La generazione egoista

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Si deve a un sociologo neozelandese, David Thompson, il più duro atto d’accusa al principio dei diritti acquisiti. Infatti, se si ragiona in termini di generazioni, e non di singoli individui, essi diventano assurdi privilegi concessi solo a una parte della popolazione, la più anziana.

Esiste un Paese dove il problema dell’equità economica fra le generazioni è stato discusso con particolare attenzione: la Nuova Zelanda. Anche se agli antipodi rispetto all’Italia, vale la pena di esaminarlo, dato che presenta tratti in parte simili alla nostra situazione attuale, con qualche decennio di anticipo. Che la Nuova Zelanda sia stata fra le prime nazioni al mondo a introdurre una forte assistenza sociale è dimostrato dal fatto che il pensionamento per anzianità fu introdotto già nel 1898, dal primo governo liberale.

Un provvedimento a suo tempo avveniristico, che non basava l’entità della pensione sui contributi effettivamente versati dai soggetti ed era rivolta ai “poveri che se lo meritavano”, in particolare se espulsi dal mercato del lavoro. Fu comunque a partire dal 1938, con il primo governo laburista, che fu introdotto un robusto welfare State, fondato su un contributo per i disoccupati e una serie di meccanismi assistenziali relativi all’educazione, alla sanità e all’assistenza abitativa. Era previsto in particolare un prepensionamento all’età di 60 anni e la possibilità di andare in pensione a 65.

L’idea che guidava questa politica era la costruzione di una società fondata sulla piena occupazione e sull’assistenza universale.La crisi iniziò nel 1984, quando l’insostenibilità delle spese statali impose un taglio netto dei benefici relativi all’assistenza abitativa, alla disoccupazione, alla sanità e più in generale il passaggio a un assistenzialismo più mirato, con contributi ad hoc, non più genericamente rivolto a tutta la cittadinanza; ad esempio piccoli aiuti destinati soprattutto alle famiglie già dotate di lavoro.Non bastando questi provvedimenti restrittivi, nei primi anni Novanta il quarto governo nazionale si impegnò in un forte programma di liberalizzazioni, finalizzato a tagliare drasticamente la spesa e la “dipendenza” dallo Stato. L’impatto di questi cambiamenti fu particolarmente pronunciato sul versante della disoccupazione, soprattutto dopo l’esplodere di un crack del mercato azionario del 1987.

La situazione è quindi diventata sempre più drammatica, tanto da richiedere nel 2006 il lancio di una riforma del lavoro, i cui effetti, però, sembrano da una parte insufficienti, dall’altra distruttivi dell’idea che per quasi un secolo ha fondato la politica neozelandese, ossia la costruzione di uno Stato in grado di favorire un’effettiva partecipazione politica e sociale di tutti i cittadini senza esclusione.Al di là delle vicende economiche di questo lontano Paese, ciò che a noi interessa è che nel 1992, nel bel mezzo di questa crisi, il sociologo neozelandese David Thompson pubblicò Le generazioni egoiste (Selfish Generations), un testo di forte impatto perché riformulava su base generazionale i termini della crisi che abbiamo qui sopra sintetizzato.

È stata una bomba mediatica che ha fatto esplodere il dibattito tra chi sottolinea le ingiustizie subite dai giovani d’oggi e chi invece ritiene l’egoismo generazionale un mito da ridimensionare, dovendosi imputare la crisi attuale a un insieme di fattori complessi, come l’inflazione, la globalizzazione, la crisi finanziaria mondiale e così via. In ogni caso, l’intento di Thompson è stato il riportare in modo oggettivo il passaggio graduale da un’assistenza statale concentrata sui bambini e le famiglie, alla situazione attuale dove gli aiuti sono rivolti soprattutto agli anziani e per i giovani rimane poco o nulla. Il sociologo nota che questo processo, parallelo al contemporaneo invecchiamento della popolazione, è andato sempre più a beneficio di quella che egli chiama “la generazione dell’assistenza statale”, nata negli anni Venti, Trenta o i primi Quaranta, mentre quella seguente ha dovuto fare i conti con la prospettiva di tagli sempre più drastici: “I grandi vincitori, quelli nati tra il 1920 e il 1945, attraverso tutta la loro vita avranno pagato tasse capaci di coprire solo una piccola frazione dei benefici ricevuti.

Per i loro successori vale il contrario”.E il divario rimane presente nonostante i recenti provvedimenti. Thompson nota che tutti i soldi spesi dalla Nuova Zelanda dopo gli anni Novanta dal Domestic Purposes Benefit, l’ente di assistenza sociale neozelandese, come sussidio per la disoccupazione e la malattia, non corrispondono ancora minimamente alla frazione di reddito nazionale speso negli anni d’oro dello Stato assistenziale. Dopo aver considerato come la necessità di far fronte ad un’enorme spesa pubblica sia andata di pari passo con il peso crescente dello Stato nella sfera economica, sottraendo risorse al privato, Thompson argomenta che l’invecchiamento dello Stato assistenziale conduce necessariamente a una crisi, che egli giudica imminente.

La soluzione proposta dal sociologo è drastica: la sua dovrebbe diventare la “generazione del sacrificio”, ovvero rinunciare a tutti gli speciali vantaggi conseguiti, a cominciare da un regime pensionistico più favorevole. Le risorse così liberate potrebbero quindi essere utilizzate per il sostegno ai giovani e bilanciare così l’ingiustizia patente che questi ultimi subiscono oggi.Che Thompson abbia in qualche modo colpito nel segno lo dimostra il commento di Ann Reeves, consigliera del ministero per le Politiche Sociali della Nuova Zelanda: “Di fatto la mia generazione è stata privilegiata in confronto a quelle che hanno seguito. Mio figlio adolescente e i suoi coetanei sono profondamente arrabbiati di fronte al vuoto di prospettive che si apre loro davanti dopo la conclusione degli studi scolastici.

