
Devo ammettere che le aspettative sono state pienamente rispettate, e che la loro visita ravvicinata ha ulteriormente accentuato la suggestione di quanto in questi storici edifici è contenuto, che consente di indagare su una sorta di continuità nella diversità – tecnica e ideologica – nell’approccio ai soggetti antichi, massime mitologici, da parte dei due artisti veneti. Da un lato, infatti, abbiamo la raffinata leggerezza della pittura di Giambattista Tiepolo (1696-1770), sublime espressione di quel Rococò che nel Settecento maturo lasciò il campo alla sobria eleganza del Neoclassicismo, movimento del quale lo scultore Antonio Canova (1757-1822) – nutrito dalle teorie di Winckelmann e Mengs e partecipe della temperie culturale illuminista – fu tra gli esponenti di maggior spicco a livello europeo.
Tiepolo a Villa Valmarana, Vicenza
A partire dal 1757, per volere di Giustino Valmarana, Giambattista Tiepolo, insieme con il figlio Giandomenico, affrescò le pareti del corpo centrale e della foresteria della Villa, situata alle porte della città di Vicenza. Di particolare effetto è la decorazione della palazzina principale, le cui sale sono – per così dire – tematiche. La prima, quella che vediamo appena entrati, è monopolizzata dalla grandiosa scena del sacrificio di Ifigenia, ispirata alle tragedie di Euripide, ai versi di Lucrezio, alle Metamorfosi ovidiane, ma anche a un celebre dipinto – ovviamente perduto – del pittore greco Timante (V-IV secolo a.C.) celebrato da numerose fonti classiche come capolavoro assoluto. Le altre mostrano invece episodi scelti dell’Iliade, dell’Eneide, dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme liberata. Si tratta di poemi epici, cavallereschi ed eroici, al centro delle quali ci sono figure di eroi che – per il tramite della loro virtù – vincono le difficoltà belliche e (cosa non meno ardua) superano anche le pene d’amore.
Il sacrificio di Ifigenia: tragico ma non troppo

Nell’impossibilità di una disamina completa degli affreschi, dedicherò due parole almeno a quello del sacrificio di Ifigenia, che trasforma la parete della villa in una sorta di palcoscenico teatrale. Un palcoscenico sopraelevato, delimitato da una serie di colonne ioniche che sembrano reggere il soffitto riccamente decorato, quasi fosse in competizione con quelli della villa che ne sono naturale prosecuzione. La scena del sacrificio di una vergine, condotta all’altare dal sacerdote Calcante, non può che avere toni patetici; eppure si tratta di un pathos controllato, per certi versi attenuato dalla nuvola rosea sulla sinistra che sta recando quella cerva che sostituirà all’ultimo Ifigenia. L’unico a non vedere la scena è il padre Agamennone che – come già nell’antico dipinto di Timante – si copre la vista per non assistere alla morte della figlia, da lui stesso decretata. La vedono invece altre figure al suo fianco, in vesti settecentesche, tra le quali forse lo stesso Valmarana committente dell’opera: è evidente, come già detto per i soffitti, la commistione tra realtà e fantasia, tra moderno e antico, tra tragicità e pacatezza. Noi, spettatori esterni, ci confondiamo così con gli spettatori interni alla scena, con un effetto illusionistico che ci fa catapultare per un attimo in quella Aulide nella quale l’evento mitologico si sta svolgendo.

Si respira, insomma, quell’atmosfera raffinata che troviamo nei coevi melodrammi di Pietro Metastasio, autore capace di stemperare, addolcire, anche i drammi più atroci; e di attribuire agli antichi eroi sospiri, inquietudini e qualche frivolezza propri del tempo suo. Ed è proprio alla sua Didone abbandonata (1724) che ho pensato guardando gli affreschi della sala dell’Eneide, nei quali la regina cartaginese ha un’eleganza degna di una sua omologa del XVIII secolo ed è seduta su un trono impreziosito da un broccato di magnifica fattura. Ma mi ero ripromesso di parlare solo di Ifigenia, e perciò ora taccio, se non per dire che proprio a Ifigenia in Aulide (1774) dedicò un’opera in tre atti in francese un altro dei protagonisti musicali di quest’epoca, e cioè il tedesco Christoph Willibald Gluck.
Il Museo-Gipsoteca di Antonio Canova, Possagno

