Il 2 febbraio 1938 si insedia a Catania il nuovo questore. È un ligio funzionario di regime, con cinque figli, già distintosi, a Salerno e ad Avellino, in un settore specifico, su cui la legislazione penale del tempo, il famigerato Codice Rocco, aveva deciso di non pronunciarsi, tranne nei casi di comprovata violenza carnale: il nome del questore è Alfonso Molina; la sua fissazione, gli omosessuali. Circa un anno dopo, in seguito a un’accuratissima opera di indagine, spionaggio, interrogatori e denunce, Molina propone al prefetto i primi candidati al confino, introducendoli con lo stesso zelante preambolo: «La piaga della pederastia in questo Capoluogo tende ad aggravarsi e generalizzarsi […]; vari caffè, sale da ballo, ritrovi balneari e di montagna, secondo le epoche, accolgono molti di tali ammalati […]; giovani di tutte le classi sociali ricercano pubblicamente la loro compagnia e preferiscono i loro amori snervandosi e abbrutendosi […]; tale grave aberrazione sessuale che offende la morale e che è esiziale alla sanità e al miglioramento della razza…».
In queste reboanti affermazioni si colgono aspetti significativi della repressione fascista dell’omosessualità: la nebulosità giuridica (gli omosessuali, sempre sommariamente accusati e processati, violano il buon costume e meritano dunque il confino comune, più severo? oppure sono ribelli al regime e dunque degni del confino politico?); l’impatto decisivo del Manifesto della razza, che nel 1938 istituzionalizzò, tra l’altro, l’antisemitismo in Italia, ispirandosi al nazismo (e conosciamo il destino di circa 15.000 gay tedeschi, inviati nei campi di concentramento con il triangolo rosa); il machismo ducesco, il quale non ammetteva deroghe per l’italica virilità, che tuttavia poteva preservarsi in certi ruoli anche nei rapporti sessuali tra uomini. A tutto ciò va aggiunta la conferma dell’esistenza di una fitta rete di contatti, incontri, ritrovi che persino in una città insulare non erano una rarità: non sarà stato come a Berlino, eppure a Catania lussureggiava una «sottocultura» gay, come la chiamano studiosi e studiose per indicare (analogamente a quella afrodiscendente negli Stati Uniti) un universo parallelo e marginale, con una sua identità rispetto alla società borghese, alla mondanità perbene.
Di tutto questo, del prima, del durante e del dopo tratta con scrupolo storico e passione civile il saggio, da poco ripubblicato da Donzelli, La città e l’isola, di Gianfranco Goretti (che sul tema scrisse la sua tesi di laurea, nel 1990-91) e Tommaso Giartosio. Il loro lavoro illumina un lato ancora poco conosciuto del fascismo, appunto la repressione dell’omosessualità. Goretti e Giartosio si concentrano sul gruppo di 45 catanesi, detti in siciliano arrusi, cioè ragazzi omosessuali, denunciati, arrestati e poi tradotti e confinati dal questore Molina nell’isola di San Domino, parte dell’arcipelago delle Tremiti. Il confino sarebbe dovuto durare cinque anni (il massimo della pena, commutata nel 1940 in ammonizione, non per pietà ma per esigenze logistiche) e fu preceduto da passaggi intermedi, compresa un’umiliante visita medica per accertare, con spirito lombrosiano, il rapporto tra una particolare conformazione anatomica e l’effettiva predisposizione all’omosessualità arrusa (un’etichetta più sociale che sessuale, rafforzata da un fuori norma espressivo che balzava agli occhi dei moralizzatori). Tutti dettagli puntualmente raccolti nelle schede biografiche dei confinati, dalle quali si deducono le origini familiari, i dati anagrafici e fisici (dalla forma della fronte al colore del sangue), le impronte digitali, le malattie e gli eventuali internamenti manicomiali (l’alternativa al confino), le modalità di approccio a quello che il questore considerava «vizio», «perversione», «colpa». Erano teorie maldigerite dagli stessi estensori dei verbali, che storpiavano le parole (come «uomo sessuale», che ancora oggi capita di sentir proferire), e dai parenti, che negli inutili appelli tentavano di scagionare i loro arrusi, accusati di «pedistina» o definiti «piedigrasta» (popolarmente derivata da grasta, cioè vaso forato sotto, simile a quello nel quale Lisabetta da Messina, nel Decameron, ripone la testa dell’amato Lorenzo, ucciso dai fratelli).
L’operazione Molina non era un’eccezione in quegli anni dell’era fascista, anzi: molti altri omosessuali, di tutte le regioni, subirono il confino in quella San Domino allestita come colonia apposta per loro, tra le grinfie di un direttore, Francesco Coviello, sadico e camaleontico, tanto da essere nominato cavaliere della Repubblica (nell’adiacente San Nicola c’erano invece i criminali comuni, come Amerigo Dùmini, il killer di Matteotti, e gli antifascisti, come Mario Magri, poi fucilato alle Fosse Ardeatine, che non guardavano con troppa empatia i loro vicini di isolamento). Tuttavia l’intervento catanese si caratterizzò per sistematicità e rigore, in anni in cui il numero di confinati omosessuali ebbe un’impennata generalizzata; il questore impiegò tutte le risorse a sua disposizione, non ultime le maldicenze e le denunce anonime, per raggiungere lo scopo.
