La collezione Farnese a Napoli: l’antichità “colossale”

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Storia, archeologia, collezionismo si fondono nella visita a una delle raccolte antiquarie più importanti del mondo, realizzata da una nobile famiglia amante dei “beni culturali”.

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Visitare il Museo Archeologico Nazionale di Napoli è come fare un viaggio più che bimillenario nella storia e nella civiltà mediterranea, dai tempi dell’antica Grecia fino ai nostri. Sì, i nostri tempi grigi, rappresentati benissimo dalle numerose sale chiuse (ad es. quelle delle epigrafi, delle monete, delle gemme, che contengono pezzi di fama mondiale…) – mi è stato detto – per mancanza di personale, dall’ascensore rotto, dall’obliteratrice dei biglietti a lettura ottica non funzionante e pertanto sostituta da una simpatica signora che li strappava a mano… Tutto questo in un lunedì lavorativo, con il Museo – grazie a Dio – gremito di gruppi di stranieri, per lo più giovani in viaggio di istruzione: tra questi c’erano dei tedeschi, e ho temuto (credo a ragione) che facessero il debito confronto con l’eccezionale organizzazione dei musei berlinesi!
Ma lasciamo perdere queste mancanze, frutto di una politica pluriennale di disinteresse per i Beni Culturali (di cui il Museo napoletano è vittima, non responsabile…) e parliamo invece di una famiglia che dell’interesse verso dei Beni Culturali ha fatto il leitmotiv della sua storia: i Farnese. Infatti dai tempi cinquecenteschi di Papa Paolo III e del nipote cardinale Alessandro, fino al 1731, data dell’estinzione del nobile casato, collezionare antichità e opere d’arte fu una delle principali attività farnesiane. Lo fecero per ornare i sontuosi palazzi romani (in primis il fantastico Palazzo Farnese, ora sede dell’Ambasciata di Francia, e la non meno nota “Farnesina”) e non solo, poiché molti pezzi furono esibiti nella splendida dimora laziale di Caprarola e nel non meno elegante Palazzo Ducale di Colorno, presso Parma. In seguito – in virtù di legami di carattere ereditario – la collezione passò ai Borbone, e Carlo e poi Ferdinando IV di Borbone, in pieno Settecento, la portarono a Napoli: ed è questo il motivo per il quale essa è visibile, ai nostri giorni, in numerose sale del Museo Archeologico Nazionale di questa città.
Insomma, già la storia di questa famiglia, il legame con il collezionismo e il mecenatismo, la viscerale passione per l’antichità (e soprattutto per opere scultoree grandi sia in dimensioni che in qualità), basterebbero da soli per costruire un percorso didattico di grande spessore e di indubbio valore interdisciplinare.
Ma se noi prendiamo almeno tre delle statue che facevano parte di quella raccolta, il discorso si fa ancora più appassionante. Statue che – come si vedrà – hanno in comune le dimensioni davvero imponenti, a ulteriore testimonianza della grandeur farnese.

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Che dire infatti del cosiddetto Toro Farnese, uno dei gruppi scultorei più imponenti che l’antichità ci abbia lasciato? In esso si raffigura il supplizio di Dirce, regina di Tebe straziata da un toro come punizione per le angherie cui aveva sottoposto – per gelosia – la bella Antiope. Plinio il Vecchio menziona la statua e la dice opera degli scultori rodii Apollonio e Taurisco (II sec. a.C.): quella che ora vediamo – non sappiamo se copia od originale – venne trovata nel 1545 nelle terme di Caracalla, e la sua impressionante mole fece sì che per il suo trasferimento a Napoli, nel 1788, sia stato necessario usare una nave da guerra.
E l’Ercole Farnese, anch’esso colossale, anch’esso trovato nelle Terme di Caracalla, non è forse una delle statue più famose dell’antichità? Copia “firmata” dall’ateniese Glicone dell’originale del grande Lisippo, ebbe una storia incredibile, poiché le gambe attuali (e originali) sono esito di un ritrovamento successivo, in assenza del quale erano state “rifatte” da Guglielmo della Porta su incarico – nientepopodimeno… – di Michelangelo. Napoleone se ne invaghì a tal punto da progettarne più volte il trasferimento a Parigi, ma l’operazione fallì, grazie al cielo: temo infatti che sarebbe finita come col Laocoonte, “caduto da cavallo” in un valico alpino e poi riparato da Antonio Canova.

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Ma è forse il gruppo dei Tirannicidi il più ricco di suggestioni evocative. Infatti riproduce Armodio e Aristogitone, i due assassini del tiranno Ipparco nel 514 a.C., e ciò ci porta immediatamente all’evento clou della nascita della democrazia ateniese. Sappiamo che l’originale fu realizzato nel 477 a.C. da Kritios e Nesiocles, e che quella dei Farnese è copia romana del II sec. d.C.; ma non è una copia qualunque, dato che fu trovata a Tivoli, nella villa di Adriano, l’imperatore filelleno per eccellenza e amante solo di opere d’arte high quality.
Proviamo adesso a “rimettere insieme” i pezzi. Dagli albori della democrazia ateniese (Tirannicidi) e del suo stile severo, dunque, siamo passati alla “patetica” statuaria ellenistica (Eracle Farnese, Toro Farnese), ma abbiamo pure “sfiorato” Adriano, Caracalla, Michelangelo, Napoleone… oltre che – ovviamente – i Farnese e i Borbone. A mio avviso, pertanto, guardare, studiare, valutare le opere d’arte antica non solo per il loro valore estetico, ma per quello che hanno significato nei secoli per chi le ha trovate, possedute, fruite, restaurate (e perfino saccheggiate!) significa davvero considerarle Beni Culturali. Significa capire che le epoche passate hanno sentito come “bene”, come “valore” – oltre che come testimonianza di cultura – degli oggetti artistici che noi abbiamo oggi il diritto di vedere e il dovere di conservare per le generazioni future. Un “bene”, un “valore”, che deve andare ben al di là della dimensione economica, e che deve spingerci (e spingere soprattutto i nostri giovani studenti) a vigilare affinché lo Stato – che le ha ora in tutela – le conservi (almeno) con la stessa cura con la quale per secoli l’hanno fatto i Farnese. E la clava minacciosa di Ercole potrebbe essere il monito più evidente della punizione che attende chi non dovesse attuare questa tutela. O è forse meglio il toro scatenato? O il pugnale dei tirannicidi? Speriamo, davvero, che non serva nessuno dei tre.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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