Piccola premessa: è di pochi giorni fa l’allarme dei 600 docenti universitari per gli studenti che “scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente” (ossia parlano male). Stupisce che la lettera affidi il compito di arginare le derive linguistiche dei più giovani a un’azione governativa, immaginiamo articolata secondo il solito metodo dei corsi di aggiornamento (e infatti l’appello già plaude ad “alcune importanti iniziative” in tal senso), sconforta che l’allarme non sia invece occasione di riflessione estesa non soltanto al mondo della scuola. Per consolarmi e consolarci proverò a proporre una buona lettura, nell’ipotesi che non sia del tutto estranea al tema.
Ne La letteratura al tempo di Adriano Olivetti (Edizioni di Comunità, Roma 2016), Giuseppe Lupo prova a tracciare il profilo complesso e irrisolto dell’ingegnere visionario dai piccoli occhi celesti e a raccontare il suo sogno di un capitalismo umano in parte realizzato nella bella fabbrica del Canavese e nella sua gemella di Pozzuoli.
La lettura mi pare utile per chi voglia guidare gli studenti dell’ultimo anno a una conoscenza della storia e della cultura italiane in una stagione generalmente trascurata dai programmi scolastici, che però si presta particolarmente a un approccio integrato e multidisciplinare che coinvolga la letteratura, l’arte (l’architettura), la storia, la storia economica e la filosofia.
La nascita di un capitalismo umano
Alla preistoria dell’utopia olivettiana troviamo innanzitutto le suggestioni di alcuni pensatori del cosiddetto cattolicesimo dell’inquietudine: Maritain, Mounier e l’amatissima Simone Weil, edita per la prima volta in Italia proprio dalle olivettiane Edizioni di Comunità. La scrittrice che da insegnante di liceo si fece operaia d’industria meccanica e scrisse un «diario nero» che, secondo Ottiero Ottieri diceva «la verità sulle fabbriche», proprio in Condizione operaia (tradotta da Franco Fortini, altro collaboratore di Olivetti, nel 1952), esprime la sua distanza dai teorici della politica che non avevano mai messo piede in un’officina: «Vedo la politica come una lugubre buffonata. In quanto rivolta contro l’ingiustizia sociale l’idea rivoluzionaria è buona e sana. In quanto rivolta contro l’infelicità essenziale inerente alla condizione propria dei lavoratori, è una menzogna: perché nessuna rivoluzione potrà abolire quella infelicità. Ma una tale menzogna è quella che ha la massima presa perché quella infelicità essenziale è avvertita più vivamente, più profondamente, più dolorosamente dell’ingiustizia stessa» (p. 223).
Giuseppe Lupo prova a tracciare il profilo complesso e irrisolto dell’ingegnere visionario e a raccontare il suo sogno di un capitalismo umano in parte realizzato nella fabbrica del Canavese e a Pozzuoli.È forse proprio a quella «infelicità essenziale» che guarda Adriano Olivetti, quando al pensiero politico ed economico lega l’immaginario architettonico e urbanistico di Le Corbusier e Wright. La fabbrica cessa d’essere solo luogo di produzione (e alienazione) e diventa «intrico di strade, edifici, giardini, disposti come un organismo armonico intorno al capannone industriale», circondato da biblioteche, auditorium, asili, dispensari sanitari, attrezzature sportive – una città ideale in cui sia possibile declinare il sogno di una “civitas hominum” secondo una visione paritaria, almeno nei principi, che consenta la disponibilità condivisa di ciò che è bello e non distingua i quartieri secondo la classe sociale.
La fabbrica cessa d’essere solo luogo di produzione (e alienazione) e diventa intrico di strade, edifici, giardini, disposti come un organismo armonico intorno al capannone industriale.Se la fabbrica di vetro progettata dagli architetti Luigi Figini e Gino Pollini è degli anni Trenta, è sul finire degli anni Quaranta che le riflessioni si animano di particolare urgenza: la guerra ha segnato un confine netto, si decreta la fine della cultura consolatoria a vantaggio della cultura liberatoria e la piccola Ivrea diventa il centro di un piano politico, economico e sociale alternativo tanto al capitalismo occidentale, quanto all’economia sovietica: a testimoniare, almeno nell’intento, che una terza via può esistere, è stata pensata, collaudata, offerta a un paese che poi, secondo alcuni, non ha saputo o voluto capire.
