In memoria di Paul Veyne, storico eclettico

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Lo studioso francese è scomparso lo scorso 29 settembre. Purtroppo non l’ho mai incontrato personalmente, ma i suoi volumi occupano stabilmente la mia libreria, e soprattutto la mia scrivania.

 

 

Un giorno o l’altro scriverò un articolo sui grandi Maestri che ho conosciuto nella mia vita: alcuni (in verità molti, sono un uomo fortunato…) di persona, assistendo alle loro lezioni o conversando con loro (qualche volta anche a pranzo o cena), altri invece per il tramite dei loro libri. Tra questi ultimi c’è Paul Veyne.

Il pane e il circo: un’opera innovativa

Posso dire di avere intessuto con Veyne un rapporto costante, fin dagli anni dell’Università, quando i miei docenti milanesi – in primis Ida Calabi Limentani – menzionavano con insistenza il suo (allora recente) volume Le Pain et le Cirque: sociologie historique d’un pluralisme politique, 1976 (tradotto in italiano da A. Sanfelice Di Monteforte e pubblicato dal Mulino nel 1984), un poderoso e innovativo saggio che intendeva leggere le dinamiche della politica romana attraverso i fenomeni del mecenatismo e dell’evergesia.
Si tratta ancora oggi di un libro fondamentale, che dimostrava come la storia delle istituzioni (tanto cara alla scuola tedesca) e quella della società (che ha visto a lungo primeggiare gli studiosi francesi, a principiare da quelli dell’école des Annales ai quali il Nostro fu molto vicino) potessero viaggiare in parallelo, magari accompagnate anche da quel pizzico di antropologia che Veyne mutuò dalla lunga amicizia con Michel Foucault. E che faceva vedere concretamente i risultati di altissimo livello che si possono ottenere dall’uso corretto e incrociato delle fonti letterarie, epigrafiche e archeologiche.

Paul Veyne

I suoi volumi, tra libreria e scrivania

Devo ammettere che non lessi subito Il pane e il circo, spaventato dalla sua mole, e che questo libro ha trovato posto nei miei scaffali solo molti anni dopo. Quando, non saprei dire con precisione: so solo che si contende il ripiano con La società romana (Laterza 1990 e ss edizioni, trad. C. De Nonno), La vita privata nell’impero romano (Laterza 1990 e ss edizioni, trad. M. Garin), L’impero greco-romano. Le radici del mondo globale (Rizzoli 2007 e ss edizioni, trad. S. Arena), oltre che con il celeberrimo I greci hanno creduto ai loro miti? (il Mulino, 1984 e ss edizioni, trad. C. Nasalli Rocca), quello sì comprato e letto ai tempi dell’università. Ovviamente non sono tutte le fatiche del Maestro, che anche in questi ultimi anni ha prodotto studi interessanti, come quelli su Costantino (che purtroppo non ho, ma posso rimediare) e sugli scavi di Palmira e Pompei (che ho solo in ebook!).
Ma torniamo ai miei scaffali, dove le opere prima menzionate ci restano poco, perché non passa settimana che almeno una di queste – come già ho detto – non giaccia aperta sul mio tavolo da lavoro: ciò perché se devo preparare una lezione o una conferenza, scrivere un articolo o semplicemente chiarirmi un dubbio di “storia sociale” dell’antica Roma è da loro che comincio, senza se e senza ma. E proprio di recente, confezionando il materiale accessorio per un webinar sul rapporto tra genitori e figli nel mondo romano mi sono reso conto non solo di quanto quei libri dicevano a me, ma anche quanto – in modo più o meno esplicito – essi avessero condizionato gli altri studi che andavo parallelamente consultando.
Insomma, tutti quanti noi che ci occupiamo di Roma antica “non possiamo non dirci veyniani”! Anche perché, ribadisco, l’eclettismo e la non dogmaticità del metodo di questo storico possono soddisfare tutti i vari orientamenti dei suoi lettori.

Trimalchione, tra fantasia e realtà

Non è certo questa la sede per ricordare la carriera di Paul Veyne, uomo del Midi (era infatti nato ad Aix en Provence, l’antica Aquae Sextiae) ma a lungo professore nel prestigiosissimo Collège de France di Parigi. Né lo è per provare a riprendere le fila di quei titoli che ho sopra citato: davvero troppi e troppo densi perché mi cimenti nell’impresa. Mi soffermerò invece su uno solo di questi, oggi compreso nella Società romana ma edito per la prima volta nel 1961, nientemeno che negli Annales. Histories, Sciences Sociales: si tratta del celeberrimo studio sulla Vita di Trimalchione, relativo al liberto arricchito menzionato nel Satyricon di Petronio.
Tutte le volte che lo rileggo lo trovo straordinario, pur nel suo discutibile impianto metodologico; o, forse, proprio per questo! Infatti Veyne traccia mirabilmente una biografia del nostro personaggio come se fosse veramente esistito, analizzando la sua ascesa sociale da schiavo a imprenditore con il rigore dello storico, la profondità di un sociologo, ma nel contempo la piacevolezza di un romanziere: in alcuni tratti pare di scorgere addirittura l’eco delle pagine di Balzac o Zola.
Nel suo saggio sembra così che il “realismo” di Petronio si trasformi in “realtà”, in una prodigiosa sintesi tra letteratura e storia. Ripeto, forse oggi – in tempi di conformismo ideologico (e metodologico) – più d’uno storcerebbe il naso davanti a questa commistione; e probabilmente nessuno studioso assennato si azzarderebbe a una tale operazione, temendo le reprimenda della comunità scientifica o ancor peggio un giudizio negativo in qualche sessione di abilitazione alla docenza universitaria.
Ma Veyne aveva scritto, nel suo I Greci hanno creduto ai loro miti?, che sì, essi vi avevano creduto, anche perché «la verità è figlia dell’immaginazione costituente della nostra tribù»: perché allora non credere anche che anche la vita di Trimalchione – uomo divenuto nei secoli un paradigma del parvenu – sia una verità a cui credere? Paul Veyne ci ha creduto (o ci ha fatto credere di averlo creduto… scusate il gioco di parole) e la nostra «tribù» di antichisti lo ringrazia per questo coraggio, che ci consente ora di leggere le sue gustose pagine. E lo ringrazia anche per la sua capacità di rendere attuale l’antico senza stravolgerlo, attraverso interessanti comparazioni tra l’ieri e l’oggi.
Nei suoi lavori, come ha scritto Andrea Giardina (in una sua recensione a L’impero greco-romano), «evocazioni dell’impero ottomano, dell’impero cinese, dell’Italia trecentesca, della corte di Versailles, di Napoleone, di Stalin, di Hitler e del nazismo, della Francia di Vichy, della Romania di Ceausescu, della Cambogia di Sihanouk, della Corea di Kim Jung, degli Stati Uniti e tante altre ancora, si susseguono inaspettate e hanno a volte un effetto folgorante».
Non davvero so se ci sarà, a breve, qualche altro storico antico cui potremo “perdonare” quest’uso immaginoso della propria immensa cultura, frutto di quell’humus contradditorio eppure incredibilmente fecondo che solo il secolo breve ha saputo offrire. E frutto anche – e con queste immagini mi piace chiudere – di una lunga (anche se assai travagliata) esistenza iniziata con l’ammirazione puerile dei monumenti romani di Nîmes e terminata in un paese alle falde di quello spettacolare Mont Ventoux noto ai più per la faticosa “gita” di Petrarca allora residente ad Avignone.
Gli sia lieve la terra

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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