
Mio padre, inoltre – un uomo d’affari, che abitualmente si esprimeva in altro modo – era solito usarlo anche con i figli nelle rampogne più decisamente moralistiche, quelle nelle quali evocava la sua difficile giovinezza passata sotto le bombe della Seconda guerra mondiale comparandola con quella “scioperata” mia e dei miei fratelli. Così, quasi senza accorgermene, ho imparato il dialetto; dialetto che la frequentazione giovanile di anziani pescatori amici di famiglia, con i quali ho condiviso giornate intere sui fiumi o laghi lombardi, ha ulteriormente corroborato.
La grande letteratura dialettale milanese
Sì, parlo (bene, ahimè, molto meglio dell’Inglese…) e capisco il milanese da sempre. Ci sono voluti però gli anni dell’Università, e in particolare le lezioni in Statale di Gennaro Barbarisi e dei suoi assistenti, per farmi conoscere la grande letteratura dialettale milanese, quella seicentesca di Carlo Maria Maggi, quella settecentesca di Domenico Balestrieri e Carl’Antonio Tanzi, e quella – impareggiabile – di Carlo Porta, una delle figure maggiori del nostro Romanticismo (definizione, però, che gli sta stretta). Molto ci sarebbe da dire anche su Ottocento avanzato e Novecento: pensiamo infatti allo sperimentalismo scapigliato, in particolare a quello di Carlo Dossi, e poi a quello di Carlo Emilio Gadda; per tacere dell’opera di Delio Tessa o di quella del vivente Franco Loi.
Alessandro Garioni, erudito domenicano
Alessandro Garioni (1743-1818), però, non lo conoscevo affatto, e solo da poco so qualcosa di questo erudito milanese vissuto tra Settecento e Ottocento. Per questa scoperta devo ringraziare Francesco Sironi, un giovane e brillante studioso della “scuola milanese” dell’Università Statale, il quale mi ha generosamente donato copia di un recente suo lavoro dal titolo La Batracomiomachia di Alessandro Garioni. Greco, italiano e milanese alla fine del Settecento (Franco Angeli, Milano 2019).
Si tratta dell’edizione, da Sironi dottamente commentata e annotata, della Batracomiomachia pseudo-omerica, tradotta dal greco in milanese e pubblicata nel 1793 a Milano proprio dal suddetto Alessandro Garioni, un religioso domenicano di solida cultura classica, nonché abile versificatore in dialetto. Tanto abile da meritarsi amicizia e stima del grande Porta, che di lui disse ch’el Signor ne l’ha daa apposta / per conservà la gloria de Milan («che il Signore ci ha dato apposta / per conservare la gloria di Milano»); amicizia che Garioni ricambiò con trasporto, scrivendo al “Carlino” nientemeno dò voeult te me see car («due volte mi sei caro»). Insomma: Garioni non fu proprio un “Carneade” – manzonianamente parlando – ma un letterato consapevole dei propri mezzi, che riteneva che il milanese avesse la dignità per sostenere la traduzione di una poesia “alta” come quella omerica.
Dal greco al milanese: un’operazione classicistica
Il poemetto eroicomico greco che narra di un’improbabile lotta dei topi contro le rane, oggi considerato opera di età ellenistica o imperiale, è da lui attribuito senz’altro all’autore dell’Iliade e dell’Odissea. D’altra parte anche Giacomo Leopardi, che lo tradurrà qualche anno dopo aggiungendovi i famosi Paralipomeni (davvero significativo tanto interesse per un’opera cosiddetta minore…) non sembra avesse dubbi sulla paternità omerica.
Un’edizione settecentesca della Batracomiomachia
Un’edizione dei Paralipomeni di Leopardi
Ma come si pone Garioni davanti a un testo greco così particolare e composito? Secondo Francesco Sironi, Garioni traduttore «si pone arditamente come confluenza ideale tra Omero, Maggi e Balestrieri», e «il mezzo per compiere una simile operazione non fu tuttavia fornire a Meneghino [figura tradizionale della poesia milanese, N.d.A.] gli abiti di Omero, bensì, stando alle parole del Garioni, vestire il secondo con gli abiti del primo» (p. 37). Nessuna indulgenza, dunque, a un campanilistico uso del dialetto di suggestione pre-romantica, perché la sua è una traduzione fatta con animo da classicista, il quale vuole dare prova concreta delle presunte ascendenze elleniche del milanese; e che ritiene che Milano e il mondo greco non siano spiritualmente poi così lontani, se è vero che Gonfia-gote (Sgonfia-ganass), il re delle rane, sarebbe stato concepito – secondo il testo antico – “presso il fiume Eridano”, e cioè nientemeno che in riva al Po, perché suo padre Fanghino sul Po l’ha faa lott lott el spusalizi / con la regina diaqu Idromedusa («sul Po ha fatto quatto quatto lo sposalizio/ con la regina della acque Idromedusa») .
Ne consegue la necessità di un lavoro complesso, che vede il nostro erudito domenicano affiancare al testo greco una traduzione italiana – per così dire – “letterale”, ad uso dei non grecisti, e riservare invece maggiore libertà e creatività alla versione milanese in ottave (che egli definisce pertanto “parafrasi”) nella quale mescola al linguaggio popolare, con ardito sperimentalismo ma senza intenzioni parodistiche, tecnicismi ed espressioni letterarie.
Ritratto di Giuseppe Parini
Ritratto di Carlo Porta
Ritratto del Cardinale Angelo Maria Durini
La complessità di cui ho parlato emerge con chiarezza dalla fatica di Francesco Sironi, che a propria volta – oltre al commento e alle note cui già ho accennato – correda la pubblicazione di cui stiamo parlando con una traduzione della traduzione milanese, utilissima per chi non ha passato l’infanzia con due nonne come le mie…: di più, credo, non si potesse fare.
Garioni, Durini, Parini, Porta e… Manzoni
Una nota, per concludere. Garioni dedicò l’opera al cardinale Angelo Maria Durini (1725-1796), letterato e mecenate, per il quale Giuseppe Parini nel 1791, quando divenne Soprintendente delle Scuole pubbliche a Brera, scrisse un’ode dal titolo La gratitudine. In una sorta di “domino”, quindi, Garioni si connette, oltre che (direttamente) al Porta, anche (pur se indirettamente) a quel Parini che fu il massimo intellettuale della Milano in bilico tra Rivoluzione e Restaurazione. Una Milano che vide alternarsi al governo gli Asburgo e Napoleone, e che fu sede del miglior Neoclassicismo architettonico e fu nel contempo culla dei primi vagiti romantici italiani. Quando nel 1818 Garioni morì, Sironi immagina che in San Fedele, al suo funerale, fosse presente l’amico Carlo Porta e – perché no? – anche quel giovane Alessandro Manzoni cha abitava poco lontano da lì. Se così fosse stato, al “domino” che abbiamo ipotizzato avremmo aggiunto un’altra, prestigiosa, tessera.