La sospensione delle attività didattiche impone, data la ovvia nebulosa legislativa, che le azioni a distanza che tutti noi docenti stiamo in qualche modo svolgendo non siano stricto sensu sostanzialmente equiparabili alla vera scuola. Sul piano deontologico, volontaristico e collaborativo i docenti stanno mettendo in campo ogni sforzo, approntando una didattica a distanza che, nei suoi evidenti limiti (anche di privacy) e nelle sue ineliminabili discrasie, ci permette di tenere il necessario e umano contatto affettivo e relazionale con i nostri ragazzi, di spingerli a riflettere, di sfidarli con contenuti anche alternativi alla presunta sacralità dei “programmi”.
Eppure, la didattica a distanza resta sempre una didattica della distanza: è distante quando finge di essere inclusiva (e non lo è per nulla), o quando mi svela che, se dietro i banchi i ragazzi sono tutti uguali, nel privato dei loro problemi familiari no; è distante quando mi impone di dare per scontato che tutti i nostri studenti abbiano connessioni, computer, camerette proprie, silenzio, tranquillità, una scrivania personale. Posso giurare che non è così.
Il digital divide esiste, come esistono la limitazione degli spazi, la costrizione dei tempi e la povertà materiale di molte case. Ed esiste anche l’imbarazzo di molti nostri alunni a compartecipare pubblicamente a un surrogato mediatizzato della vita scolastica, in un habitat digitale forse invasivo o invadente, talvolta straniante, spesso giudicativo e mai davvero neutrale.
La medesima problematicità vale per gli strumenti e gli obiettivi valutativi. Forse sarebbe meglio considerare tale valutazione più come strategia comunicativa e collaborativa di rinforzo, orientamento e rassicurazione, come un utile feedback (per noi, per loro), come pragmatica indicazione di un percorso educativo necessariamente sommario e “sospeso”.
Meglio, credo, valutare quindi il modo in cui gli alunni rispondono ai nostri stimoli, se mostrano una certa costanza e qualche grado di responsabilità. Valutiamo il loro sforzo di esserci, di interrogarsi e di interrogarci, di collaborare con noi in questa situazione emergenziale: valutiamo la loro volontà di “fare come a scuola” (o oltre la scuola), anche laddove scuola non c’è.
La nostra sapienza di educatori saprà certo riconoscere, dentro questa emergenza nazionale, se è più utile e giusto attribuire agli studenti un voto (definitivo, sanzionatorio, assertivo o sommativo) o “costruire con loro” una valutazione (formativa, orientante, incoraggiante, progressiva, attivamente esperita).
Quello che più mi preoccupa non è tanto se e come valutare gli alunni oggi, questione che ritengo al momento periferica e ragionieristica, ma come giudicare, fra qualche tempo, l’eredità che questa drammatica situazione lascerà nei nostri cuori e in quelli dei nostri alunni, nell’istinto dei nostri gesti e del nostro relazionarci, nelle rituali abitudini della nostra socialità e anche della nostra scolasticità, sperando che al più presto svanisca quella circospezione e quell’abito comportamentale che ci fa, oggi, ansiosamente uno timoroso dell’altro o per l’altro.
Le materie umanistiche fortunatamente concedono la possibilità di segnalare ai ragazzi libri da leggere, documentari storici o di cogente attualità, film con cui riflettere o emozionarsi, brani da commentare, articoli da analizzare, testi da produrre, temi da sviluppare, valutazioni personali da fortificare ecc. Il tutto nel meritato silenzio (per chi può concederselo) delle loro camerette (per chi ne ha una propria), con i loro tempi (finalmente!), la loro ritrovata indipendenza e sperimentata responsabilità.
Per mio conto, cerco di proporre materiali alternativi alla mera linearità del “programma”, invito a visionare film e documentari, a leggere molto e di tutto, a scrivere. Tento anche di approfondire temi e relazioni tra temi che li impegnino a riflettere sulla precarietà dell’esistenza, sull’illusione di onnipotenza e sull’edonismo dell’occidentalità, sulla frenesia dei nostri stili di vita, sui concetti di società, comunità, privazione, libertà, sacrificio e gratitudine.
