Comincio sbilanciandomi con una dichiarazione che è una precisa scelta di campo: sono favorevole alla valorizzazione del merito e delle capacità. E sono grato all’articolo 34 della Costituzione che – di concerto con l’articolo 3, come spiega bene Vanessa Roghi più avanti – mi ha permesso di essere oggi qui, a firmare questo editoriale.
Figlio di un impiegato e di una casalinga (emigrati al nord da un Salento allora bellissimo e povero), sono cresciuto in una casa con pochissimi libri e un’enciclopedia (“I Quindici” per chi se la ricorda) assieme a un paio di fratelli con la stessa aspirazione a entrare nel novero dei “capaci” e “meritevoli”. Noi figli si parlava italiano, sotto l’occhio vigile di genitori che nella dialettica quotidiana intercalavano ancora in dialetto. Nessuno che ci controllasse i compiti, ovviamente. Nessuno che si sognasse di interloquire alla pari con gli insegnanti. Eppure, ci è stato sufficiente manifestare interesse e intenzione per meritare considerazione e aiuto.
Una storia esemplare? Per nulla: come noi, milioni di italiani hanno goduto dello stesso trattamento, e dello stesso privilegio.
Senza quegli articoli della Carta fondamentale, probabilmente nessuno di noi (di noi fratelli, e di noi milioni di italiani) avrebbe potuto completare il proprio curriculum di studi se non indebitandosi fino all’ennesima generazione.
Chiarito quanto sopra, posso quindi aggiungere che ha sorpreso anche me la decisione del governo di rinominare il ministero dell’Istruzione aggiungendo la specificazione “e del merito”. Mi è sembrata da subito una cosa pleonastica, come a voler ribadire l’ovvio. Il che, per carità, può avere un senso: anche si trattasse solo del tentativo di intestarsi un “merito” che è già della Carta costituzionale, ci sarebbe da salutare con soddisfazione l’evidente intenzione politica di farsi valutare anche per come si garantirà il diritto allo studio di tutti.
Chi stabilisce che cosa è meritevole e di quali capacità ci sia bisogno? E in vista di quale bene comune?
Aumenteranno le dotazioni per scuole e università? Si stanzieranno più fondi per borse di studio? Si contribuirà alla spesa delle famiglie per l’acquisto dei libri di testo? Si ridurranno le tasse universitarie? Beh… fossero queste le misure, anche solo in parte, chi potrebbe dirsi contrario? Sono disposto ad aprire una linea di credito per questo esecutivo, ed aspettare che sostanzi la premialità del merito che ha in mente.
Nel frattempo, mi concedo il lusso di esercitare il mio diritto al dubbio cartesiano…
E se non fosse vero niente? Se il nostro esecutivo, cambiando nome al ministero, non avesse pensato alla Costituzione ma a una più specifica idea di mobilità sociale, basata su di una meritocrazia di cui ancora ci sfuggono contorni, contenuti e fini?
Nulla di male in sé, per carità: è legittimo che una forza democraticamente eletta pensi di voler ridisegnare l’assetto sociale e culturale del paese, agendo sulla promozione dei meriti e delle capacità che ritiene utili al conseguimento dell’obiettivo. Bisognerebbe però dichiararlo apertamente, ritengo, per dare modo a tutti noi – che pensavamo di lasciare ai nostri figli gli stessi privilegi di cui abbiamo goduto – la possibilità di capire; magari di accettare; forse anche di resistere e protestare. Chi stabilisce che cosa è meritevole e di quali capacità ci sia bisogno? E in vista di quale bene comune? Sono domande semplicissime ed essenziali, dalla cui risposta dipende tanto del nostro, del loro futuro.
A meno che non si condivida la massima della donna Prassede manzoniana, «che per riuscire a far del bene alla gente, la prima cosa, nella maggior parte de’ casi, è di non metterli a parte del disegno».