La dinastia Giulio-Claudia attraverso gli occhi di un frate del Duecento

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La dinastia Giulio-Claudia è accompagnata ancora oggi da un immaginario collettivo di trame politiche, violenza e sesso, basato sulle indiscrezioni “piccanti” di Svetonio e le aspre accuse di Tacito. È interessante però approfondire quale fosse l’immagine che accompagnava una delle dinastie più chiacchierate nella storia nel pieno Medioevo, alla fine del XIII secolo.
Augusto da Via Labicana, Musei Vaticani.

Per rispondere, partiamo da Firenze e dal convento francescano di S. Croce. Qui, negli anni Settanta del Duecento, viveva un frate ormai sessantenne, Tommaso da Pavia. Le informazioni che possediamo su di lui e sulla sua vita sono scarne, ma un suo contemporaneo e amico personale, il cronista Salimbene de Adam, ci ha lasciato di Tommaso un ritratto carico di affetto e di ammirazione: a detta del confratello, il nostro frate era «un sant’uomo, ottimo e perfetto uomo di Chiesa, […] un membro anziano dell’Ordine Francescano, uomo saggio e coscienzioso, di sapiente consiglio […] affabile, zelante, umile e di buon cuore e devoto a Dio» e, soprattutto, «un mio grande amico». Aveva insegnato per molti anni teologia, nei conventi di Parma, Bologna e Ferrara; aveva compiuto diversi viaggi, che lo avevano portato a percorrere le strade di mezza Europa; infine, incaricato del prestigioso ruolo di ministro provinciale di Tuscia, era arrivato a Firenze.

Qui, si dedicò fino alla morte, avvenuta attorno al 1280, alla stesura di una cronica magna, una grande opera di storia universale: scritti letterari di questo genere erano ampiamente diffusi nel Basso Medioevo, e i loro autori si ponevano l’ambizioso obiettivo di riunire in essi tutta la storia dell’umanità, dalla creazione dell’uomo alla loro contemporaneità; più modestamente e forse saggiamente, i Gesta imperatorum et pontificum – questo il titolo con cui è convenzionalmente nota l’opera di Tommaso – prendono le mosse proprio da Augusto e dalla dinastia Giulio-Claudia. Per ritornare alla domanda iniziale e cercare una risposta, quindi, sentiamo ciò che il nostro frate francescano ha da dirci al riguardo.

Una risposta generale

Eliminiamo subito ogni sorpresa: la fonte principale dell’opera per la dinastia Giulio-Claudia sono le Vite dei dodici Cesari di Svetonio, e dunque nessuna meraviglia se dei primi imperatori ci viene offerto un classico ritratto per species, “per argomenti”, ritratto che non manca mai ovviamente di perdersi nell’aneddoto, ma che anzi si basa quasi completamente su di esso.

Con un’importante differenza, tuttavia. Quelli che noi lettori moderni consideriamo dei semplici episodi aneddotici, a cui guardiamo con aria divertita e un poco scettica, per gli uomini del Medioevo avevano un significato profondo: per quanto potessero apparire lontani dalle verità cristiane, in essi si poteva sempre leggere una prefigurazione di una realtà superiore e divina. È il pensiero alla base della storiografia universale, d’altra parte: tutta la storia dell’uomo rientra in un preciso disegno di Dio, che culmina nella venuta di Cristo in Terra e nella sua opera salvifica; all’uomo non resta che guardare alla storia e cercare di cogliere e comprendere, per quanto gli è possibile, questi richiami. Ecco allora che, al fianco di Svetonio, fa la sua comparsa fra le fonti dell’opera anche lo storiografo cristiano Paolo Orosio, che offriva al lettore diverse interpretazioni di questo tipo. Se Svetonio racconta quindi, ad esempio, che alla morte di Caligola fu rinvenuta fra i suoi oggetti personali una cassa ricolma di veleni e che questi vennero gettati in mare per ordine di Claudio, causando una moria di fauna marina, Orosio precisa che questo fu un segno della misericordia di Dio, che mostrò, attraverso la moltitudine di animali rimasti uccisi, quanti altri uomini sarebbero morti per mano di Caligola se questi non fosse stato provvidenzialmente eliminato.