La loro prospettiva è vivere grazie a prestiti studenteschi, se riusciranno a trovare un posto in un’università, avere guadagni incerti ed essere assunti per tempi sempre più brevi. Da dimenticare la possibilità di comprarsi una casa e di farsi una famiglia. Quelli che hanno finito gli studi negli anni Settanta si sono trovati davanti una situazione molto diversa; avevano la possibilità di scegliere quale lavoro preferivano e molti potevano persino permettersi il lusso di cambiare molte occupazioni prima di decidere quale sarebbe stata la loro carriera”. “I miei figli”, continua Ann Reeves, “comparano le loro prospettive con quelle della mia generazione e vedono un abisso che si va sempre più allargando. Io credo che le nuove generazioni non abbiano bisogno di leggere il libro di Thompson per essere convinte di trovarsi di fronte a una grave ingiustizia; ne sono già pienamente consapevoli. Il suo suggerimento, che l’equilibrio dell’assistenza statale debba essere di nuovo spostato verso i figli, in un investimento per il futuro, sarebbe per loro il benvenuto. A questo punto l’idea di dover fare loro, le nuove generazioni, ulteriori sacrifici per mantenere la mia generazione nella sua vecchiaia non è davvero più proponibile”.

Ma al di là delle analisi sul disagio giovanile, facilmente condivisibili, il dibattito ha riguardato soprattutto la natura e l’intensità dei provvedimenti correttivi. Thompson nega infatti l’esistenza dei cosiddetti diritti acquisiti, dietro ai quali si nasconde a suo avviso un interessato “privilegio dei nonni”, dato che, statistiche alla mano, nonostante le recenti riforme le nuove generazioni riceveranno comunque pensioni molto minori rispetto a quelle precedenti. “E non vi è alcuna giustificazione etica, politica o economica nel ribadire gli speciali vantaggi di un gruppo ristretto di persone negandoli nello stesso tempo a tutti quelli che li seguiranno nel tempo”. Naturalmente la pratica politica impone prudenza rispetto allo sconquasso sociale che comporterebbero le proposte di Thompson.

Secondo la Reeves alcune forme di “assistenza ai nonni” sono utili per aiutare la transizione durante il cambio di politica assistenziale: “Bloccare l’entità della pensione percepita da un certo gruppo, piuttosto che tagliarla come pure sarebbe più giusto, consente a quelli che si sono trovati a vivere nel vecchio regime d’adattarsi alle nuove condizioni senza salti traumatici. Grazie ad una buona politica sociale a un certo punto il valore delle nuove pensioni potrà raggiungere le vecchie e da quel momento il gruppo che ha ricevuto di più condividerà lo stesso regime di quelli che lo seguono”.Oltre che sul piano pragmatico, le tesi di Thompson sono però state criticate anche dal punto di vista teorico. L’economista neozelandese Brian Easton è intervenuto nel dibattito sottolineando quanto sia difficile quantificare in modo univoco i vantaggi di una generazione rispetto all’altra. “La distribuzione del reddito all’interno delle generazioni è un’area d’indagine difficile, ed è uno studioso coraggioso quello che pretenda di dare un’analisi complessiva del nostro stato attuale di conoscenza in materia. Qualsiasi tesi sulla distribuzione del reddito può essere supportata da un paio di casi particolari e comparandoli tra di loro. Il problema è il dare conto di un’analisi complessiva della questione, offrire misure sistematiche del fenomeno”.

Per Easton il metodo di analisi di Thompson non tiene conto di questa complessità per il semplice fatto che ignora deliberatamente tutti gli aspetti materiali dello scambio intergenerazionale per concentrarsi soltanto sulla redistribuzione del reddito gestita dallo Stato. Questo diventa chiaro se pensiamo a come le generazioni si trovano a convivere sotto lo stesso tetto, una situazione di vantaggio per la nuova generazione che, come sappiamo, anche in Italia tende a persistere sempre più a lungo. Si pensi poi al fatto che la vecchia generazione, quella che gode dello Stato assistenziale, si è spesso trovata a mantenere gli studi superiori della nuova quando lei stessa non ha avuto la possibilità di aver accesso ad una tale possibilità. Prendiamo il caso di un appartenente alla generazione dei vincitori, come li chiama Thompson.

Potrebbe ragionevolmente argomentare di aver cresciuto più figli rispetto a quanto fanno le nuove generazioni e sostenere che questo abbia inciso notevolmente sul proprio standard di vita, che senza tenere conto di questo fattore verrebbe di molto sovrastimato.Potrebbe quindi affermare che la pensione migliore non è altro che il ritorno dell’investimento che ha fatto nel mantenimento e nell’educazione dei figli. Lui non ha potuto andare all’università, ma ha pagato perché i suoi figli potessero farlo. È quindi giusto che le migliorate condizioni economiche rese possibili dal suo iniziale sacrificio si rispecchino ora nell’ammontare della sua pensione.

Un altro aspetto da tenere in conto è quello dei prepensionamenti o delle misure una tantum che consentono a un certo numero di lavoratori di poter andare in pensione con requisiti ridotti rispetto a quelli normali, una situazione che Easton definisce “un eufemismo per disoccupazione”.Quel che secondo Easton proprio non bisogna fare è analizzare casi specifici, come regimi pensionistici particolarmente favorevoli concessi nel passato, e trattarli come esempi da cui trarre conclusioni generali. Un metodo in grado di offrire un’enorme spinta al dibattito pubblico, ma improprio per un’analisi della situazione generale nella sua interezza.

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