«La fine della scienza antica si pone a volte nel 415, anno in cui la figlia di Teone, Ipazia, anche lei matematica (aveva scritto commenti ad Apollonio, Tolomeo e Diofanto), fu linciata ad Alessandria da una folla di cristiani fanatici per motivi religiosi». Così afferma Lucio Russo1, forse il maggiore studioso contemporaneo di scienza antica. È però vero che di Ipazia sappiamo molto poco, non solo perché le sue opere sono andate perdute, ma anche perché le testimonianze a lei relative nelle fonti – pur se esistenti – sono certamente inferiori al prestigio che dovette avere nell’Alessandria del suo tempo. Qui, infatti, praticò la matematica e l’astronomia, e insegnò la filosofia all’interno del Museo, guadagnandosi – lei, pagana di simpatie neoplatoniche – la stima di anche di ebrei o di cristiani come il prefetto della città Oreste, del quale fu fidata consigliera. La rivalità tra quest’ultimo e il vescovo Cirillo, complici gli editti imperiali – a principiare da quello di Teodosio del 380 d.C. – che mettevano fuorilegge il paganesimo, creò il clima di intolleranza che portò alla sua uccisione da parte di una setta di “ultrà” religiosi, i monaci paralabani. Ma Ipazia non fu solo assassinata, bensì lapidata, fatta a pezzi e bruciata, come per occultarne per sempre la memoria: più che un omicidio fu una sorta di sacrificio.
Ma cosa potrebbe dire di Ipazia scienziata, antesignana dello STEM al femminile, un umanista come me? Pressoché nulla, se è vero che si occupò di complesse questioni matematiche, geometriche, e anche astronomiche, tanto che col suo nome sono stati modernamente chiamati alcuni corpi celesti (un asteroide e un cratere lunare). Posso però provare a dare qualche suggerimento per raccontarla in classe.
Realtà storica e plurisecolare fortuna
Ritengo utile partire da una lettura che inquadra bene Ipazia nel contesto del suo tempo, muovendo dalle fonti antiche che la menzionano, ma che parimenti indaga sulla sua plurisecolare fortuna. Si tratta di un saggio di Silvia Ronchey2, esperta filologa e valente bizantinista. L’autrice ci conferma che non sappiamo molto di lei, ma sostiene che la maggior parte degli autori antichi come Socrate Scolastico, Filostorgio e Damascio (nella Biblioteca di Fozio), Esichio (nel Lessico di Suida) etc. e – in generale – tutta la cultura bizantina imputano la responsabilità, diretta o indiretta, del suo assassinio al vescovo Cirillo; e anche chi lo difende esaltandolo per avere eliminato una sorta di strega incantatrice (come fa il vescovo Giovanni di Nikiu), agli occhi di noi moderni sembra rafforzare la sua colpevolezza.
Davvero straordinario è inoltre il percorso temporale del mito (talora deformato) di Ipazia, che è divenuta icona antipapista per riformatori e anglicani, quindi “patrona” dell’Illuminismo, ma è stata anche – in qualche caso – cristianizzata (come nel poema Ipazia di Diodata Saluzzo, del 1827) e perfino sovrapposta alla martire Caterina d’Alessandria.
Di particolare rilievo la sua presenza nella voce “Eclettismo” dell’Encyclopédie, a firma nientemeno che di Diderot (che consultò il lessico bizantino di Suida), per il quale Ipazia è «l’orgoglio del suo sesso, lo stupore del nostro», in quanto racchiude in sé «tutte le conoscenze accessibili allo spirito umano»; infatti «fu proprio il prestigio di cui godeva presso i cittadini a perdere Ipazia», e a scatenare in Cirillo «l’invidia per la sua straordinaria sapienza». Ne nasce così una sorta di icona laica, di martire della ragione, venerata in ambienti massonici e come tale consacrata anche da Edward Gibbon nel suo Declino e caduta dell’impero romano (1776-1789).
È dunque sempre lì – alla contesa tra Ipazia e Cirillo e alle colpe di quest’ultimo – che si torna, e Silvia Ronchey lo fa spesso (invero con grande equilibrio e oggettività) nel suo libro anche sulla scorta degli studi di Luciano Canfora, il quale ha comunque scritto che negare la responsabilità del vescovo nel delitto «è come ostinarsi a sostenere che Mussolini fu estraneo all’uccisione di Matteotti». Di Canfora segnalo pertanto sia il brillante capitolo di un suo volume sui filosofi greci, sia un lavoro successivo, nel quale polemizza con alcune troppo “acrobatiche” difese di San Cirillo da parte della storiografia cattolica anche recente3.
Dramma e romanzo
Volendo parlare della trasformazione della storia di Ipazia in fiction contemporanee è impossibile non iniziare dalla pièce teatrale intitolata Libro di Ipazia (1978), di Mario Luzi4, uno dei protagonisti della poesia novecentesca italiana. Il testo, sulla scia del teatro storico manzoniano e in parallelo a quelli altrettanto “impegnati” di Pasolini e Testori, si incentra soprattutto sul rapporto tra la filosofa e il suo discepolo prediletto, Sinesio, divenuto vescovo di Cirene. L’Ipazia di Luzi ha sì i tratti di quella storica che l’autore desume dai testi conservati di Sinesio, ma si ammanta anche del vitalismo salvifico della Beatrice dantesca, poiché «Ipazia è la forza che accelera il moto / Ipazia è una forza non consumata, / un dente non eroso dall’attrito».