Si osserva, leggendo gli estratti degli interrogatori citati da Goretti, una dinamica simile a quella che Carlo Ginzburg ha messo in luce nei verbali degli inquisitori a caccia di streghe e riti diabolici: interrogato e interrogante condividevano in parte il medesimo retroterra culturale, compresi i pregiudizi integralisti, e nelle domande si suggerivano già quelle griglie concettuali entro le quali si pretendeva di ingabbiare le risposte dell’accusato. Mentre però dietro le dichiarazioni degli inquisiti Ginzburg ha intravisto le tracce di antichi culti agrari precristiani, gli arrusi non lasciano intendere – era ancora presto e non ne avevano gli strumenti – una consapevolezza di omosessualità endogamica, cioè di essere parte di una comunità caratterizzata da interessi, gusti, orientamenti analoghi, da rivendicare con orgoglio. I benandanti friulani studiati da Ginzburg, in confronto, avevano fatto gruppo, organizzavano riunioni e riti, affermarono la propria innocenza in nome di credenze comuni e antichissime. Gli arrusi catanesi no: non usano il «noi», non in questa fase; non si proclamano quasi mai innocenti; assecondano l’idea che siano stati «contagiati» in seguito alla violenza da parte di un masculu che invece non è perseguito. È lo stesso atteggiamento della madre di Ernesto nel romanzo di Umberto Saba quando il ragazzo fa coming out; la signora Celestina se la prende con l’uomo adulto, subodorando una violenza senza consenso, smentita da Ernesto: «Mascalzone, assassino, peggio di tuo [padre]… Abusare così di un ragazzo!». In questo modo essi consolidavano sia la visione fascista e patologizzante dell’omosessualità come «pestilenza» contagiosa sia la costruzione binaria del sesso e della biologia umana, che ripercuote l’asimmetria mascolinità/femminilità, a vantaggio della prima, nelle relazioni gay (masculu/arrusu), senza però il fine riproduttivo (e un arrusu riuscì a sottrarsi al confino pugliese proprio perché dimostrò di essere diventato padre, di aver generato).
Qualcuno per la verità – il medico tedesco Magnus Hirschfeld (1868-1935), pioniere delle ricerche sulla (omo)sessualità – aveva elaborato l’esistenza di un «terzo sesso», inglobando le persone che oggi definiremmo transessuali e le non binarie, queer; ma non si può pretendere che un’eco di quegli studi all’avanguardia fosse giunta agli arrusi, quasi tutti semianalfabeti e semplici lavoratori (piccoli artigiani, barbieri, camerieri, commessi, braccianti, pastori, facchini, secondo le ricerche di Goretti). Né questi si sottrassero alla cattura con la fuga, anzi molti furono arrestati in casa, nonostante l’aria pesante e i precedenti interrogatori: è un comportamento che ricorda l’ottimismo di alcune famiglie ebraiche, le quali non potevano credere, dopo averlo sostenuto con slancio, che il fascismo si sarebbe ritorto contro di loro. Ciò non toglie che le dichiarazioni degli arrusi che si travestivano e praticavano una sessualità aperta a uomini e a donne, priva di ruoli fissi, abbiano messo in crisi le categorie tassonomiche dei verbalizzatori; sono piccoli slittamenti in cui Goretti riconosce l’inizio della crisi del modello dell’arrusu in cerca del solo masculu, come poi sarebbe avvenuto nel dopoguerra.
Su ispirazione del pioneristico volume di Goretti e Giartosio è nato nel 2021 L’isola degli arrusi, un progetto fotografico, ora raccolto in un volume realizzato con fine premura artigianale, di Luana Rigolli, che ha contribuito a illustrare con i suoi scatti due fascicoli della nostra Ricerca (il 15, Che razza di scuola?, e il 17, «Meditate che questo è stato», sul racconto del fascismo). Rigolli ha immortalato le facce dei 45 arrusi, le schede biografiche stese dalle autorità, le suppliche dei familiari, i luoghi della loro vita a Catania e del confino a San Domino, gli strumenti delle visite mediche e delle punizioni. Nel libro, che presenta e approfondisce il progetto, si trova inoltre, per ognuno dei 45, una citazione personale, una lettera o il verbale dell’arresto. È con una certa commozione che si sfogliano le pagine di questo prezioso lavoro documentario, vero e proprio iconotesto: si scrutano volti ora severi ora stupiti ora tramortiti; si immaginano le reciproche relazioni, i conflitti scoppiati durante i lunghi mesi del confino, le individualità che via via si fondono e diventano, finalmente, quel «noi» comunitario che forse ne è l’inconsapevole eredità. Fosse stato per loro, non se ne sarebbe più dovuto parlare: dopo la fine del regime, gli arrusi, traumatizzati, marginalizzati, rinnegati dalle famiglie che pure avevano bisogno di loro e delle loro braccia, scelsero il silenzio, l’invisibilità, si sposarono, rinunciarono persino al diritto di richiedere un indennizzo allo Stato.
Oltre che libro, il progetto dell’Isola degli arrusi è diventato una mostra itinerante, attualmente ospitata all’Istituto italiano di cultura di Montréal, città che vanta una traccia significativa di quel regime che attuò il confino e che, d’altra parte, incoraggiò la propaganda italiana nel mondo: nell’abside della Chiesa di Notre-Dame-de-la-Défense si conserva, tra eminenze ed eccellenze laiche ed ecclesiastiche, sotto santi e sante, un maschio ritratto di Mussolini a cavallo, realizzato a suggello dei Patti Lateranensi. La nemesi storica non smette mai di colpire.
Certo, nel Levitico c’è scritto che «chi giace con un uomo come con una donna» si rende responsabile di «abominio» (la parola ebraica indica un tabù religioso più che morale), in quanto pratica che mescolava elementi da tenere separati (a letto come in cucina) e, per la Chiesa cattolica, non finalizzata alla riproduzione della vita; ma la parola si addice meglio a quanti hanno causato e continuano a causare la segregazione e l’annichilimento di centinaia, migliaia di vite. Come dire, con l’Apostolo, omnia munda mundis: tutto è puro per i puri, mentre per gli impuri… ci si regola di volta in volta.