La percezione dello straniero nell’antichità

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Il tema del rapporto con l’altro è, di questi tempi, molto attuale. Ma il concetto di alterità, la dimensione di “straniero”, è qualcosa che già il mondo antico conosce bene, pur senza arrivare mai – come già ho scritto su queste colonne – a manifestazioni che possano avvicinarsi al moderno “razzismo”.
I Romani sottomettono i barbari, Sarcofago Grande Ludovisi (III secolo d. C.), Roma, Palazzo Altemps, Ph. Marie-Lan Nguyen, Wikimedia Commons

Per chi volesse approfondire il tema, è utile la lettura del recentissimo saggio di Mario Lentano, Straniero, Inschibbolet Editore, Roma 2021, nel quale l’autore – valente antichista che guarda al passato con un occhio da antropologo – si occupa del mondo greco e di quello romano. Si tratta di un’opera di agile formato, ma di notevole interesse contenutistico, rivolta sia agli addetti ai lavori (che troveranno una sintesi organica di ciò che già, in buona parte, conoscono) sia a chi ha meno consuetudine con la classicità.

Greci e Romani tra ostilità e ospitalità

Ovviamente non possiamo ridurre a unità un mondo – quello greco-romano – che è plurimillenario ed eterogeneo; possiamo invece constatare una sostanziale e più o meno costante compresenza di resistenze identitarie e spinte “aperturiste”. In Grecia “straniero” – e dunque l’altro da me – si dice xénos, termine che però indica anche la condizione di “ospite”, soggetto che è invece a me caro e vicino e che gli dèi mi impongono di rispettare. A Roma, inoltre, tra i molti modi per indicare chi non è romano (advena, externus, peregrinus), vi è anche hostis, che nel latino classico vale soprattutto “nemico”; è però vero che qualcuno lo lega al termine hospes (l’equivalente del greco xénos), e che etimologicamente deriva dal verbo hostire, cioè “pareggiare”. Dunque lo straniero è mio nemico proprio in quanto ha dignità di “pari”, e la guerra – così come la pace – la si fa proprio con soggetti paritetici, degni di essere affrontati: con loro – scrive Lentano – «si combatte una guerra “giusta”, nozione che per i Romani riguarda più la sfera procedurale che quella etica. Tutti gli altri sono invece latrones aut predones, banditi e delinquenti comuni» (p. 33).

Dario, re di Persia, barbaro per eccellenza, Pesepoli

Barbaro, cioè balbuziente

Certamente una parola antica che indica lo straniero con decisa distanza esiste, ed è il termine greco bárbaros, che definisce chi parla una lingua che non si capisce e pertanto appare come “balbuziente”. Tale incomprensibilità linguistica porta a una svalutazione (e spesso a una condanna) anche dei suoi usi, costumi e pratiche sociali o religiose.
Lentano spiega come l’accezione negativa del concetto di barbaro sia assente in Omero (dove Achei occidentali e Troiani mediorientali sembrano espressione di una stessa civiltà) e si sia invece sviluppata con forza a partire dai tempi delle Guerre persiane (V sec. a.C.), dando luogo all’Invenzione dell’Oriente (§ alle pp. 47 ss.) come mondo barbarico, tirannico e privo di libertà, alternativo a quello libero e civile degli Elleni. È però vero che il mondo orientale – in età ellenistica – si fonderà con quello greco, a seguito delle conquiste di Alessandro, dando origine a una cultura composita, eclettica e realmente cosmopolita.

Imparare dai selvaggi

I Romani, che hanno sempre avuto maggiore apertura verso lo straniero (fin dai tempi di Romolo, con l’asylum e il ratto delle Sabine), e che hanno nel tempo concesso ai peregrini la civitas Romana, mutuano però dai Greci il termine barbarus. Lo usano per lo più per indicare popoli di zone geograficamente lontane da Roma, abitate da genti dai costumi rozzi e diversi dai Romani mores: eppure anche da loro qualcosa si può imparare (§ Imparare dai selvaggi, pp. 142 ss.), perché Galli o Germani – come ci dicono Cesare o Tacito – hanno talora coraggio e forza morale invidiabili.
Soprattutto i Germani, si ricorda, suppliscono con i boni mores alle bonae leges che non hanno, mentre i Romani di età imperiale – ai quali non manca una valida legislazione – stanno decadendo dal punto di vista etico; ciò riguarda in particolare la popolazione femminile, alla cui infedeltà coniugale – sembra dirci il moralista Tacito – non avevano posto rimedio neppure le severe Leges Iuliae del divino Augusto.
Gli unici dai quali Greci e Romani pensano di non avere proprio nulla da imparare sono gli Ebrei (§ L’Ebreo inassimilabile, pp. 100 ss.): troppo distanti da loro il monoteismo ebraico, i tabù alimentari, il rispetto del sabato e – soprattutto – l’ingerenza del clero nella vita pubblica. Il Cristianesimo, con le accuse di deicidio, ha poi completato l’opera…

J. W. Turner, Ovidio bandito da Roma (1838)

Relativismo culturale

Insomma, Lentano affronta numerose questioni, e quelle che ho suggerito sono solo un assaggio del suo volume, del quale ho particolarmente apprezzato altri due passaggi.
Il primo è quello cui si accenna nel paragrafo I barbari degli altri (pp. 123 ss.), nel quale l’autore cita testi nei quali sono gli stranieri a dare del “barbaro” ai Greci, per le loro azioni crudeli (ad es. Astianatte, nelle Troiane di Euripide). E parimenti interessante è ciò che capita a Romani (di cui si parla nel § Eredità latine, pp. 136 ss.) come l’Ovidio esiliato a Tomi che, catapultato in un contesto culturale e linguistico estraneo, afferma «qui il barbaro sono io, che nessuno capisce». Siamo ben oltre, in questo caso, le pur documentate forme di relativismo culturale che hanno permeato alcuni autori del mondo classico (ad es. Erodoto o Cornelio Nepote)!

Michele Desubleo, Ulisse e Nausicaa (XVII secolo), Napoli, Museo di Capodimonte

Passato e presente

Il secondo è l’Epilogo (pp. 153 ss.), che ci porta a parlare (anche) dell’oggi, e della necessaria accoglienza che dobbiamo allo straniero profugo: Lentano lo fa raccontando dell’episodio omerico di Odisseo presso i Feaci, accolto dalla giovanissima Nausicaa (del quale ho già scritto anch’io, dopo il terribile “naufragio di Lampedusa” del 2013) e soffermandosi poi sul lungo soggiorno del troiano Enea presso la cartaginese Didone. Tali suggestioni non vogliono confondere passato e presente, ma ricordarci che prima di decidere come agire è bene sapere cosa è successo in epoche lontane, anche se poi «è solo a noi che spetta trovare percorsi verso una storia e un’umanità migliori» (p. 167).

Prima di chiudere, però, un piccolo appunto. Non è sempre agevole, per il lettore, trovare relegati nelle pagine finali (pp. 169 ss.) i riferimenti alle fonti copiosamente citate nel volume: almeno il titolo dell’opera, il capitolo e/o paragrafo, era meglio averli lì, ad locum, al termine della citazione stessa. Forse, potrebbe essere questo il suggerimento per i successivi libri di questa collana (Le parole del mondo antico) che Mario Lentano dirige e della quale il lavoro di cui abbiamo parlato rappresenta l’interessante esordio.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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