Questa figura, inoltre, si sovrappone probabilmente anche alla personalità di Cristina Campo (1923-1977), letterata e grande amica del poeta, che era da poco prematuramente scomparsa. Ciò porterebbe a fare di Sinesio una sorta di alter ego dell’autore, che “prolunga” la vita di costui – era in realtà morto nel 413 d.C. – per farlo assistere all’assassinio della sua maestra, così descritto sulla scorta del racconto di Socrate Scolastico: «Ebbene, parlava nell’agorà a molta gente. / Parlava di Dio presente e l’ascoltavano in silenzio, / con stupore seguaci ed avversari. / Ma irruppe un’orda fanatica, / mani e piedi le si avventarono contro, / le stracciarono le vesti e le carni, / la spinsero nella chiesa di Cristo, / e lì la finirono. / Agonizzò sul pavimento del tempio. / E poi fecero a brani quelle membra».
Una donna uccisa in chiesa quasi fosse lei, pagana, il Cristo: traspare da queste parole il doloroso sgomento del cattolico Luzi, autore di un dramma intenso e profondo, secondo la studiosa Rosanna Pozzi «privo di finalità d’intrattenimento di un pubblico borghese, ma volto a interrogare il lettore e lo spettatore su tematiche attuali e scomode, quali la tolleranza, l’accoglienza del diverso, il rispetto della libertà di pensiero, di credo religioso e di parola, in opposizione alla violenza ideologica e religiosa, contro l’imposizione di un pensiero unico di qualsiasi tipo o provenienza»5.
Ipazia e Sinesio, la filosofa e scienziata “pagana” e l’allievo devotissimo diventato vescovo, sono tra i protagonisti del bel romanzo di Maria Moneti Codignola, Ipazia muore6. L’autrice, che è stata accademica e studiosa di filosofia, ci propone un ritratto della protagonista che sintetizza con equilibrio realtà storica (molta) ed elemento romanzesco; senza dimenticare alcuni aspetti più propriamente scientifici del suo operato, come «l’astrolabio che sta costruendo, e che considera come una specie di creatura, una sorta di figlio alla cui esistenza ha lavorato tanto tempo, anche assieme a suo padre, è il suo orgoglio e il suo pieno appagamento di donna» (p. 54). Il titolo dell’opera non deve ingannare, perché se ovviamente termina con la morte di Ipazia, prima vi è descritta molta “vita”: quella di lei, ovviamente, e della sua particolare famiglia (non voglio “spoilerare” nulla in proposito), ma soprattutto della turbolenta Alessandria di quegli anni.
Il volto di Ipazia
A proposito di Alessandria: era un crogiuolo di etnie, e non sappiamo se Ipazia fosse scura, come le donne dei ritratti del Fayyum, oppure fosse donna «dalle bianche braccia», come dicevano i poeti greci antichi delle loro dee. Quest’ultima opzione è quella prevalsa nei due esempi di iconografia da me trascelti, e cioè il dipinto Ipazia (1885) del pittore inglese Charles William Mitchell, conservato alla Laing Art Gallery di Newcastle, e il film Agorà (2009) del regista spagnolo Alejandro Amenábar.
Mitchell – che si ispira al feuiletton Hypatia (1854) di Charles Kinsley – ci mostra la filosofa davanti a un altare paelocristiano prima dell’assassinio, con i lunghi capelli a coprire le nudità; i suoi tratti somatici sono quelli di ispirazione preraffaellita, tipici dell’età vittoriana. Forse non è un capolavoro, ma è un dipinto di sicuro effetto.
Più o meno lo stesso giudizio si può formulare sul film appena citato, invero non troppo apprezzato dalla critica, che gli imputa le pecche tradizionali del genere peplum: inesattezze (Ipazia che anticipa il sistema eliocentrico), sentimentalismo (Oreste, e non solo lui, è innamorato della filosofa), spettacolarismo (bellezza “eccessiva” dell’attrice Rachel Weisz), moralismo (manichea distinzione tra “buoni” e “cattivi”). Non ricordo però un colossal sull’antichità che non abbia fatto storcere il naso a storici o critici, quando non ad entrambi, pertanto posso liberamente confessare che a me la pellicola non è dispiaciuta e la ritengo adatta da mostrare agli studenti; da allora, tra l’altro, per me Ipazia è quella (cioè Rachel Weisz) e basta, così come gli attori Irene Papas e Bekim Fehmiu dell’Odissea di Franco Rossi (1968) sono stati e sempre saranno, per me, Penelope e Ulisse.
