Quanto si parla, di Cina, da qualche tempo a questa parte! Dopo avere per un paio d’anni menzionato continuamente il famigerato mercato di Wuhan, oggi mezzo mondo spera che la grande potenza orientale intervenga per frenare la guerra che Putin ha scatenato contro l’Ucraina. Ma – per ora – il Presidente Xi Jinping attende, osserva, dice e non dice… o perlomeno così sembra a noi occidentali, per i quali quel mondo lontano rappresenta spesso un grande enigma.
Io non sono certo un sinologo, come ben sapete. Ma ho respirato in famiglia, fin da ragazzo, una particolare attenzione verso quella enorme nazione, poiché mio padre (non certo un maoista!) è stato uno dei “pionieri” – negli Anni Settanta – della ripresa dei rapporti dell’Italia con la Cina, partecipando alla costituzione dell’Istituto Italo-Cinese; ho dunque avuto la fortuna di poter parlare spesso con veri conoscitori di quella realtà, il che mi ha spinto – ormai venticinque anni fa – a visitare Pechino e dintorni, trovando allora un mondo ancora in trasformazione, in bilico tra arcaismo e modernità, nel quale le biciclette pareggiavano ancora il numero delle auto!
Cartier-Bresson, due viaggi in Cina
Sono sempre stato un appassionato fotografo amatoriale – attrezzato, soprattutto da giovane, di pesanti grandangoli e teleobiettivi… – eppure le immagini (non ancora digitali!) scattate in quel viaggio non sono davvero granché, anche a causa della nebbia e dello smog (era un freddissimo gennaio) che aleggiavano ovunque. Nessuno, dunque, le potrebbe usare adeguatamente per documentare quella trasformazione di cui parlavo.
Chi invece ha documentato con straordinaria efficacia ben due fondamentali momenti di trasformazione della Cina moderna è stato l’«Occhio del secolo», come è stato definito Henri Cartier-Bresson (1908-2004), uno dei più importanti protagonisti culturali del Novecento, considerato il pioniere del fotogiornalismo.
Si tratta anzitutto degli eventi del 1948-49, quando il periodico “Life” chiese al maestro un reportage sugli “ultimi giorni di Pechino” prima della caduta del Kuomintang in seguito al vittorioso arrivo delle truppe di Mao: il suo soggiorno cinese, previsto di due settimane, durò invece dieci mesi, principalmente nella zona di Shanghai, perché gli eventi bellici non gli consentirono un agevole ritorno in Francia.
Ma Cartier-Bresson tornò in Cina dieci anni dopo, per documentare il “Grande balzo in avanti” di Mao Zedong (1958), ormai saldamente al potere. E se le immagini del primo viaggio sono quelle – contradditorie e perciò affascinanti – di un mondo in rivolta, quelle del secondo riescono a presentare all’Occidente anche aspetti della realtà sociale cinese tenuti nascosti dalla propaganda di regime, come lo sfruttamento delle risorse umane e l’onnipresenza delle milizie.
Tutto ciò è illustrato dalla mostra milanese – davvero imperdibile – “Henri Cartier-Bresson. Cina 1948-49 | 1958”, al Mudec Photo dal 18 febbraio al 3 luglio 2022, prodotta da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE. L’esposizione è promossa dal Comune di Milano-Cultura e curata da Michel Frizot e Ying-Lung Su; realizzata grazie alla collaborazione della Fondazione Henri Cartier-Bresson, essa riunisce un’eccezionale selezione di fotografie e documenti di archivio del fotoreporter francese: oltre 100 stampe originali insieme a pubblicazioni di riviste d’epoca, documenti e lettere provenienti dalla collezione della Fondazione HCB.
Tra rivoluzione, povertà, progresso
Menziono in questa breve nota anzitutto due immagini del 1949, che davvero mostrano l’ambivalenza di quel particolare momento. Sono entrambe scattate a Shangai, e raffigurano l’una gli studenti festanti in corteo che inneggiano a Mao, l’altra i rassegnati bambini in coda che attendono la distribuzione del riso. Mi paiono adatte a commentare la famosa frase del Grande Timoniere «La rivoluzione non è un pranzo di gala», anche perché di «pranzi» – in quei mesi di fame e di rivolte – se ne dovevano consumare assai pochi…
Tra quelle del 1959 mi ha impressionato soprattutto una che mostra alcuni cinesi, nel centro di Pechino, che guardano con stupita ammirazione una bicicletta, per molti di loro un sogno proibito. Ed è partendo da foto come queste che la pubblica opinione occidentale di allora si divideva, in parte simpatizzando per il regime maoista portatore di progresso, in parte denunciandone le derive illiberali e repressive ai danni di una popolazione ancora molto povera. Le istantanee di Cartier-Bresson, infatti, comparivano su riviste di vario orientamento politico e ideologico e rappresentavano una finestra aperta (o almeno non del tutto chiusa) sul Paese del Dragone.
Con la Leica a tracolla
Egli le “catturò” con una Leica leggera e precisa molto simile a quella con la quale – con tecnica ben più rudimentale – mio padre fotografava in quegli stessi anni la sua famiglia. Quella Leica è ancora in un armadio di casa mia, ormai inoperosa da anni, e pertanto bisognosa di costose revisioni prima di un eventuale utilizzo: dopo la visita alla mostra del Mudec l’ho comunque tirata fuori, per riguardarla con un po’ di commozione. Ho provato anche a recuperare le mie foto (diapositive, se ben ricordo) della Città Proibita, della Grande Muraglia, dei quartieri in costruzione della Pechino di fine Novecento, ma invano. Chissà dove sono finite? Prima o poi salteranno fuori, ma forse è un bene che – dopo essermi ancora una volta meravigliato con le immagini di Cartier-Bresson – non abbia ancora una volta provato delusione per quegli esiti oggettivamente modesti. Mi consola avere fatto di meglio in altri viaggi lontani e, soprattutto, la possibilità di consultare in qualche caso il mio (pur sempre disordinato) archivio digitale senza dovere mettere sottosopra casa, box e cantina…