L’ora di ginnastica

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È uscito il numero 14 de «La ricerca». Racconta il mondo dello sport a scuola, tra pedagogia, scienza e cultura; il Dossier è dedicato allo sport come valore identitario, con approfondimenti sugli Stati Uniti e sulla Cina, e la sezione Scuola allo sport “competente”, inteso come espressività corporea, inclusione, e salute. Nell’editoriale, perché abbiamo deciso di affrontare questo argomento.

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Premessa: quando abbiamo deciso l’argomento di questo numero eravamo reduci dalla partita di qualificazione ai mondiali, quella che ci ha escluso dal prossimo campionato. Senza essere particolarmente appassionati di calcio, ci è sembrato però che l’universale cordoglio, misto a rabbia indignata e sarcasmo autoimmune, offrisse il destro per una riflessione sulla condizione generale dello sport nazionale, osservata dalla nostra particolare angolazione di produttori di libri scolastici.

Lungi dal pensare che la débâcle calcistica sia metafora di un generale dissesto dell’agonismo italico, ci siamo interrogati non tanto sullo sport quanto sull’idea che se ne ha: sul confronto trasformato in insulto razzista; la competizione alterata in imbroglio drogato; la fisicità tramutata in bullismo esclusivo.

Tutto questo ci ha riportati al nostro specifico ambito di interesse, la scuola, come al luogo che più di ogni altro può sintetizzare pulsioni, aspettative e pratiche che sono spesso specchio, a volte volàno, della società in cui viviamo. Parlare di “ginnastica” a scuola, però, non è facilissimo. Di cosa si tratta, a pensarci bene? Di muscoli e acrobazie; corse e pallonate; gioia spensierata e impegno concentrato? O di etica di squadra e morale decoubertiana, meglio se scolpiti nel vigore sudaticcio di pose policletee? O di tutte queste cose assieme, magari condite in salsa patriottarda? La mia personale esperienza della materia mi appare poveramente cristallizzata in una sequenza di istantanee.

L’ora di ginnastica era, per il me studente di quarant’anni fa, quella in cui preparavo la versione di greco per la lezione successiva, con la benevola distrazione del professore immerso nel gazzettame sportivo.

Un paio di decenni più tardi, a mia volta insegnante, il rapporto un po’ spocchioso con la materia si riassumeva, tutt’al più, nell’invito ad aprire le finestre, se la ventura (o il vicepreside) aveva posizionato le mie ore immediatamente a ridosso di quelle da cui i ragazzi tornavano paonazzi e odorosi di gioventù scatenata.

Oggi, che lavoro in una casa editrice che pubblica (anche) testi di “scienze motorie e sportive”, scopro l’universo affascinante di una disciplina che, lungi dal ridursi all’ora di svago per giovani troppo a lungo seduti, si rivela essere, probabilmente, uno dei momenti più seri e importanti dell’esperienza scolastica degli studenti.

È l’ora in cui sono loro, i ragazzi, a diventare strumenti del proprio apprendimento, con i corpi in evoluzione a volte sgraziati, spesso celati, raramente esibiti se non nelle forme virtuali e tragicomiche di selfie ossessivamente aggiustati. Quella in cui imparano a confrontarsi in modo civile e intelligente con gli altri, nelle forme di quel “conflitto ritualizzato” che è lo sport, singolo o di squadra. In cui acquisiscono lo spirito di gruppo tipicamente agonistico che include il rispetto e la tolleranza, la competizione meritocratica e pulita. In cui introiettano un’idea di disciplina che non è cieca obbedienza a regole arbitrarie, ma accettazione di tempi, modi e limiti condivisi. È il momento, non da ultimo, in cui la salute, la loro salute fisica e mentale, cessa di essere un’idea, un’aspirazione, un concetto, e diventa esperienza educativa, prassi quotidiana e riflessione concreta: il peso corporeo, l’abitudine alimentare, le posture sbagliate, il vizio di moda, la devianza autodistruttiva…

Sotto gli occhi e per le mani di una categoria di insegnanti spesso sottovalutata, passano i ragazzi con tutte le idiosincrasie di un’età che appare spensierata solo se osservata alla lente deformante del rimpianto. Che siano sguardi sapienti e mani preparate è il minimo augurio che possiamo rivolgere a noi stessi e ai nostri figli. E alla società in cui viviamo.


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Sandro Invidia

Direttore editoriale Loescher.

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