Olivetti e gli intellettuali
Per comprendere la radicale novità dell’ingegnere di Ivrea occorre osservare l’evoluzione dell’impresa olivettiana: da marchio aziendale a realtà politica, a fucina editoriale (grazie alle Edizioni e alla rivista Comunità), a ricerca urbanistica. Se per qualche decennio Ivrea fu percepita come la piccola Atene del Canavese, ciò si deve a un progetto a cui furono invitati a collaborare con mansioni differenti intellettuali e scrittori come Franco Fortini, Ottiero Ottieri, Geno Pampaloni, Leonardo Sinisgalli, Giorgio Soavi, Paolo Volponi e molti altri: «chierici organici alla fabbrica» (li definisce Lupo nel capitolo intitolato, non a caso, Geografia e storia della letteratura olivettiana), chiamati a prestare il proprio talento in diversi settori, dalla comunicazione pubblicitaria all’organizzazione aziendale, dall’impegno presso le Edizioni di Comunità, all’omonima rivista.
Non si tratterebbe di un unicum nella storia delle relazioni tra intellettuali e aziende italiane (Sinisgalli aveva già collaborato con Pirelli, Attilio Bertolucci con l’ENI di Mattei), se non fosse per il differente «grado di partecipazione al processo aziendale». La particolarità olivettiana consiste infatti nell’idea di coinvolgere una serie di competenze extratecniche nel processo di progettazione e gestione delle attività produttive».
Per comprendere la radicale novità dell’ingegnere di Ivrea occorre osservare l’evoluzione dell’impresa olivettiana: da marchio aziendale a realtà politica, a fucina editoriale, a ricerca urbanistica.Il poeta e lo scrittore non intervengono esclusivamente per le loro competenze specifiche, ma, dalle pagine della rivista Comunità, si occupano di sociologia, politica, economia, comunicazione pubblicitaria, e prestano alla progettazione e alla promozione del prodotto e alla concezione degli spazi la consulenza del loro gusto estetico. Olivetti intuisce e ripropone qualcosa che in fondo appartiene al nostro migliore passato umanistico e rinascimentale, ossia l’idea che talento, scrittura e creatività in genere possano offrire la chiave per interpretare il presente e per immaginare il futuro.
Raccontare la fabbrica: Ottieri e gli altri
Le pagine dedicate alla letteratura sono certamente le più interessanti del saggio di Lupo (vi si coglie l’analisi dello studioso ma anche la passione dello scrittore che egli è). Colpisce in particolare che le testimonianze indelebili di quel tempo appartengano più alla saggistica (tramite appunto la rivista Comunità), alla memorialistica, alla poesia, e meno alla narrativa che pure dedicò a Olivetti e alla sua fabbrica un’attenzione viva ancora in tempi recenti (qui il riferimento va a L’estate alla fine del secolo, di Fabio Geda, e alla graphic novel Adriano Olivetti, di Marco Perotti e Riccardo Cecchetti).
Uno dei più attivi collaboratori di Olivetti fu Ottiero Ottieri, l’intellettuale che nel 1948 passò la sua “linea gotica”, migrando da Roma a Milano, proprio per conoscere e documentare le condizioni di vita, lavoro e consapevolezza politica della classe operaia (La linea gotica è appunto il titolo del diario a cui affida la sua esperienza). A Ivrea Ottieri svolse la mansione di selezionatore del personale e, da quel punto di osservazione, prima di altri individuò il nodo dolente della narrazione di fabbrica: «Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso, non si entra e non si esce facilmente. Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione. A meno che non nascano degli operai e impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori come possono penetrare in un’industria? I pochi che ci lavorano diventano muti per ragioni di tempo, di opportunità ecc… gli altri non ne capiscono niente: possono farvi brevi ricognizioni, inchieste, ma l’arte non nasce dall’inchiesta, ma dall’assimilazione (cit. a p. 128, poi approfondita nel capitolo Luci e ombre, pp. 128-132)
Uno dei più attivi collaboratori di Olivetti fu Ottieri, l’intellettuale che migrò da Roma a Milano proprio per conoscere e documentare le condizioni di vita, lavoro e consapevolezza politica della classe operaia.Ottieri tenterà di superare l’empasse nel suo romanzo più noto, Donnarumma all’assalto, affidando però il racconto a un narratore psicologo, come l’autore impegnato nella scientifica e scrupolosa selezione del personale operaio da impiegare in una nuova e modernissima fabbrica vicino a Napoli (che certo figura lo stabilimento di Pozzuoli del 1955).
