Il paradosso del dibattito

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Ci sono molti modi di intendere il dibattito, e quello in cui l’obiettivo è distruggere l’avversario non è l’unico. Ma anche se non scorre il sangue, bisogna comunque tenere in considerazione alcuni accorgimenti perché dibattere serva a qualcosa. Vediamo quali.
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Mark Rothko, Number 16, 1961.

È sempre molto alto il pericolo che in un dibattito la discussione scivoli sul personale, si adottino argomenti ad hominem e, in una escalation irrefrenabile, ci si infili nel vicolo cieco che va delle reciproche recriminazioni fino alle maligne critiche ad personam. Il dibattito viene infatti spesso vissuto come un conflitto, condotto con le armi della parola, in cui si deve difendere le proprie tesi, distruggendo l’avversario. La delegittimazione di colui che sostiene una posizione diversa dalla propria è una tecnica antica per spazzare via dal campo quella che si pone come una voce del dissenso. Se il dibattito è una contesa all’ultimo sangue nell’arena pubblica ove, come gladiatori, si adotta il “mors tua vita mea”, allora le tecniche per l’eliminazione della controparte sono necessarie e più sono radicali e definitive, meglio è.
Questo non è però l’unico modo di intendere il dibattito, e ovviamente non è quello eticamente più alto.

Nelle pratiche didattiche formative oggi sempre più apprezzate e diffuse anche nel mondo della scuola italiana si cerca di applicare un’idea di dibattito molto diversa da quella appena delineata, e forse più in linea con l’etimo stesso del termine. È vero che il battere è un atto che comporta forza, energia, ma non necessariamente esso implica anche violenza. Il valore intensivo della particella “di” poi esprime l’ulteriore vigore di una azione che di per sé è finalizzata al far emergere qualcosa di importante. Nelle “antiche” pratiche contadine, ad esempio, la trebbiatura consisteva nel battere: i contadini battevano ripetutamente e insieme i covoni di cereale mietuto per ottenerne i chicchi. Tra di loro non v’era contrapposizione, semmai cooperazione, e l’esito era prezioso. Nella vendemmia, poi, si pigiavano a piedi nudi i chicchi d’uva per trarne il mosto: ancora una volta il battere ripetuto portava a qualcosa che tutti desideravano e che realizzavano cooperando.

Il problema è che nel dibattere spesso ci si identifica con la tesi che si difende, e perciò ci si sente minacciati dalla tesi altrui. Perciò, per autodifesa, si adotta uno stile aggressivo o si accetta di rispondere aggressivamente a quelle che si avvertono come le offese dalla controparte.
Una via per neutralizzare questo genere di problema è, innanzitutto, la presa di coscienza dell’esistenza del paradosso del dibattito: per riuscire a focalizzarsi sulla discussione bisogna curare molto la relazione. Nel dibattito, infatti, si distinguono due momenti: quello della relazione, il rapporto con l’interlocutore che ha i suoi diritti e che merita rispetto, e quello del contenuto, che è il vero motivo per cui si dibatte. Più lo scambio degenera, più ci si focalizza sulla contrapposizione personale, più il momento del contenuto va perso.
Perché ciò non avvenga, bisogna fattivamente non perdere di vista il momento della relazione, che va curato appropriatamente. Vi sono infatti almeno due pericoli.
Il primo è che, appunto, non si curi abbastanza il momento relazionale. Ne seguirebbe, come si è visto, uno scadimento del dibattito in una lotta senza esclusione di colpi. Qui si vede che la cortesia è una risorsa preziosa, capace di togliere al confronto l’elemento del contrasto personale.
Il secondo è che, per non rischiare di compromettere la relazionale, si rinunci a dire cose che si pensa possano risultare ostiche all’interlocutore. Un tale “buonismo” imbelle finisce però col portare a una rinuncia di fatto a dibattere, perché il sostenere davvero la propria posizione può comportare – e di solito comporta – che si difenda ciò che all’altro non piace. Detto altrimenti, se nel dibattere si rinuncia al battere, lo scambio si smorza e la discussione smette di interessare.
Ogni buon dialettico sa trovare il giusto equilibrio, non rinunciando al contrasto tra le idee, mentre evita accuratamente la contrapposizione personale, che decreterebbe la fine del dibattito. Già Aristotele ha messo in campo la soluzione in seguito codificata nel motto caro ai filosofi: «amicus Plato, sed magis amica veritas» (Etica nicomachea, I, 4, 1096 a 16; ma si veda già il Fedone, 91c), che non va però inteso come la giustificazione del sacrificio dell’amicizia in nome della verità, ma come un esercizio di riorientamento del discorso verso il suo vero contenuto.

Dunque il paradosso del dibattito nasce dalla dimenticanza che a dibattere non sono le idee, ma le persone e che, perché il dibattito sia aperto e proficuo, le persone devono fare un passo indietro, imparare a non identificarsi con le idee che sostengono. Coloro che scendono in campo e che danno vita al dibattito devono comprendere che cooperando con l’interlocutore possono battere e ribattere e, in un modo imprevisto e nuovo, combattere, cioè battere insieme l’argomento per trarre alla luce, da esso, nuovo nutrimento, nuove intuizioni, suggestioni, argomentazioni, tesi, idee da dibattere ancora insieme.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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