- Ribolla, Italia. Foto © Federico Borselli.
Troppo spesso, accendendo la televisione o leggendo un quotidiano, siamo sommersi da parole quali “invasione”, “clandestini”, “criminali”. Ma, prima di tutto, questi “immigrati” sono uomini e donne come noi, che dovrebbero avere la possibilità di godere dei nostri stessi diritti. Non dobbiamo mai dimenticare che l’accoglienza è un concetto molto importante per l’essere umano: indica quel luogo che offriamo all’altro, vi confluiscono concetti basilari come ospitalità, fraternità e umanità.
Al liceo si studia Kant, che tratta la questione del diritto cosmopolitico, un diritto in grado di varcare i confini degli stati e delle nazioni. Rappresenta il diritto universale all’ospitalità, cioè un diritto di visita senza condizioni, e un diritto dell’ospite, per cui è necessario accogliere lo straniero come coabitante. È impensabile considerare un’umanità senza accoglienza: alla nascita siamo accolti in un luogo che non è il nostro, dove viviamo temporaneamente come ospiti, e anche il ventre materno non è che il nostro primo rifugio. Ognuno di noi è migrante nel suo microcosmo di relazioni, accolto e invitato ad accogliere proprio in nome di una coabitazione con l’altro, che il mondo contemporaneo rende imprescindibile.
Il cosiddetto fenomeno della globalizzazione, infatti, ha portato con sé diversi mutamenti, non solo sul piano economico e politico, ma anche e “Multietnico”, “multiculturale”, “meticcio” sono parole con significati complessi che troppo spesso vengono usate come sinonimi, mentre veicolano significati tra loro differenti.soprattutto su quello sociale e culturale. Mutamenti che, per la loro portata, rendono difficile continuare ad appellarsi al ritorno di situazioni che si potrebbero definire “pure”, di una purezza in realtà mai esistita. Grazie alla mobilità internazionale e, quindi, alle maggiori possibilità di raggiungere in poco tempo parti diverse del globo, e grazie alla naturale propensione dell’uomo a viaggiare con il proprio inseparabile bagaglio culturale, le nostre società, le nostre metropoli, sono sempre più comunità ibride e meticce.
Per capire come accogliere e costruire il nostro futuro, in un momento delicato come quello che stiamo vivendo oggi, è necessario fare chiarezza sulle possibilità di interazione con le comunità di migranti in arrivo o già presenti in Italia. Nella società attuale, l’uso e l’abuso di determinati concetti porta a diversi problemi di comprensione. “Multietnico”, “multiculturale”, “meticcio” sono parole con significati complessi che troppo spesso vengono usate come sinonimi, mentre veicolano significati tra loro differenti.
Il multiculturalismo imperante nella nostra società descrive fenomeni legati alla semplice convivenza di culture diverse, in cui gruppi sociali di etnia e cultura dissimili difficilmente si incontrano e dialogano. In questo caso, le culture e le identità culturali vengono considerate come date, fissate, rigide e non suscettibili di mutamento. Il ritorno in auge dell’etnicità quale fonte di identificazione collettiva e spinta alle rivendicazioni, in seno alla modernità e alla globalizzazione, ha aumentato il multiculturalismo radicale.
L’ideologia e le pratiche multiculturali – pensando alla società come un mosaico formato da monoculture omogenee e dai confini ben definiti – hanno, di fatto, aumentato la frammentazionefra le componenti della società (e il rischio di forme di apartheid, come possiamo notare nei fatti degli ultimi anni In contrapposizione al modello multiculturale si propone un modello – anzi, un pensiero – “meticcio”, un pensiero transculturale, dove ogni differenza non allude a privilegi né ad alcuna discriminazione.di Tor Sapienza a Roma, via Padova a Milano, di Rosarno o di Castel Volturno), dimostrandosi validi strumenti per la costruzione di un’identità nazionale chiusa e incapace di comunicare. Seguendo un movimento che può apparire paradossale, il multiculturalismo si rivela, dunque, come il lato oscuro della monocultura.
In contrapposizione al modello multiculturale si propone un modello – anzi, un pensiero – “meticcio”, un pensiero transculturale, dove ogni differenza non allude a privilegi né ad alcuna discriminazione. La transcultura esige che gli uomini, migranti o meno, godano delle medesime “universali” possibilità e scelgano privi di vincoli comunitari dove, come e quando vivere.
