La sua è comunque una vecchiaia rispettata, come si conviene al contesto di una civiltà arcaica; la sua saggezza, però, in un mondo di eroi muscolosi e vanesi, risulta spesso un po’ anacronistica. Così scrive infatti di lui Giulio Guidorizzi, in un recente libro che ho già recensito su queste colonne:
Nestore è vecchio: ha già visto due generazioni di uomini e ora regna sulla terza nella sua Pilo. Conosce cose che i giovani non sanno ed è la memoria vivente di tutte le consuetudini più antiche. Il privilegio degli anziani è questo: detenere il diritto consuetudinario. Nestore è l’unico anziano dell’esercito, circondato da uno stuolo di figli e nipoti, eppure si mostra ancora in battaglia sul suo carro per dare l’esempio ai giovani, sebbene non sappia più scagliare una lancia. È vecchio, vecchio è il suo auriga, vecchi e lenti anche i cavalli: è l’immagine di una vecchiaia totale, senza rimedio. Tutto quello che lo riguarda antico, ed egli coltiva accoratamente la sua immagine di uomo sopravvissuto ai tempi, come un albero che è sopravvissuto all’incendio di una collina e si leva isolato sulle pendici brulle. (G. Guidorizzi, Io Agamennone. Gli eroi di Omero, Einaudi, Torino 2016, p. 65).
La coppa di Nestore: mito e archeologia
Nestore è uno dei pochi tra i “grandi” vincitori della guerra troiana a tornare sano e salvo nel suo palazzo, come ci dice l’Odissea: e non è forse un caso che l’etimologia più probabile del suo nome sia connessa al verbo neomai (“ritornare”), a indicare “colui che fa tornare felicemente il suo esercito”. E di lui sappiamo davvero molte cose, tanto che la sua memoria non è stata troppo inferiore a quella dei più giovani Atridi, del Pelide Achille o dell’astuto Odisseo.
Sì, sappiamo ad esempio che il vecchio amava il lusso, e che non si separava mai da una splendida coppa che portò con sé a Troia, così mirabilmente descritta da Omero:
Poi una coppa bellissima, che il vecchio portò da casa, / sparsa di borchie d’oro; i manici / erano quattro; e due colombe intorno a ciascuno, d’oro beccavano; / sotto v’era due piedi; un altro della tavola l’avrebbe mossa a stento / quand’era piena; ma Nestore la sollevava senza fatica (Iliade, XI, vv. 632-639, trad. R. Calzecchi Onesti).
La “coppa di Nestore” divenne dunque una sorta di espressione proverbiale, per indicare un oggetto raffinato e regale. Tanto proverbiale che una modestissima tazza di ceramica trovata a Ischia riporta una scritta, databile forse alla fine dell’VIII sec. a.C., che dice:
La coppa di Nestore [era] certo piacevole a bersi; ma chi beve da questa coppa, subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona.
Non sappiamo se questa sia o no la più antica testimonianza scritta della lingua greca, come qualcuno afferma. Sappiamo però che in quell’epoca (appena successiva alla redazione definitiva dell’Iliade e dell’Odissea) Nestore era già un eroe conosciuto, tanto conosciuto da poterci scherzare sopra: bere buon vino in quella piccola ciotola, magari in un banchetto tra amici e con belle musiche di sottofondo – sembrano dirci i coloni magnogreci di Pithecussa (Ischia) – farà immaginare i convitati di essere degli eroi omerici, dei “Nestori”, ma anche degli “Achilli” o degli “Atridi” ecc. Tra l’altro il vino di quelle parti (ne ho assaggiato qualche bottiglia…) è davvero buonissimo, e non stento a credere che abbia suscitato quel tipo di fantasie.
- Il vecchio Nestore e i suoi figli intenti in un sacrificio. Vaso attico.
- La cosiddetta “Coppa di Nestore” trovata a Ischia.
- Pilo, Palazzo di Nestore, la moderna tensostruttura.
- Palazzo di Nestore, l’area del megaron del re.
- Palazzo di Nestore, l’area destinata alla regina.
- Palazzo di Nestore, il grande focolare.
- Palazzo di Nestore, giare che contenevano provviste alimentari.
- Palazzo di Nestore, ipotetica ricostruzione.
- Copia di una tavoletta scritta in Lineare B.
- La vista dalla collina del Palazzo di Nestore.
Il palazzo di Nestore a Pilo
Ma la più interessante testimonianza legata alla memoria di Nestore è di sicuro un palazzo miceneo rinvenuto nel 1939 su una collina (Epano Englianos) a una quindicina di chilometri dalla moderna Pilo. Come poteva non essere allora il “palazzo di Nestore”? Sì, proprio quello dove Telemaco andò per sapere dal vecchio re notizie sul suo errabondo genitore.
L’ho visitato quest’estate (2016), appena riaperto dopo un lungo, costoso ed eccellente restauro, che ha portato alla sua copertura con una moderna tensostruttura, e alla creazione di camminamenti che consentono la visione dettagliata delle sue numerose stanze (oltre un centinaio).
