Si legge con piacere l’ultimo romanzo di Umberto Eco, Numero Zero, Bompiani, Milano 2015; con un piacere mescolato però a nostalgia, inquietudine e preoccupazione.
L’Italia del 1992 che fa da sfondo alla trama, turbata dall’esplosione di “Mani Pulite”, dagli omicidi di Falcone e Borsellino, dalle costanti, sempre inquietanti (e neppure oggi del tutto finite…), rivelazioni sugli intrecci tra Gladio, la P2, il “golpe Borghese”, la Cia, il terrorismo (etc.), è infatti da un lato molto lontana (23 anni sono un’eternità), dall’altro terribilmente vicina a quella odierna. E noi ultracinquantenni, rileggendo in filigrana quegli anni – al di là della nostalgia di luoghi e situazioni di allora (bellissimi gli scorci noir della “mia” Milano) – non possiamo non constatare con preoccupato disappunto come molti di quei mali cui si allude nel romanzo (corruzione, mafia, inquinamento dei servizi segreti, conflitti di interessi, servilismo della stampa, etc…) siano ancora parte della nostra vita di oggi, e si configurino anzi come una sorta di fil rouge del nostro Paese.
Ma ecco la trama. Un ricco imprenditore multitasking, il commendator Vimercate, vorrebbe pubblicare un quotidiano; forse (anzi, quasi certamente) è un giornale che non uscirà mai, ma la cui esistenza virtuale dovrebbe suscitare qualche timore e pertanto dargli ampia visibilità e accesso al “salotto buono” della Milano di allora. La gente all’inizio non sa che tendenze ha, poi noi gliele diciamo e loro si accorgono che le avevano. L’impresa è affidata a una redazione raccogliticcia, fatta di un direttore cinico e spregiudicato, il dottor Simei, e pochi altri collaboratori, tra i quali il dottor Colonna (la voce narrante), la giovane e carina Maia Fresia e Romano Braggadocio, allucinato esperto in complotti d’ogni genere.
Il numero zero cui si lavora (cioè quello di prova) dà la misura di cosa dovrebbe essere il giornale: pieno di informazioni riciclate, ricatti più o meno velati, oroscopi e necrologi, e del tutto privo di notizie fresche e incisive. Insomma, in un’Italia sotto attacco da parte della mafia e minata della corruzione i “pezzi forti” che il direttore ipotizza sono quelli di gossip o sulla prostituzione e la riapertura delle “case chiuse”. L’idea è infatti quella di assecondare (e consolidare) la mediocrità di un pubblico inerte e poco acculturato, anche perché – dice Simei – la gente all’inizio non sa che tendenze ha, poi noi gliele diciamo e loro si accorgono che le avevano. Frase eccezionale – a mio avviso – per la quale si meriterebbe una cattedra in un master in Scienza della Comunicazione!
L’intreccio scorre con sapiente costruzione (è Umberto Eco, bellezza!), con qualche intermezzo sentimentale e una robusta vena “gialla”, che mi impedisce di anticipare altro in questa sede: che il giornale non uscirà davvero, questo però lo posso confermare. E se devo comunque trovare una pecca in questo bel romanzo, questa sta nei racconti logorroici (troppo logorroici, anche per un fan di Eco come il sottoscritto) di Braggadocio sul destino del Duce, fuggito in Argentina (quello di Piazza Loreto era solo un sosia!) e pertanto coinvolto anch’egli nei misteri dell’Italia repubblicana.
Come vedete, ho finora omesso di dire che il titolo del quotidiano in gestazione è Domani. Niente di troppo originale, si obietterà, ma per chi scrive si tratta di un titolo che suscita qualche ricordo personale. Infatti nel 2002 uscì a Monza un settimanale di orientamento progressista intitolato – appunto – Domani, al quale ho collaborato come recensore di libri e mostre. Domani aveva come mission quella di allontanare la stampa locale dalla cronaca minuta, per sensibilizzare la pubblica opinione su questioni politiche e sociali di più ampio respiro. Durò poco (lo si poteva ipotizzare, dato il cupo pessimismo che ispiravano i suoi articoli) e non riuscì affatto a “guidare” (come auspica il nostro Simei) le tendenze dei suoi potenziali lettori, che gli preferirono più rassicuranti e tradizionali “fogli” zeppi di necrologi, notizie di cronaca e segnalazioni di più o meno illustri anniversari o compleanni: in fondo – ricatti a parte – proprio il tipo di stampa che piaceva al tandem Vimercate-Simei. Insomma, il “vero” Domani (chissà se Eco ne ha mai visto una copia?) venne rifiutato da un pubblico che avrebbe forse voluto un Domani più simile a quello fittizio… Ma qui mi fermo, per evitare di passare dalla brillante prosa di Eco a quella contorta (talora troppo) di Pirandello; e chiudo non senza suggerire con convinzione la lettura del romanzo, le cui amare riflessioni finali sugli atavici mali d’Italia ce la fanno davvero percepire – e poteva forse essere altrimenti? – come “opera aperta”.
Eco docet, dunque, anche in questo.