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta la fabbrica sembra essere il tema per eccellenza, lo snodo su cui si misura il ruolo che l’intellettuale intende assumere in una società ormai proiettata verso il modello capitalistico; in altre parole il tema è nell’aria e nel 1958 anche Italo Calvino paga il dazio, con il racconto La nuvola di smog. Ma a uno scrittore tanto interessato alla realtà in movimento non sfuggono i limiti della tendenza: quello che egli definisce “kafkismo sociologico” (la fabbrica come labirinto o come costruzione assurda, indecifrabile non meno del Castello dell’autore boemo), ma anche l’involontaria adesione al cliché della tristezza operaia. Con queste parole Calvino aveva commentato il precedente Tempi stretti, nel quale Ottieri tentava di rappresentare la realtà industriale milanese: «Che gli operai siano anche gente allegra e le fabbriche siano anche una via di libertà non si vede. Si vede che Giovanni (l’industriale) auspica per la sua azienda uno sviluppo tecnico, anche se questo costerà, ecc, ma tutto molto tristemente. Tristezza vera certo, ma appunto perché questo è documentario, non ancora poesia, che sola potrà scoprire – chissà come mai – l’allegria delle fabbriche» (Calvino, lettera a Ottiero Ottieri del 1956, cit. alle pp. 146-147).
Olivetti muore nel febbraio del 1960, lasciando molti intellettuali orfani della bella utopia non ancora compiuta. Sinisgalli (già capo dell’ufficio Tecnico di Pubblicità Olivetti) definirà la morte di Adriano «una sciagura tanto quanto la morte di Kennedy». Il tributo postumo non cancella però le grandi contraddizioni percepite da molti scrittori che furono della partita olivettiana e tuttavia (o proprio per questo) sperimentarono l’ambiguità della propria posizione: vuoi perché non seppero appunto rassegnarsi all’irriducibile distanza che separa chi osserva e racconta dall’operaio che invece vive la realtà produttiva nella propria carne, vuoi per l’imbarazzo (se non addirittura la colpa) d’esser integrati a un sistema che, anche quando mostra il suo volto amichevole, non perde di vista la sua missione essenziale, che è e resta produrre e vendere.
Calvino e Olivetti
Come si è visto, quello di Calvino è un nome che ricorre a più riprese nell’analisi di Giuseppe Lupo: si può dire che egli rintracci nei suoi scritti (come in quelli di Vittorini) una sorta di controcanto.
Se uno dei vantaggi di un buon libro e richiamare altri libri, all’opera di Lupo io devo la scoperta del diario autobiografico Un eremita a Parigi (pubblicato postumo da Einaudi nel 1995). Nelle pagine che riguardano il suo viaggio americano del 1959-60, Calvino racconta la recentissima acquisizione olivettiana del marchio statunitense Underwood, che consentirà all’azienda una produzione in loco non più gravata da dazi doganali. Il viaggio è però anche l’occasione per confrontare la concezione aziendale dell’ingegnere piemontese con la IBM. Il passaggio è davvero divertente e, non fosse per la lunghezza, meriterebbe d’essere riportato per intero il racconto dei preparativi per l’anniversario del presidente della multinazionale, Mr. Watson (l’uomo che nella scala gerarchica aziendale è rappresentato immediatamente sotto a God!).
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta la fabbrica sembra essere il tema per eccellenza, lo snodo su cui si misura il ruolo che l’intellettuale intende assumere in una società ormai proiettata verso il modello capitalistico.Non sfugge a Calvino, novello Marco Polo nel suo appassionante viaggio tra le “città visibili” al di là dell’Oceano, una certa “debolezza di pensiero”, in particolare in certe province americane dove (già allora?) albergano generosità e buona fede, ma anche una scala di valori relativi, inghiottita dalla mediocrità che certo non apparteneva alla bella Ivrea: «Il pensiero naturalmente corre ad Olivetti e qui c’è continuamente modo di controllare l’origine e la funzione delle sue idee in un paese in cui non sono uno strano fungo, ma esperienze nate empiricamente in certe zone di “capitalismo illuminato”. Si può dire che Olivetti ha più classe dei suoi maestri, e in genere può disporre meglio di quanto l’Italia offre in quanto a collaboratori, mentre qui le iniziative culturali paternalistiche operano su un livello molto più provinciale, dato che l’industria culturale centralizzata di New York assorbe i più abili e li corrompe in un altro modo».
Chiudo così, con la speranza di aver lasciato a chi legge il desiderio di saperne di più e anche un pizzico di nostalgia, quella che provo quando mi chiedo se debba essere soltanto un sogno un mondo che provi a tenere insieme la modernità industriale e la promozione delle arti e del pensiero, il profitto d’impresa e l’idea di un benessere condiviso.
Ai 600 (che comunque ringrazio per aver evidenziato un’urgenza comune) vorrei dire infatti che chi parla male certo pensa male, ma forse una parte del problema risiede fuori dalle aule scolastiche, in quel legame tradito tra memoria e modernità, tra economia e società: fuori dalle aule (nostre e vostre), non sembra esserci tanto spazio per la bellezza e per il pensiero. Anche per questo la lingua balbetta e, per dirla con Calvino, la classe si perde.