Si tratta di un progetto itinerante – possibile grazie a Pan Art Connections – che ha già avuto quattro tappe americane: nel Missouri, a New York, in Florida e in Pennsylvania; nella “versione monzese” è prodotto da General Service and Security, GCR e Saga MDS in collaborazione con il Consorzio Villa Reale e Parco di Monza. La Direzione Artistica e di Produzione è affidata a Beside Studio.
Una vita breve, una grande fama
Devo dire che l’ora di coda fatta al freddo per entrare, in mezzo a visitatori di ogni età (tra in quali molti giovani, e moltissimi bambini) è stata per me una piacevole sorpresa. Sono infatti davvero contento di constatare che Keith Haring (1958-1990), nonostante la sua morte precoce per AIDS gli abbia consentito solo un breve (anche se intensissimo) percorso artistico, susciti così tanto interesse nel pubblico italiano contemporaneo. D’altronde, come potrebbe essere diversamente?
Creatività disinteressata e impegno sociale, genialità artistica e marketing selvaggio, frequentazione di gallerie e street art hanno “coabitato” in lui, che – degno amico e per certi versi erede di Andy Warhol – è diventato un’icona della controcultura degli anni Ottanta. E anche chi non ne ha mai sentito parlare, di certo ha visto (magari in qualche gadget vintage) quei Radiant babies (bambini che irradiano) e quei Barkings dogs (cani che latrano) che erano allora divenuti in breve tempo il suo marchio di fabbrica. E che sono simboli senza tempo – forse addirittura mutuati dalla passione di Haring per i geroglifici egizi – di vita e di morte, che l’artista ha sovente proposto a colori accesissimi. Chi come me negli anni Ottanta aveva vent’anni o poco più li aveva perennemente stampati sulle t-shirt oppure raffigurati sugli Swatch: ma questo è un vero e proprio Amarcord, e pertanto è bene che finisca presto per evitare di cadere in eccessi nostalgici…
Il percorso della mostra attuale
Veniamo dunque alla mostra. A Monza si possono ammirare oltre cento opere del Nostro, provenienti da una collezione privata: si tratta per lo più di litografie, serigrafie, disegni su carta e manifesti. Esse sono proposte all’interno di nove sezioni (in realtà tra loro in costante osmosi cronologica e concettuale), la prima delle quali è intitolata “Iconografia”, perché in essa si racconta di come Haring si sia appassionato allo studio dei simboli dando vita a quel lessico visivo del quale già si diceva: cani che abbaiano, bambini radiosi, volti sorridenti, uomini segnati, figure danzanti, folle pulsanti, televisori incandescenti e UFO che si spengono.
Si passa poi a raccontare gli inizi della sua attività e la vita nella città di New York, dove Haring si trasferisce dalla Pennsylvania nel 1978 per studiare alla School of Visual Arts, per giungere poi alla sezione dedicate alla “Giustizia sociale”, dove è esposta l’opera anti-apartheid Untitled (Apartheid), un dipinto a due pannelli che raffigura una grande figura nera che lotta per liberarsi dal cappio dell’oppressore bianco. Altra sala è dedicata al lavoro fatto con i giovani, con un gruppo di undici incisioni che rappresentano lo sforzo congiunto di Haring e di Sean Kalish, un bambino delle elementari che frequentava il Pop Shop (cioè il “negozio” di Haring), il quale mostrava un talento precoce il disegno.
Una riflessione a parte merita la Medusa Head, la più grande stampa mai realizzata da Haring, lunga più di due metri e alta quasi un metro e mezzo, creata in collaborazione con il tipografo danese Borch Jensen. Si tratta di una rivisitazione del mito greco della terribile Medusa, che pietrificava e uccideva chi la guardava negli occhi: per l’artista era simbolo di quell’AIDS che stava contagiando molti della sua generazione e che di lì a poco avrebbe colpito anche lui. Per noi tutti, oggi, appare come un’opera profetica; per me – che sono un classicista – dimostra una volta di più la dimensione universale ed eterna di quella mitologia classica che il grande Marcel Detienne ebbe a definire non a torto la “scatola nera” dell’umanità. Perché lì dentro c’era già tutto, o quasi.