Insegnare democrazia. Odiare solo gli indifferenti

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A cento anni dai Fasci di combattimento, ma anche dalla nascita di Primo Levi, è urgente il richiamo a una pedagogia della partecipazione che risponda, attraverso la scuola, alla necessità di una solida educazione democratica: ascoltando la voce dei Classici, da Dante a Leopardi, da Manzoni a Calvino, passando per la lezione, umanissima e viva, di Gramsci e Gobetti. L’articolo di apertura del nuovo numero de «La ricerca», il 17: “Meditate che questo è stato”.
Installazione al Memoriale della Shoah di Milano.

Un sardo ventenne piccolo e malformato, che vantava lontane origini albanesi («anche Crispi», diceva, «fu educato in un collegio in Albania»), grazie al suo genio e alla sua tenacia, nel 1911 vinse una borsa di studio bandita dal Collegio Carlo Alberto di Torino per consentire a 39 studenti senza mezzi usciti dai Licei del Regno di studiare all’Università di Torino. Con 55 lire in tasca, a cui aggiunse le altre modestissime 70 della borsa mensile, Antonio Gramsci riuscì così a fuggire dal paesello di Ales, in provincia di Oristano, e, battendo i denti dal freddo in misere camere d’affitto, a seguire le lezioni di economisti quali Achille Loria e Luigi Einaudi e del grande storico dell’arte Pietro Toesca, fino a diventare un leader che cambierà il modo di pensare di intere generazioni. In quella città che per un soffio non era riuscita a diventare stabile capitale d’Italia andava sbocciando un orizzonte di alto profilo, politico, ma soprattutto culturale, fra il socialismo di Gramsci e il pensiero liberale di Piero Gobetti.

Gobetti, che aveva dieci anni meno di Gramsci (era del 1901, l’altro del 1891), fu l’acuto, precocissimo maestro di quello che lui stesso definiva «liberalismo rivoluzionario». Ricorrendo a categorie molto vicine a quelle di Gramsci, su un numero del 1919 tutto dedicato all’istruzione classica della sua rivista «Energie Nove» (proprio così, alla toscana, senza dittongo), il diciottenne Gobetti tratteggiò uno splendido progetto di pedagogia della partecipazione in contrasto alla palude dell’indifferenza, riconoscendo in essa il vero male, la malattia da curare per tornare alla pienezza della civiltà. Erano gli anni spaventosi successivi alla fine di un terrificante conflitto mondiale, con la frustrazione civile-politica e il ritorno a casa in povertà di reduci livorosi, rivendicativi verso la «vittoria mutilata» e contagiati da un diffuso, confuso desiderio di riscatto identitario.

Terribile centenario, quello che abbiamo commemorato nel 2019! Nei giorni stessi in cui ricordiamo il secolo dalla nascita di Primo Levi e l’uscita del magnifico articolo di Piero Gobetti, non possiamo non portare anche il lutto per la memoria ferita dai cent’anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento presso il Piazzale Sansepolcro di Milano, con cui mise le prime solide radici la barbarie della dittatura che sarebbe esplosa tre anni più tardi, nella marcia su Roma. In quel momento drammatico si perse una bussola collettiva saldamente orientata verso i fondamenti dell’umanità e dell’umanesimo, cioè della democrazia come dispositivo che garantisce uguaglianza e libertà a uomini adulti, maturi, capaci di esprimere ciascuno la propria identità in equilibrio con gli altri, diventando tutti diversi nella consapevolezza di essere tutti parimenti uomini. E fu allora che avvenne l’irreparabile.

Sappiamo fin troppo bene quali furono i risultati: discriminazioni di pensiero e di razza, una nuova guerra ancora più devastante della prima, l’orrore dell’Olocausto. Esattamente come nel tempo nostro impoverito e ingeneroso, in quel doloroso inizio di Novecento vinsero qualunquismo e populismo, irresponsabile sovranismo rivendicativo contro l’Europa, xenofobia e risentimenti “di pancia” più che “di testa”. Non vinse il Male diabolico, astratto, metafisico, ma quello sbriciolato nella mediocre vita di ogni giorno. Vinse la banalità del male, come propose molto più tardi, nel 1963, la filosofa Hannah Arendt in un libro importante per quanto discutibile sulle responsabilità comuni del nazismo, macchina perversa di manipolazione delle masse, burocrazia della disuguaglianza che genera una politica dello sterminio eletta a sistema di dominio totalitario. E più di recente ancora (1974) gli agghiaccianti esperimenti americani di Stanley Milgram sull’obbedienza cieca all’autorità hanno dimostrato i rischi acquattati nelle pieghe di una democrazia non abbastanza maturata “dal di dentro”.

Torniamo all’articolo del 1919 su «Energie Nove» di Piero Gobetti, padre dell’antifascismo intransigente e attento osservatore della crisi italiana ed europea del primo dopoguerra. Vi si tratteggiava la necessità di riprendere e mantenere sani e dinamici, entro una scuola che sappia farsi «viva e reale», i contatti con le radici profonde, davvero antropologiche, di una civiltà: insomma l’idea di una tradizione da custodire accesa come un fuoco, e non da conservare feticisticamente come cenere estinta (ricorro a una splendida immagine di Gustav Mahler). Gobetti coglieva il segno, per allora e per oggi: è dalla scuola che deve sbocciare, dopo lenta e profonda maturazione, un’etica della responsabilità individuale e collettiva, un’antropologia della comunità, della condivisione, dello scambio e del dono. Ed è l’attuale crisi della scuola come focolare acceso di formazione democratica, che non consente più di affrontare con strumenti ampi ed efficaci la vasta crisi del nostro Paese e dell’Europa: la quale prima ancora di essere economica e politica è una crisi culturale. Non sarà grazie a “manovre” economiche che si uscirà dal guado: ma solo inventando la differenza, trovando il coraggio e la forza per “saltare oltre”, per immaginare diversamente un futuro comune. Non basteranno le “riforme”: occorre Utopia.