Unica obiezione, da visitatore, riguarda una segnaletica inadeguata per quantità e qualità: forse – venendo in auto da Pilo – era meglio fare come Schliemann a Troia e Micene, e cioè farsi guidare dal testo di Omero! Comunque la parola magica Nestor e le poche espressioni di greco moderno che “mastico” ci hanno consentito di raggiungerlo, su indicazione di alcuni operai al lavoro lungo la strada: sì, loro sapevano bene dov’è ubicata la reggia del loro vecchio re!
Questo palazzo è il meglio conservato di tutti gli edifici reali micenei: meglio ancora di quello di Agamennone a Micene, dove invece – forse a ricordare il destino sciagurato della sua stirpe – giganteggiano le regali sepolture. In realtà quello di Nestore non è un solo palazzo, bensì una struttura “polifunzionale” tipica di quell’epoca, dove alla sala del trono (megaron) si affiancano sale d’attesa, archivi, magazzini, bagni, cantine: infatti non era solo la sede politico-militare del wanax, dei suoi compagni d’arme e dei suoi funzionari, ma anche il luogo dove si mettevano al sicuro le scorte alimentari di tutta la comunità sulla quale il re governava, come attestano le numerose giare qui reperite.
Più in particolare, gli archeologi hanno individuato a Pilo sia un megaron del re, vera e propria sala del trono, sia un megaron della regina. Entrambe le stanze recano traccia del grande focolare circolare, e intorno a quello che scaldava le riunioni del re e dei suoi fedelissimi dovevano sorgere quattro colonne decorate, che sostenevano il piano superiore. Nell’area destinata alla regina, inoltre, sono visibili una sala da toeletta e un bagno, con tanto di vasca.
Che dire, poi, delle numerose – oltre un migliaio – tavolette iscritte in lineare B trovate nel palazzo? Queste sono oggi ad Atene, ma loro copie sono visibili nel vicino Museo di Hora, a tre chilometri da Epano Eglianos; e – per chi le sa leggere… – suffragano col loro contenuto quanto è suggerito anche dalle evidenze archeologiche, cioè che il palazzo venne eretto intorno al 1300 a.C. per subire oltre un secolo dopo un devastante incendio: che poi ad appiccarlo siano stati davvero i Dori invasori, come da copione storico-mitico, questo è tutto da vedere.
Il crollo della civiltà micenea
Ma torniamo a Nestore. Le date che l’archeologia ci propone sono pienamente compatibili con la tradizionale cronologia della guerra di Troia ipotizzata da Eratostene, secondo il quale l’inganno del cavallo sarebbe stato del 1184 a.C.; e se ciò non vuol dire certo che Nestore e i suoi compagni siano realmente esistiti, corrobora però l’idea che le loro gesta narrate da Omero si basino sulla tradizione orale di vicende con qualche fondamento storico.
Ma per chi – come me – è immerso da anni nel mondo classico, Nestore è davvero esistito, poco importa se anche nella storia o solo nella letteratura. E dunque mi piace pensare al nostro vecchissimo re ancora in sella quando, dopo anni di guerre in Oriente, dopo il lutto per la morte di alcuni dei suoi numerosi figli, dopo essersi comunque goduto il ritorno nel suo palazzo e l’affetto della moglie Anassibia, scorse dall’alto della collina di Epano Englianos giungere un’orda di nemici invasori attraverso quegli splendidi ulivi che ancora adesso si vedono. Non penso abbia avuto la forza di resistere loro, ma forse avrà avuto voglia di bersi un ultimo sorso di vino nella sua splendida coppa dorata. Avrà brindato coi suoi alla fine di un’epoca, quella micenea, quella degli eroi, della quale era stato degno protagonista; e avrà pensato che – forse – non era così male andarsene prima che si affermasse la nuova epoca degli uomini; quegli uomini ai quali prima o poi sarebbe toccato lavorare, faticare e addirittura prendere un salario, cosa che il suo amico Achille giudicava aberrante più di ogni altra.
No, no davvero, un’epoca dove avrebbe dovuto bere in una tazza di terracotta del diametro di dieci centimetri (come quella di Ischia) non faceva per lui; chi era stato a Troia e, ancor prima, aveva navigato con gli Argonauti e combattuto contro i centauri, non poteva che prendere la sua pesante, eroica coppa, ritirarsi nel suo lussuoso, eroico megaron e dire – anticipando il Mazzarò di Verga – “roba mia, vientene con me!”.
Tutt’intorno, il fuoco nemico diventava sempre più caldo e avvolgente, fino a che anche la psyché (l’anima) del vecchio eroe abbandonò il suo corpo per trasferirsi nell’Ade, luogo buio e inaccessibile, dove già da tempo dimoravano i pallidi fantasmi di eroi morti ben più giovani di lui: tra gli altri Patroclo, ucciso poco più che ragazzo, Achille, il “campione” degli Achei, e perfino l’Atride Agamennone, nobile “signore di uomini” caduto sotto gli ignobili colpi di mannaia della moglie Clitemnestra e del suo amante.