In questi mesi di celebrazioni per il centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale mi è capitato di sentire una serie di discorsi retorici, che pure condannavano la retorica. “Che bello un mondo senza confini!”, ha vagheggiato un sindaco prima di un concerto del coro degli Alpini. Stesso sindaco che, dopo pochi minuti, ha liquidato Gabriele d’Annunzio come uno “squilibrato”.
Eppure a me, i confini, piacciono. Ho ripensato ai miei viaggi in famiglia da ragazzina. Che emozione varcare il confine. Che bella la preparazione al viaggio in un altro Stato, con le carte geografiche e le guide da studiare, i documenti da preparare, le lire da cambiare. Stavamo andando in un paese diverso dal nostro, dove parlavano un’altra lingua, mangiavano cose diverse: un mondo che non conoscevo, tutto da scoprire. Mi piacciono persino, ancora oggi, i cartelli che indicano il passaggio da una regione all’altra sulle nostre autostrade.
È il confine che indica e stabilisce una diversità. L’inizio del libro ci conduce subito nel cuore del discorso: “Un’idea sciocca incanta l’Occidente: l’umanità, che sta andando male, andrà meglio senza frontiere”. Un mondo senza confini e senza conflitti, simile alla tunica senza cuciture di Cristo. L’Europa, continua Debray, “ha in sorte un massimo di diversità in un minimo di spazio”. E ancora: “Rinunciare a se stessi è uno sforzo piuttosto vano: per superarsi, è meglio cominciare ad accettarsi”.
Termine era la divinità dei confini adorata dai Romani, nel cui nome venivano piantati i cippi che segnavano i limiti dei poderi.Gli animali delimitano il proprio territorio seminando tracce olfattive; l’uomo ha bisogno di “fondare”: pianta insegne e innalza emblemi. Termine era la divinità dei confini adorata dai Romani, nel cui nome venivano piantati i cippi che segnavano i limiti dei poderi.
Come si porta ordine nel caos? Tracciando una linea, separando un dentro da un fuori. Anche nella Bibbia, così come nelle leggende fondatrici e nelle cosmogonie, incontriamo il momento della demarcazione di un confine: Dio separò la luce dalle tenebre, e le acque che sono sotto il firmamento, dalle acque che sono sopra il firmamento. E creò il cielo, il mare e la terra.
Il primo atto della fondazione di Roma è la delimitazione sacra, il pomerium tracciato da Romolo con un aratro. Il rex, autorità religiosa e politica, era incaricato di regere fines, tracciare la frontiera in linea retta, indicare lo spazio consacrato, delimitare l’interno e l’esterno. Nella cultura latina, i muri e le porte della città sono res sanctae. È affascinante questa panoramica che Debray traccia sul significato sacro dei confini e di come questo aspetto si ritrovi in epoche e luoghi diversissimi fra loro, dall’Ungheria comunista alla Grande Muraglia cinese, dalla Francia al mondo Giapponese.
Limen è la soglia e la barriera; Giano, dio del passaggio, ha due facce. Che senso può avere oggi, si chiede Debray, “sacralizzare […] quando tutto, persino la religione, sembra dissacrato? Beh, serve per mettere uno stock di memoria al riparo. Per salvaguardare l’eccezionalità di un luogo e, tramite esso, l’unicità di un popolo. Per infilare il cuneo dell’insostituibile nella società dell’intercambiabile, una forma senza tempo dentro un tempo volatile, qualcosa senza prezzo in un mondo dove tutto è merce”.
È sulla frontiera che si riconosce l’altro e se ne considera la pari dignità, è sulla frontiera che ci si incontra e si cerca l’equilibrio attraverso il rispetto, il negoziato e la mediazione.
“Africana bianca!”. Mi volto, il richiamo è per me. Giorno di mercato: due donne africane, sedute su un muretto con le loro collanine in vendita, mi guardano ridendo. Indico i miei capelli ricci con fare interrogativo, e rido anch’io. Qualcosa che unisce si trova sempre.
Régis Debray, Elogio delle frontiere, add editore, Torino 2012.