Dei cinque imperatori, due sono sottoposti ad una lettura particolare, Augusto e Tiberio, e a loro vorrei dedicare il resto di questo breve articolo. Per quanto riguarda gli altri, basterà sapere che il ritratto che ne fa Tommaso è del tutto aderente a quello di Svetonio: Caligola è un folle crudele, Claudio uno sciocco e un vizioso, Nerone un perverso assassino. Certo, non manca anche in questo caso l’interpretazione sacra, e i tre diventano di conseguenza il ricettacolo di ogni possibile peccato cristiano.

Augusto, l’imperatore della pace, e Tiberio, l’imperatore della vendetta

Per Tommaso e i suoi contemporanei non c’erano dubbi sul fatto che l’evento più importante del principato augusteo fosse stato la nascita di Cristo. Perché questa si verificasse, tuttavia, era necessario che tutto il mondo fosse unito e in pace, e proprio questo è il più grande merito di Augusto. Al riguardo, Tommaso è piuttosto esplicito: «Di tutto ciò che è raccontato dagli storici romani su Ottaviano Augusto, niente mi sembra accordarsi maggiormente alla grazia di Cristo quanto la pace che, grazie a lui, riunì non solo Roma, ma anche l’intero globo».

Tiberio, Museo Archeolgico di Venezia.

Una pace lunga e generale, una pace che, precisa Tommaso, l’uomo non sperimentava da secoli. Episodio rappresentativo è la chiusura del tempio di Giano a Roma, le cui porte dovevano invece rimanere sempre aperte in tempo di guerra. Dell’importanza di questo gesto, per altro, si ricorderà cinquant’anni dopo anche Dante, che farà dire a Giustiniano, nel Canto VI del Paradiso, che l’aquila imperiale «con costui puose il mondo in tanta pace, / che fu serrato a Giano il suo delubro».
Altrettanto importante l’ambasciata orientale che, secondo Orosio, avrebbe reso omaggio ad Augusto in Occidente, rovesciamento di quella occidentale che si sarebbe recata in Oriente da Alessandro Magno e, soprattutto, prefigurazione del viaggio dei magi.

Dopo il “quasi cristiano” Augusto, Tiberio. Il secondo dei Giulio-Claudi non gode presso gli storici antichi di buona fama, si sa. Tacito ne delinea un ritratto a tinte fosche, da «grande dissimulatore», e Svetonio non è da meno, anche se gli devono riconoscere, prima della presa del potere e negli iniziali anni di governo, qualità non indifferenti. In seguito, tuttavia, «Tiberio si trasformò in una belva feroce», per citare il nostro Tommaso.
Ma perché mai questo cambiamento? Se l’evento più importante dell’epoca di Augusto era stato la Natività, per l’età di Tiberio si trattava senza dubbio della Passione, e proprio questa era la ragione del radicale mutamento dell’imperatore: racconta il nostro autore che, raggiunto dalla notizia dei miracoli, della morte e della resurrezione di Cristo, Tiberio tentò di convincere il senato a considerarlo un dio, ricevendo però in risposta un netto e arrogante rifiuto. Allora «avvampò come una belva, volgendosi a una spietata punizione», in cui tuttavia, immancabilmente, non ebbe il giusto senso della misura, al punto che, dice Tommaso, ci si vergogna a ricordare le sue azioni.

Alle orecchie di un moderno, queste interpretazioni della storia potrebbero suonare quantomeno bislacche, ma così non era per Tommaso da Pavia né per gli altri uomini del Medioevo. La tentazione di concedere loro soltanto una lettura distratta, con un sorriso di sufficienza sulle labbra, va superata: per conoscere fino in fondo un’epoca, bisogna comprendere anche come essa ha conosciuto e riletto quelle che l’hanno preceduta.

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Filippo Mauri

è laureato in Lettere e laureando in Filologia, letterature e storia dell’antichità presso l’Università degli Studi di Milano. Ha svolto attività docente come supplente di Lettere nei Licei.

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