Un ruolo decisivo, in questa paziente edificazione utopistica di un mondo diverso, può averlo proprio la Letteratura, «funzione esistenziale, ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere», che deve delineare «degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura avrà una funzione» (I. Calvino, Lezioni americane, 1988). Letteratura visione del mondo: orizzonte in cui si raccolgono e si fondono tanti sguardi sulla realtà, tanti punti di vista, i quali aiutano a capire senza riserve che cosa significa la parola democrazia. Forse non si realizzerà mai il sogno del principe Mýškin, nell’Idiota di Dostojevskij: «la Bellezza salverà il mondo». La Bellezza, è vero, non riuscirà mai a “salvare il mondo”, ma potrà trasformare in profondo, a uno a uno, gli esseri umani tornati a vivere nella pienezza dell’umanità, e quindi divenuti capaci di “cambiarlo, il mondo”.

Nel suo articolo Piero Gobetti offriva un segnavia che mi sembra ancora validissimo per ritrovare un percorso di senso, un orizzonte di significato a una civiltà: affrontare i grandi problemi dell’uomo non solo sul piano economico, sociale, politico, ma in primo luogo culturale, prendendo le distanze dall’assedio del quotidiano, dei problemi “da risolvere subito”, nell’urgenza dell’immediato, dell’“adesso” a cui si riduce il tempo, asfittico, nelle età di crisi. Occorre tornare ad ascoltare la voce dei grandi Classici per porsi faccia a faccia davanti ai problemi della vita e del mondo, diceva Gobetti, «affrontando con Dante il problema di Dio, dell’amore, dell’oltretomba, con Vico i più difficili problemi storiografici, con Manzoni la necessità della vita morale semplice e ben temperata». Gobetti concludeva che proprio per realizzare una «vita morale semplice e ben temperata», fondamento di ogni comunità politica e culturale, di ogni civiltà, è necessario che gli adulti siano fin da ragazzi educati a partecipare, cioè a prender parte alla vita: «Per essere maestri davvero, dobbiamo seguire il lavoro dei giovani e curarlo. Gli uomini si interessano solo a quello a cui partecipano. Dimenticando ciò, continuando nella via comune, renderemo più deserte le nostre aule e inutili le scuole».

Dar voce al Classico, agli autori-eroi culturali che fondano e guidano una civiltà offrendole alti modelli antropologici e civili, senza i quali un popolo non “vive”, ma “sopravvive”, ridotto alla pura biologia. Prender parte alla vita, superare l’indifferenza che cancella ogni identità, mentre la democrazia, essendo appunto compartecipazione, permette di avere un’identità dinamica, individuale e collettiva. Chi dimenticherà mai l’esclamazione disperata di Primo Levi, in Se questo è un uomo, quando, schiacciato dal gelo del Lager, senza un libro, vestito di stracci schifosi, cerca invano nella rete sfilacciata della memoria un verso, un solo verso della Commedia: «darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna” col finale». La zuppa di cavolo nero farà arrivare vivo all’indomani un corpo stremato, ridotto al bios. Ma l’umanità, l’essenziale dell’esistenza, prende dimora nel fondamento condiviso, nel senso di essere uomini. Levi recita quasi in trance i celebri versi dell’Ulisse dantesco: «“Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono». È qui, nella situazione estrema di Auschwitz, che l’Uomo «dimentica chi è e dove’è», e contemporaneamente riesce a vedere, «nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere qui»: qui nel Lager, qui nel mondo, qui nella vita.

Il binario 21 al Memoriale della Shoah a Milano

La voce dei Classici può tornare a diventare sinfonia, armonia costruita con l’espressione corale di idee e progetti formati insieme: «Diverse voci fanno dolci note» (Paradiso, VI 124). La voce di Dante, di Leopardi, di Manzoni, di Pasolini, di Calvino. Come ha scritto Calvino stesso, tanti anni dopo Gobetti, «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. […] I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume). […] I classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani».

Chiudo tornando all’inizio, all’Antonio Gramsci che vive fra stenti da sottoproletario nella stessa Torino grigia e protoindustriale del borghese Gobetti. Nel 1917, due anni prima che esca l’articolo di quest’ultimo sulla necessità che la scuola educhi a risolvere i problemi della vita ripensando ai Classici, Gramsci pubblica sulla sua rivista «La città futura» una magnifica pagina intitolata Contro gli indifferenti, in cui la stessa idea di Gobetti vibra di intensità morale e civile, pedagogica e politica insieme. Il grande nemico da combattere e sconfiggere è l’indifferenza, quella stessa che un altro diciottenne, Alberto Moravia, nel suo romanzo del 1929 eleggerà a specchio infranto di un mondo ormai appiattito nel conformismo cinico di chi «non prende parte» perché è già costretto ad essere «parte di un tutto» totalitario e senza differenze interne, senza più vita che non sia il bios ammutolito, inerte. La pagina di Gramsci è ancora una grande lezione di etica democratica:

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti. […] L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. […] Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. […] Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? […] Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti. 

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Corrado Bologna

è stato Professore Ordinario di Letterature romanze medioevali e moderne presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ora insegna Letterature comparate.

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