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La prima prova dell’Esame di Stato #2. Pasolini e Tomasi sotto anestesia

Tempo di lettura stimato: 6 minuti
In un periodo storico in cui ogni parola rischia di essere di troppo, l’Esame di Stato propone due autori originali, evidenziandone però solo gli aspetti di comodo. Il commento di Johnny L. Bertolio alla prima prova dell’Esame di Stato 2025.

«Abbiamo perso prima di tutto un poeta», proclamava con commozione Alberto Moravia ai funerali di Pier Paolo Pasolini, sottolineando non solo quella funzione esistenziale ma anche quella componente letteraria che lo ha contraddistinto più di altre e che ha resistito al passare del tempo.

E della lezione moraviana ha fatto tesoro quest’anno il Ministero, proponendo come testo d’esame per la prima delle due analisi letterarie una poesia di Pasolini. Si è ravanato tra le appendici della raccolta Dal diario, pubblicata a Caltanissetta nel 1954, per tirar fuori dai ponderosi volumi della serie pasoliniana dei Meridiani diretta da Walter Siti una lirica scialba, senza riferimenti politici, che «appare» – come recita il breve paragrafo della prova – «ancora molto lontana dai più noti componimenti civilmente impegnati dell’autore».

Sia mai che a qualche studente, se avrà fatto qualcosa in classe del Pasolini poeta (dalle Ceneri di Gramsci? Dall’Usignolo della Chiesa Cattolica? Da Poesia in forma di rosa?), osi intravedere dietro la sintesi in versi («ragazzo, e adolescente, / e ora uomo») una formazione ideologica, una ricerca d’identità nel segno della diversità.

La riflessione è invece «profondamente intima», come se all’inizio degli anni Quaranta il giovane Pier Paolo fosse tenuto chiuso a chiave in una cameretta piena di soldatini dai genitori tiranni e non già esposto alle crudeltà della guerra: arruolato, catturato dai nazisti, quindi salvatosi in quel di Casarsa con la fuga, durante la quale perse la tesi che stava preparando per la laurea in Lettere all’Università di Bologna. Nel frattempo, il fratello Guido aveva raggiunto le brigate partigiane e il padre si trovava in Africa.

Pasolini a Casarsa.
Pasolini a Casarsa. Fonte: Wikipedia.

Mentre il mondo cade a pezzi, Pier Paolo compone nuovi versi sul lettuccio. Certo, il «cuore» è «mutato» un pochino, sempre dentro, all’interno della credenza-corpo del poeta, che come il più trito emulo di un altro lirico ridotto a stereotipi e luoghi comuni, il conte Giacomo Leopardi, guarda le stelle e la luna come se non avesse nient’altro di meglio a cui pensare.

Casarsa, però, è a soli 44 metri sul livello del mare (Recanati sfiora i 300) e, al posto del colle dell’Infinito, Pier Paolo si limita a contemplare rasoterra «la campagna / scura e serena», la cui esaltazione tanta parte ha avuto nella costruzione dell’identità nazionale e nazionalistica italiana contro il progresso delle macchine, le rivoluzioni proletarie, la propaganda di quei rossi dei socialisti sovietici, che manco vivevano in stanzette dignitose e la Luna la consideravano solo per sperare di raggiungerla via shuttle prima degli statunitensi.

Il poeta nel finale riconosce la fine «di quel perfetto inganno» (borghese?) e la Luna appare farsi foriera di qualche nuovo annuncio (la fine del conflitto mondiale? della guerra civile? della dittatura fascista?), anche se con il sottofondo tradizionale dei «grilli».

Pasolini cerca un tempo proprio, la natura può offrirgli solo un’alternativa ciclica, ancestrale, che risuonerà più tardi nei famosi, questi sì, versi «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore». Allora il mondo campestre non sarà più quello delle battaglie del grano e dell’autarchia mussoliniana, ma l’oasi prima immune, poi sempre più minacciata dall’omologazione capitalistica.

Dal canto dei grilli ai valzer della riduzione cinematografica del Gattopardo di Luchino Visconti (o della serie di Netflix) siamo portati con l’analisi del secondo testo letterario della prova, in prosa: un passo tratto appunto dal romanzo, pubblicato postumo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, principe. Un passo breve, incentrato sulla «prima visita» di Angelica Sedàra dai Salina, la vergine bella e benestante, pronta a immolarsi, nel racconto, agli sguardi, ai commenti, alle carezze di tutti i membri maschi della famiglia che eleverà socialmente la sua.

Angelica entra come se fosse Claudia Cardinale diretta da Visconti, «regolata da una regìa impeccabile», attribuibile a Tancredi. Più che una donna in carne e ossa sembra qui l’allegoria dell’abbondanza, una dea Flora: in testa una specie di cornucopia, mezza vera (le spighe, il cappello di paglia), mezza tarocca (le uve «artificiali»), omaggio ai possedimenti agrari degli uomini. Poi, come una perfetta donna di mondo, come l’omonima diva e donna del ciclo di Orlando al cospetto di Carlo Magno, Angelica saluta per primo il padrone di casa, don Fabrizio, seguendo non il protocollo di Buckingham Palace ma quello della corte diffusa dei nobili anziani che si credono irresistibili: bacia e viene baciata, annusata, visivamente penetrata; arrossisce, indietreggia, mormora «Zione!».

Se non sapessimo che si tratta del romanzo di Tomasi, potremmo sospettare di leggere la sceneggiatura di una commedia erotica all’italiana intitolata Sugar Leopard Daddy. Inevitabile che Angelica faccia tutto secondo il copione della «civetta», quel ruolo che le donne aristocratiche e altoborghesi erano costrette a recitare strategicamente per elevarsi (femministe come Mary Wollstonecraft e Joyce Lussu hanno riflettuto ampiamente sulle modalità della «civetteria»).

Claudia Cardinale e Burt Lancaster nella celebre scena simbolo del valzer finale nel film Il Gattopardo.
Claudia Cardinale e Burt Lancaster nella celebre scena simbolo del valzer finale nel film Il Gattopardo di Luchino Visconti, 1963.

Grande assente la madre, che come la moglie del tenente Colombo è fuori scena e non deambula da ballerina di Amici: «Ha il collo del piede come una melanzana», confessa il marito, don Calogero Sedàra, completando l’elenco di frutta e verdura dell’outfit di Angelica (e il mondo della danza sa). Don Fabrizio vorrebbe galantemente rimediare con una visita, ma don Calogero rincara la dose: la melanzana ha pure l’emicrania; meglio macinare le spighe di Angelica.

Le domande del brano invitano a evidenziare la caratterizzazione dei personaggi e l’insistenza sull’assenza della signora Sedàra. Della visione disillusa del Risorgimento, del debate tra don Fabrizio e Chevalley sul «sonno» dei siciliani perennemente colonizzati da dominatori stranieri non si fa menzione (peraltro quel dialogo è anche il brano più antologizzato nei manuali che includano Il Gattopardo).

Come nel caso di Pasolini, anche Tomasi appare tagliato da una équipe di anestesisti della letteratura, che rifuggono dai grandi nodi delle opere in questione per farne emergere i lati meno problematici, come se fossero i più rilevanti, come se non avessero bisogno di essere invece, se non altro, contestualizzati e decostruiti.

A scuola – questo il messaggio neanche troppo implicito – è più prudente evitare l’ideologia e tenere solo un briciolo di passione. Rigorosamente male-oriented.

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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