Da Ipazia a Eufrosyne: due epitaffi
Mi si perdonerà se corredo le mie riflessioni con il riferimento a un’iscrizione latina da me pubblicata molti anni fa7. È una lastrina funeraria di marmo (I sec. d.C.), trovata a Roma ma conservata a Corbetta (MI) nella collezione privata del grande intellettuale scapigliato Carlo Dossi. Il testo recita: Euphrosyne / pia / docta novem Musis / philosopha / v(ixit) ann(os) (viginti) [Eufrosyne, pia, istruita nelle “nove Muse”, filosofa. È vissuta vent’anni].
Nelle sue Note Azzurre (5750) Dossi ipotizzava che la nostra giovane schiava fosse un’istitutrice morta giovane, degna di diventare protagonista di un «poemetto archeologico», il cui canovaccio sarebbe stato: «V. EUFROSYNE PIA – dotta nelle nove muse e filosofa – La istitutrice liberta morta a 25 anni. I suoi patimenti ignorati. I bambini romani dovevano essere stati crudeli come i nostri, come tutti i bambini»8.
Inutile qui soffermarsi sulle imprecisioni del Dossi (liberta e non serva, 25 anni e non 20); varrà invece la pena di ricordare che questa è secondo l’Oxford Latin Dictionary (p. 1148) l’unica attestazione epigrafica del termine femminile philosopha, rara anche nelle fonti letterarie. Qual è il suo significato? Una vera pratica della filosofia, o un appellativo scherzoso dato alla giovane serva? E la menzione dell’essere docta novem Musis è iperbolica, oppure segnala un reale eclettismo culturale? Non dimentichiamoci, infatti, che tra le nove Muse c’è pure Urania, patrona dell’astronomia, che potrebbe avvicinare la nostra Eufrosyne a Ipazia: ma, ovviamente la mia è poco più di una suggestione! Certamente il nostro testo è assai meno raffinato dell’epigramma attribuito a Pallada conservato nell’Antologia Palatina (IX, 400) che fu forse l’epitaffio funebre di Ipazia, e cioè: «Quando ti vedo mi inchino a te e al tuo sapere e guardo la Casa astrale della Vergine: perché i tuoi atti si segnano in cielo Ipazia venerata, perfezione di ogni discorso, stella purissima della filosofia».
Eppure mi piace credere, immaginando un anacronistico incontro tra le due, che la “grande” Ipazia avrebbe incoraggiato gli studi della “piccola” Eufrosyne, sulla scorta delle parole che le attribuisce Maria Moneti Codignola: «Ci sono grandi filosofi e grandi saggi anche tra gli schiavi come, ovviamente, tra le donne» (p. 80). E mi piace inoltre pensare che se davvero Eufrosyne praticò filosofia e saggezza, la sua schiavitù sia stata solo giuridica, e non intellettuale. I veri, unici, schiavi menzionati in questo mio breve saggio sarebbero allora i fanatici, prigionieri dell’intolleranza, che vollero spegnere la voce della filosofa di Alessandria: il plurisecolare mito di Ipazia, del quale si è parlato prima, documenta però il loro fallimento.
NOTE
- L. Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli, Milano 2017, decima edizione, p. 30.
- S. Ronchey, Ipazia. La vera storia. Vita della scandalosa filosofa greca, vittima dell’intolleranza cristiana, Rizzoli, Milano 2010. Per i riferimenti alle fonti antiche (compreso l’epigramma di Pallada), e alla voce dell’Encyclopédie che citerò infra rimando al ricchissimo apparato di documentazione ragionata e bibliografia (pp. 168-279).
- L. Canfora, Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, Sellerio, Palermo 2000 (il capitolo su Ipazia è alle pp.196-203); Id., Cirillo e la storiografia cattolica, in “Anabases” 12 (2010), p. 93-102; la citazione nel testo è a p. 100, nota 17. Sempre in relazione alla colpevolezza di Cirillo, trovo appropriata l’espressione «istigazione a delinquere» usata da I. Valleyo, Papyrus. L’infinito in un giunco, Bompiani, Milano 2021, che alle pp. 277-284 dà un sintetico ma assai vivace quadro dei contrasti religiosi e culturali dell’Alessandria del tempo.
- Ho consultato M. Luzi, Il libro di Ipazia, BUR, Milano 1980.
- R. Pozzi, Dalla storia alla scena: il Libro di Ipazia di Mario Luzi, in AAVV, La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena, Adi Editore, Roma 2014, pp. 1-17. La citazione è a p. 4.
- M. Moneti Codignola, Ipazia muore, La tartaruga editore, Milano 2010. Un altro recente romanzo storico di A. Petta e A. Colavito, Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo, La lepre edizioni, Roma 2009, affida invece le vicende della protagonista alla voce di Shalim, allievo immaginario che eccelle nelle scienze. A una prima parte “biografica”, ne segue una più decisamente scientifico-filosofica.
- CIL VI, 33898 = M. Reali, La collezione epigrafica di Carlo Alberto Pisani Dossi: le iscrizioni della Villa Pisani Dossi a Corbetta, in “Epigraphica”, LVI (1994), pp. 116-117.
- C. Dossi, Note azzurre, a cura di Dante Isella, Adelphi, Milano 1988, p. 903.