Mi pare che su queste materie, in rapida evoluzione, ci sia una forte e giusta spinta a non restare al palo (anche per il terrore di cadere vittime del digital divide). Allo stesso tempo però si dovrebbe saper conciliare tempestività e prudenza, intesa questa non già come un pigro conservatorismo, ma come la capacità di discernere i momenti e i modi appropriati. Perciò prima di prendere decisioni di sistema, sarebbe importante vagliare con grande cura le prime esperienze nell’utilizzo delle nuove tecnologie, che in molti casi riportano l’esistenza di oggettive difficoltà incontrate sul campo (eccone un esempio). L’esperienza, infatti, se ben ascoltata, può dare indicazioni preziose. Essa però non è tutto, e deve essere affiancata da una riflessione approfondita, capace di smascherare i pregiudizi e di orientare a osservare cose che altrimenti si finisce col sottovalutare o fraintendere nel loro significato. In questo senso, vorrei presentare di seguito almeno alcune idee del libro di Roberto Casati, Contro il colonialismo digitale il quale mi pare un must per chi si dedica ai temi del rinnovamento della didattica e alle questioni sul senso dell’educazione oggi.
Gli slogan e le parole d’ordine che si usano come chiavi per ottenere facili consensi dovrebbero essere posti al vaglio e soppesate attentamente dalla comunità e, soprattutto, da chi prende decisioni di portata collettiva. Si rischia altrimenti di essere vittime dei pregiudizi. Uno di questi slogan è: «la scuola deve adattarsi allo sviluppo della società» (p. 96). Casati, in Italia una delle menti pensanti più originali e aperte alle novità anche in ambito tecnologico, non è pronto a lasciarsi facilmente piegare da questo principio, usato da alcuni come carota e da altri come bastone. Egli perciò, oppone a esso, a mo’ di esempio, un’alternativa: «Magari la scuola deve invece aiutare la società a capire se una certa traiettoria del suo sviluppo sia ineluttabile. Forse la vera forza della scuola, prima che nelle capacità di adattarsi (un tipo di rincorsa), sta nel creare delle zone di tranquillità da cui guardare allo sviluppo della società in tutta calma» (ivi). Può sembrare una soluzione poco chiara e comunque scioccante, conservatorista, persino luddista, eppure a me pare davvero realista e d’avanguardia. Casati infatti è realista: la legge, di cui non va fiero e che chiama «Legge di Casati», recita: «i processori nei computer che si trovano in qualsiasi momento in una scuola data a disposizione di insegnanti e studenti hanno sempre meno della metà della velocità e potenza di calcolo di quelli che si trovano in commerciò nello stesso momento, e in particolare di quelli che si trovano in possesso degli studenti e delle loro famiglie» (p. 92). A me essa non pare inverosimile. Ad ogni modo essa cerca di dire che se la scuola dovesse, per sentirsi all’altezza, inseguire lo standard dell’informatizzazione della società in cui essa è inserita, combatterebbe una battaglia persa in partenza. La scuola non può restare al passo e, sostiene l’autore, in realtà nemmeno dovrebbe porsi un tale fine. La scuola deve piuttosto ripensarsi, perché è vero che il suo ruolo è mutato in maniera importante: essa non è più il luogo in cui primariamente si acquisiscono informazioni. In effetti per questo la rete ormai ha raggiunto un solido vantaggio: «Le informazioni sono disponibili in misura assai maggiori al di fuori della scuola, nella Rete: da questo punto di vista la scuola non può competere con la Rete» (p. 96). Quella di Casati è, mi sembra, una proposta d’avanguardia, intanto perché tiene conto del grande cambiamento appena spiegato. Su tale base egli cerca di ridefinire il ruolo della scuola come «spazio protetto» in cui gli studenti possano riappropriarsi della lettura e della riflessione: pratiche di civiltà, di alto profilo formativo, per le quali serve tempo e attenzione. Nella cultura della multimedialità pervasiva, si crede che i così detti nativi digitali (categoria sociologica che Casati mette in dubbio con argomenti di peso) abbiano poteri speciali e siano capaci del così detto multitasking. In realtà, nemmeno loro (ammesso e non concesso, ripeto, che esistano) sono capaci di compilare la dichiarazione dei redditi, mentre recitano L’infinito di Leopardi e disegnano una natura morta (p. 69). La coscienza insomma è capace di processare un numero limitato di informazioni e perciò sovraccaricarla di troppi compiti cognitivi non porta a reali vantaggi nell’apprendimento, anzi lo rallenta. Quello che spesso si fa, quando si usa la tecnologia, in realtà non è tanto multitasking, quanto piuttosto task switching, definito felicemente da Casati come un parente prossimo dello zapping. La scuola non dovrebbe correre dietro pratiche cognitive che, se non sono nocive, sono comunque qualcosa che esige investimento e sforzo, senza favorire quella pratica di direzionamento dell’attenzione che invece sarebbe preferibile. L’accesso all’informazione, infatti, nota acutamente l’autore, non coincide affatto con l’accesso alla conoscenza (p. 63): per capire il teorema di Pitagora serve tempo, concentrazione, riflessione. La scuola oggi ha il vantaggio di preservare uno spazio protetto dalle distrazioni che la società tecnologica offre, sempre di più. La tecnologia infatti tende a frazionare il tempo dell’attenzione, introducendo distrazioni continue, coi suoi messaggi istantanei, le sue notifiche push e le tentazioni che offre. Lo slogan di Casati è allora: «il design ha cercato per decenni soluzioni per attirare l’attenzione. É giunto il momento di cercare soluzioni che la proteggano» (p. 72). Egli offre parecchie proposte, che qui purtroppo non posso ripercorrere e discutere, ma soprattutto egli indica come guardare a queste cose.
Urge che si cerchino soluzioni creative per affrancarci dal mito che la scuola abbia come priorità il fatto di stare al passo con la tecnologia. In genere, dobbiamo imparare a rialzare lo sguardo, ora troppo spesso catturato dai gadget tecnologici, verso il quesito sui fini dell’educazione, solo allora sapremo riabbassarlo verso i mezzi, cercando in essi un ausilio effettivo, servendoci di essi e non servendoli.