Mantengo i contatti sulle piattaforme suggerite dalla mia scuola, tendendomi in disponibile ma umile e remissiva lateralità, sondando interessi, attività, dubbi e curiosità, proponendo chiarimenti o monitorando “da lontano” le attività proposte, evitando di imbrigliare i ragazzi in una logica impiegatizia un po’ meccanica e svilente.
Credo sia giusto che i ragazzi prendano le misure anche dei tempi vuoti, della dimensione “sospesa” (e non sempre finalizzata ad obiettivi e performance) delle loro esistenze, delle giornate destrutturate, perfino della dimensione costruttiva e costitutiva della noia (sentimento che spesso materializza creatività, autoanalisi o consapevolezza di sé: assiologie insostituibili per noi, umanisti, e necessarie per loro, adolescenti).
È giusto anche che imparino a interrogare le nostre discipline, non solo ad apprenderle, cercando in esse un portato valoriale e un’aderenza esistenziale che forse, nella normalità irregimentata dell’abitudine, non immaginavano potessero offrire.
Così come è giusto che in questo frangente si fermino un attimo e interroghino il mondo, ciò che c’è al di là del libro, della scuola e oltre la loro quotidianità, magari riuscendo a scostarsi sia dal loro giovanile agonismo, dalla loro genuina assertività, dal loro fisiologico soggettivismo, sia dal nostro efficientismo, dal nostro presenzialismo e dal nostro esecutivo e incessante procedere di adulti.
Si fa quel che si può, con buonsenso ed equilibrio intellettuale. Magari favorendo logiche alternative di insegnamento e talvolta alternative all’insegnamento per come giornalmente lo intendiamo, facilitando tempistiche lunghe e prassi distese, e non metodiche stringenti o da assillante “scadenzario” burocratico, incoraggiando anche la tanto vagheggiata autonomia interpretativa, la libertà critica, il valore cognitivo dell’errore, lo spirito di adattamento, l’emancipazione organizzativa e la capacità di “farcela da soli” o di “farcela per se stessi” che cerchiamo ogni giorno di instillare nei nostri alunni.
È un buon banco di prova anche per loro: lasciamoli tentare, senza apprensione e senza la nostra congenita ansia di dover avanzare con il programma, costi quel che costi. Lasciamo che prendano la misura di se stessi, per se stessi.
Consolidiamo con i ragazzi quello che abbiamo già costruito in classe, offriamo spunti di riflessione ed esercizi di approfondimento, incuriosiamoli con altre piste di contenuto, stimoliamoli con la creatività interdisciplinare, creiamo occasioni per una didattica più interrogativa e meno assertiva, forse meno sicura di se stessa ma euristicamente insolita e nuova.
Immaginiamo contenuti sfidanti (e perché no, realmente metadisciplinari e metacognitivi) o laterali rispetto alle nostre aspettative istituzionali o abitudini scolastiche, e scopi alternativi rispetto alle pur condivisibili preoccupazioni valutative. Insomma, una didattica più vicina ai loro cuori che ai loro libri, non invadente né invasiva. Una didattica che li spinga a prendere sia una posizione d’affaccio sul mondo (quello reale, inaspettato, improvviso e problematico) che una inattesa dimestichezza con se stessi.
Forse rischiamo di abbandonare quella dimensione da “fatturato didattico” che spesso ci assilla. Magari rischiamo di non monitorarne pedissequamente l’apprendimento, magari rischiamo di perdere, da parte nostra, la rassicurante sensazione di controllo professorale: ma è una medicina più utile alle loro coscienze (oggi più che mai) che alle loro ansie di studenti. Credo che i ragazzi ci ringrazieranno molto di più.
Forse contribuiremo, con altri mezzi, a formare coscienze di persone, più che sole competenze e puntuali saperi di studenti. Monitoriamo la nostra sfidante curiosità, la nostra libertà e la nostra autonomia di pensiero, soprattutto. Insieme alla loro capacità di produrre senso, di collocarsi nel mondo, di assegnare valori e modulare ipotesi ermeneutiche non sempre grazie a noi, ma talvolta malgrado noi o al di là di noi.
È l’occasione giusta per vederli crescere davvero, e molto.