Nel modello meticcio non c’è nessuno spazio per lavoratori schiavizzati, esclusi dalla sfera del diritto solo perché non nati nel Nord del mondo. Il fatto che l’esercito della forza lavoro di riserva in Occidente sia così folto è un vantaggio per vari settori dell’economia. Per alcuni di questi, tra i quali quello agricolo in Italia, è necessario per vincere la competizione, perché permette di scaricare i costi di produzione sui lavoratori. Dato il legame inscindibile tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, il migrante irregolare si trova di fronte a due alternative: tolta l’eventualità di vivere d’elemosina, può rivolgersi o alle vie informali del mercato nero oppure sopravvivere attraverso attività François Laplantine ci ricorda che siamo umani al di là delle appartenenze.illegali. È falso quello che affermano molti media, la famosa favola che non ci sia lavoro per i migranti, o peggio che vivano nella “pacchia del sistema dell’accoglienza”: in realtà, interi settori dell’economia italiana – l’assistenza da parte delle badanti o l’agricoltura, soprattutto in meridione – sopravvivono grazie alla forza lavoro migrante, che rientra però nei circuiti informali del mercato. Le condizioni di lavoro e di sopravvivenza di chi si trova nei circuiti dell’economia informale sono spesso tali da non permettere un’esistenza dignitosa, da non garantire la possibilità di inviare valuta estera alla famiglia in patria, da non ammettere l’accumulazione di un seppur minimo capitale. Nel modello transculturale o meticcio, invece, ogni persona ha il diritto di essere valorizzata nella sua unicità e irripetibilità, nella sua continua trasformazione e negazione della purezza originaria.
Viviamo in un mondo fatto di informazioni e immagini che ci sommergono continuamente, attraversiamo metropoli affollate, con strade che sembrano fiumi in piena di umani delle etnie più differenti, che con il passare del tempo si mescolano, si incontrano, si scontrano e danno forma al processo meticcio, come ci ricorda François Laplantine: siamo «umani al di là delle appartenenze». L’insieme dell’umanità si sta interconnettendo attraverso una rete di rapporti che si estende progressivamente all’interno delle nostre città, nelle nostre vite.
Nella società postmoderna assistiamo sempre di più a una rapida e profonda evoluzione dei modi di vita quotidiani, determinata da un insieme di eventi, dal mescolarsi di culture, esperienze diverse, fino alle sempre più veloci innovazioni tecnologiche che cambiano il nostro modo di vivere e vedere la realtà. Assistiamo a trasformazioni culturali dovute all’interazione tra fattori evolutivi, sociali, culturali, economici e tecnologici che raggiungono un’ampiezza senza precedenti. I mutamenti in atto stanno modificando irreversibilmente il nostro vivere quotidiano, il nostro modo di pensare e di percepire il mondo e la convivenza umana.
L’antropologia, in questo campo, ha un compito importante, che è quello di capire perché un gran numero di migranti mettono a rischio la loro stessa esistenza pur di non rinunciare a una prospettiva di vita dignitosa. Per accogliere e trovare una casa per tutta l’umanità dobbiamo impegnarci a costruire un mondo di eguali per diritti ma differenti per culture, una società di donne e uomini liberi di creare la loro specificità culturale.Persone che attraversano deserti e mari, costretti a vivere in tendopoli e baraccopoli precarie, che si affidano, non potendo fare altro, a trafficanti di umani “senza nome”, che mettono in gioco la loro stessa vita per aprirsi un varco, una possibilità di futuro, un lavoro nel Nord del mondo. Le motivazioni di queste migrazioni contemporanee sono molte, legate a diverse sfere della vita di ogni persona che “decide” di migrare; sicuramente uno dei fattori più importanti nella scelta di lasciare la propria casa è la presenza di guerre o di regimi totalitari-polizieschi nei paesi di origine; non sono inoltre da sottovalutare le spinte legate alla globalizzazione economica e al crescente numero di persone che si ritrovano senza risorse e senza lavoro.
Per questo è necessario prefigurare un mondo aperto, senza muri e pregiudizi, dove donne e uomini siano pronti all’ibridazione culturale. Un mondo che al suo interno ospiti una miriade di culture differenti disposte al cambiamento, all’ascolto e l’incontro. Una comunità che non entri in contrasto con la libertà del singolo. Per accogliere e trovare una casa per tutta l’umanità dobbiamo impegnarci a costruire un mondo di eguali per diritti ma differenti per culture, una società di donne e uomini liberi di creare la loro specificità culturale. Un mondo dove non esistano lavoratori schiavizzati nei campi di pomodori o nei grandi cantieri edili, dove tutti i lavoratori godano degli stessi diritti, senza differenze di colore di pelle.
L’antropologia ci può aiutare a capire meglio il mondo che ci circonda perché è un sapere di frontiera, che sta sulla linea di incontro fra tradizioni intellettuali e modi di pensare tra culture diverse e che oltrepassa i confini culturali e statali, perché rifiuta le certezze del mondo di cui è espressione per aprirsi ad altri mondi, ad altre esperienze di significato, un sapere che non può mai stare fermo.
Per questo il compito dell’antropologia è quello di trovare il modo di costruire ponti tra le diverse culture, in aperta opposizione alla costruzione dei muri simbolici e reali che negli ultimi anni sono stati creati dal mondo politico e intellettuale. Come antropologi, sappiamo bene che la cultura non è mai una conclusione, ma una dinamica costante alla ricerca di domande inedite, di possibilità nuove, che non domina, ma si mette in relazione, che non saccheggia, ma scambia, e rispetta.