«E se facessimo un numero contro il digitale?».
Siamo su un treno che sta per arrivare a destinazione: quanto tempo avrò per rispondere? Guardo l’ora. Sullo smartphone, ovviamente. L’orologio non lo porto da anni, sostituito all’inizio da una cipolla con tanto di catenella e poi dal primo cellulare. Intanto, fra la rotondità della cipolla e la spigolosità del telefono mobile, ho appreso che il tempo della lancetta è quello analogico, divisibile all’infinito in infinite parti, mentre il tempo del display è quello digitale, definito per sempre dall’inesorabile scatto tra un numero e il seguente. Dopo, certo, ho scoperto che il digitale è molto altro: una buona porzione di vita personale, fatta di posta, musica, foto, e una fetta fors’anche maggiore di vita professionale, laddove l’impegno sul digitale è ricerca sul prodotto, legge di mercato, disposizione ministeriale. È così che nella redazione dell’editore scolastico alle pile di bozze si sono affiancati CD e poi DVD e poi ancora eterei link che rimandano a impalpabili prodotti digitali. Oggetti immateriali che vivono su computer, LIM e tablet, ma che vengono strapazzati con la medesima acribia di lavorazione destinata alle sudate carte. Chiedendosi sempre se tutto funziona, se il prodotto finito sarà fruibile dall’utente, gradito all’insegnante e utile per lo studente.
Perché poi libri e strumenti educativi digitali finiscono tra le mani e sotto gli occhi degli studenti e da lì devono trasmettere qualcosa, si auspica molto, nella testa degli stessi. E allora, se tra un esercizio interattivo e l’altro ci fermiamo un momento, guardando anche ciò che succede oltre confine, bisognerà anzitutto verificare se l’uso didattico dei media digitali migliora i livelli di apprendimento. Ché questo è un punto cruciale della questione, tanto quanto è sfuggente e ancora poco misurato. Dobbiamo farlo per loro, per i “nativi digitali” – sempre che poi siano veramente tali, visto che non tutti la pensano così. Questa è filosofia, diranno alcuni. Se torniamo alla prassi dovremo allora indagare le difficoltà degli attori che si muovono sul palcoscenico dell’era scolastica digitale. Bisogna quindi sentire i pareri di genitori, insegnanti, formatori, pedagogisti, istituzioni e far parlare i dati e le cifre che tanta parte hanno quando si devono far quadrare i piani di innovazione con i budget. Se poi guardiamo anche oltre l’editoria scolastica, i numeri che parlano sono quelli sugli e-book e le voci da sentire sono quelle di chi i libri digitali li scrive e li pubblica.
Non lo facciamo per ribadire che i libri ci piacciono solo quando sentiamo l’odore della carta: non vogliamo sentirci dire che siamo roba da museo. Che poi, a ben vedere, il digitale è entrato pure nei musei. Perché l’evoluzione digital si occupa anche della conservazione dei saperi e dei documenti da trasmettere alle generazioni future: vale nelle biblioteche e negli archivi, anche qui non senza criticità. Del resto Robert Darnton, che dirige la National Digital Public Library (inaugurata nell’aprile di quest’anno e che oggi vanta 4,5 milioni di items digitali), ha fatto notare che la carta sopravvive per secoli, mentre il formato digitale deperisce e richiede elevati costi di manutenzione.
Come dire, c’è sempre l’altro lato della medaglia. E noi vogliamo vederlo. Senza partigianeria e opinioni precostituite, ma con curiosità e spirito critico vogliamo indagare i lati oscuri del digitale per far funzionare in maniera ottimale i lati luminosi, a vantaggio del maggior numero possibile dei tanti soggetti coinvolti nella rivoluzione scolastica digitale, in primis gli studenti. In questo senso bisogna fare una ricerca. Quindi sì, facciamo un numero contro il digitale. È ora.