano un significato nuovo, presupponendo un approccio al tema che ha i suoi notevoli meriti e però anche limiti, tanto che – a parere di molti – ha portato il mondo dell’arte a un divorzio tra arte e bellezza. Si tratta di questioni che si capiscono meglio tenendo sullo sfondo la riflessione classica sul bello.
Anche per via di queste considerazioni, sono convinto che i lavori per il Concorso nazionale Romanae Disputationes 2018, che avranno a tema “La natura del bello”, potranno portare tutti coloro che accetteranno la sfida a un percorso di ricerca e approfondimento personali arricchenti, di notevole spessore intellettuale e umano. Kalón kaléin!