Il paradosso della donazione #2

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La settimana scorsa, con Derrida, abbiamo visto scomparire il dono: a donar per niente non si dona davvero e a donar per qualcosa non si compie un gesto di totale gratuità, quale un atto di donazione dovrebbe essere. Sembra dunque che non ci siano doni. Poiché ogni magia di scomparsa si conclude davvero quando l’oggetto riappare sulla scena, proverò qui a chiudere il numero di Derrida.

 

Nella letteratura sul dono (p.e. J.T. Godbout, A. Caillé) si insiste, contro Derrida e per certi aspetti contro il senso comune, che il dono è interessato e anzi è interessato a molti fattori contemporaneamente: al destinatario, al suo bene, al legame favorito o addirittura istituito dal dono. Il donatario è interessato alla propria reputazione e talvolta, ebbene sì, al proprio tornaconto. Sostenere perciò che il dono è disinteressato sarebbe irrealistico e, ultimamente, falso. Il gesto di donazione effettivo deve tenere conto dei fattori menzionati che perciò si esprimono nel gesto finale e spesso vengono effettivamente apprezzati in quanto tali dal donatario. Del resto, la prassi ordinaria mostra azioni di donazione svolte per qualche interesse. Non c’è dubbio perciò che si dona per qualche motivo. Il vero quesito è se il darsi di motivazioni, anche di interesse personale da parte del donatario, sia di per sé sufficiente per far dire che allora non si tratta effettivamente di un dono. Bisogna, insomma, incamminarsi per uno dei due corni del dilemma di Derrida, per mostrare che le conclusioni che tira il filosofo francese sono errate.

Vi è un caso in cui l’accusa che il dono sia ipocrita si applica senza appello: quello in cui esso avvenga unicamente per ragioni di tornaconto e non vi sia nel gesto di donazione alcuna tensione etica al bene dell’altro. In tal caso si avrebbe un atto sociale, detto sì «dono», ma solo per somiglianza di famiglia col caso ordinario. I teorici del dono parlano, in questo caso, di «dono avvelenato»: il gesto sembra un dono autentico, ma l’intenzionalità del donante, la sua vera motivazione, è insincera, è altra da ciò che appare. Tenendo il caso ordinario in primo piano e sullo sfondo il dono avvelenato si nota la peculiarità del primo. Nell’atto di donazione ordinario il darsi di ragioni interessate si accompagna al desiderio di bene per l’altro. Ecco allora che il dilemma di Derrida si scioglie e ricompare sulla scena il dono.

La difficoltà di molti teorici del dono di condurre fuori dal paradosso sulla donazione dipende da una debolezza teorica circa il che cosa sia il dono. Ovviamente, una definizione non vale l’altra e fornirne una che sia poi capace di reggere una teoria non aporetica non è facile. Ci ha provato, ad esempio, J.T. Godbout, uno dei più importanti autori che si sono occupati del problema. Nel suo Quanti doni? (in Il codice del dono. Verità e gratuità nelle ontologie del novecento) egli esamina alcune definizioni. Per esempio, riprendendo il dizionario francese Petit Robert, il dono sarebbe «Ciò che si abbandona a qualcuno senza ricevere da lui niente in contraccambio». Forse Derrida è stato influenzato dal dizionario francese quando ha elaborato la sua teoria. Ma sulla base di quanto abbiamo visto, si tratta di una definizione che non dà conto delle cose. Secondo un’altra definizione discussa da Godbout e riferita agli economisti, «Il dono è semplicemente un trasferimento che non è oggetto di un contratto». Il problema, con questa definizione, è che essa fornisce una descrizione degli eventi cieca al lato intenzionale del gesto, lato che però è essenziale per comprendere davvero ciò che avviene.

Insomma, abbiamo fatto un progresso: il dono è ricomparso sulla scena, ma è difficile capire davvero cosa abbiamo davanti. La prossima settimana sarà dunque il caso di mettere a fuoco questa nozione, per poterci mettere in salvo da un ritorno della magia dissolvente di Derrida.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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