Possagno è una sorta di santuario dell’opera di Antonio Canova, poiché qui, intorno alla sua casa natale, è sorto un museo straordinario che custodisce l’eredità artistica del celebre scultore. Il complesso è composto da diverse sezioni, tra le quali la porzione ottocentesca a pianta basilicale – costruita per volontà del fratellastro Giovanni Battista Sartori – e l’ala progettata dall’architetto Carlo Scarpa nel 1957, che valorizza le opere con un sapiente uso della luce. Si tratta, nel complesso, della gypsoteca più grande d’Europa, che contiene i gessi preparatori delle opere canoviane, che rappresentano il punto di partenza per le sculture in marmo che oggi si trovano nei più importanti musei del mondo. Molti di questi gessi sono caratterizzati dalla presenza delle repère, piccoli chiodini collocati in superficie, utili per un corretto trasferimento delle proporzioni sul marmo, e ciò contribuisce a farci penetrare nelle dinamiche del processo creativo del Maestro.
Un classicismo senza sconti

L’effetto di insieme, soprattutto nell’ala ottocentesca (di recente riaperta nella sua integrità) ma non solo, è sorprendente e per certi versi quasi soverchiante. Vedere a poca distanza tra loro le Grazie, Amore e Psiche, Ercole e Lica, Veneri di ogni tipo che sembrano dialogare con Paolina Borghese, il colosso di Napoleone o George Washington è davvero emozionante.

Non c’è più differenza tra ieri e oggi, tra storia e mitologia: ma se gli antichi eroi dipinti dal Tiepolo a Villa Valmarana rivestono – come già si è detto – i raffinati abiti del Settecento e talora sembrano gli invitati a una festa galante, qui la foggia di lineamenti, nudità o abiti classici accomuna tutti consegnandoli a una dimensione universale ed eterna, che – come scriveva Ugo Foscolo – «vince di mille secoli il silenzio». Ciò anche perché questi gessi esprimono già una perfezione che sarà poi ulteriormente migliorata (ma si può migliorare la perfezione?) dalla resa in marmo di questi modelli dalla sapiente mano scultorea di Canova.
Canova oltre la scultura

Una vera sorpresa, poi, ai piani superiori della dimora canoviana, la serie di tempere di argomento mitologico (soprattutto con scene di danza) che ci mostrano un inaspettato talento decorativo. Non si può dire la stessa cosa per molte delle tele ad olio qui appese, la cui qualità è davvero dispari rispetto alla restante produzione del “padrone di casa”; ma, si sa, «anche Omero sonnecchia» come dicevano gli antichi.

Ultima nota, su Possagno: a poca distanza dal Museo, ubicato su un’altura panoramica, si erge il cosiddetto Tempio Canoviano, dallo scultore ideato sul modello del Pantheon (ma con le colonne doriche del Partenone…) perché diventasse la Chiesa parrocchiale del suo paese natale. Esso fu consacrato solo nel 1832, dieci anni dopo la scomparsa del Canova, che dunque non poté vedere questo sontuoso edificio – ancora oggi attivo come chiesa – che ne conserva comunque le spoglie mortali.
I disastri della guerra
Tranquillizzo subito i lettori: non intendo parlare della omonima raccolta di incisioni di Goya (Los desastres de la guerra), ma ricordare il triste destino che ha accomunato nel Novecento i due edifici dei quali ho parlato. Infatti, durante la Prima guerra mondiale, nel 1917, una granata incendiaria danneggiò gravemente la gypsoteca di Possagno, mentre durante la Seconda guerra mondiale, nel 1944, fu la Villa Valmarana a essere colpita dalle bombe. Le immagini d’epoca che documentano tutto ciò sono davvero impressionanti e ci fanno riflettere – in questo tempo nel quale le guerre imperversano – sui danni che queste possono avere anche sul patrimonio culturale. Perché se è vero che la perdita di vite umane deve essere il primo pensiero (di gran lunga il primo…), non possiamo non pensare anche alla perdita di quella eredità materiale e spirituale che dovrebbe nutrire le future generazioni.
Negli ultimi anni la martoriata Ucraina ha consegnato parte del suo patrimonio artistico a istituzioni museali di vari Paesi europei, dopo che migliaia di oggetti sono stati rimossi – le notizie sono di fonte Unesco – dai Russi invasori dai musei di Kherson, Mariupol e di altre città occupate; i bombardamenti, inoltre, distruggono quotidianamente (anche) opere architettoniche, musei, biblioteche; per non parlare degli scavi archeologici abusivi in Crimea. Che dire poi delle moschee, dei monasteri, delle chiese bizantine, dei reperti archeologici distrutti dalle bombe israeliane nella Striscia di Gaza? E potrei andare avanti ancora.
La speranza è dunque che in questi luoghi (e ovviamente anche altrove) tra qualche anno si possano osservare, come ho fatto io a Vicenza e Possagno, solo le immagini di questa barbarie, in un contesto di ricostruzione (magari non quella ipotizzata per Gaza nel video di Trump!). Non nego, però, che il clima generale di questi giorni non dia troppo corso a questa aspettativa; ma forse anche Ifigenia, presso l’altare in Aulide, non sperava più di poter vivere e poi è arrivata Artemide con la sua cerva, con tanto di rosea nuvoletta…