Giulio Cesare, ormai “padrone del mondo” dopo avere sconfitto Pompeo a Farsalo (48 a.C.), tra il 48 e il 47 a.C. intervenne in Egitto, dove da tempo vi era una complessa lotta per il potere tra i vari figli – legittimi e no – del defunto faraone Tolomeo XII Aulete, grande amico dei Romani. Il Dictator non ebbe dubbi a spalleggiare la principessa Cleopatra VII, della quale sarebbe divenuto quasi subito amante, anche perché era difficile restare indifferenti al fascino di una donna così colta, intelligente e sensuale. Una donna la cui conversazione aveva un fascino irresistibile, e da un lato il suo aspetto, dall’altro il suo temperamento… erano come un pungiglione penetrante (Plutarco, Vita di Antonio, 27). Doveva dunque essere una femme fatale – a detta delle fonti antiche – anche se dai lineamenti non troppo regolari a causa di un vistoso naso aquilino, ben attestato dalle monete che la ritraggono. Ma forse era proprio quel naso “importante” che fece perdere la testa al nostro Cesare, e d’altronde fu il filosofo Blaise Pascal a scrivere che se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata.
O forse più che il naso di Cleopatra poté presso Cesare l’idea di diventare – per il tramite della sua amante – il primo romano a governare davvero l’Egitto: magari con il futuro aiuto di Tolomeo Cesarione, il figlio che egli concepì con l’affascinante regina. Regina che Cesare non ebbe pudore di portare anche a Roma, ospitandola in una delle sue ville, dove ella visse con piccolo Cesarione (e con il marito-fratello Tolomeo) fino alle famigerate Idi di marzo del 44 a.C.
Sappiamo tutti del periodo convulso che seguì al cesaricidio, caratterizzato dal precario accordo (secondo triumvirato, del 43 a.C.) tra Ottaviano, giovane figlio adottivo di Cesare, Antonio, magister equitum (primo ufficiale, in buona sostanza) di Cesare stesso, e Lepido, l’ultimo triumviro. Certamente la sete di potere e la voglia di essere riconosciuti come eredi politici del Divo Giulio portò abbastanza presto Ottaviano e Antonio ai ferri corti, anche se il fragile accordo resse per una decina d’anni. Chi lo ruppe del tutto fu – e chi se no? – Cleopatra, anzi il naso di Cleopatra, del quale Antonio (anch’egli ben “nasuto” secondo la ritrattistica…) si invaghì a tal punto da dimenticarsi della moglie Ottavia (peraltro sorella di Ottaviano), e – si può ben dire – a tal punto da dimenticarsi della sua stessa Roma! Infatti ormai egli viveva in Egitto more uxorio con la regina amata, dalla quale avrà tre figli, esibendo pubblicamente uno stile di vita lussuoso degno di un faraone e non certo di un civis romanus. Ma attenzione: Antonio non era – come qualcuno ha voluto insinuare – il succube zimbello di Cleopatra, bensì un politico spregiudicato che cercava di interpretare un ruolo complesso e innovativo, nel quale si fondessero la gloria e l’autorità di un imperator romano con i fasti e il personalismo quasi teocratico di un principe ellenistico.
Ottaviano, ormai furibondo con l’ex alleato, scoprì inoltre che Antonio aveva redatto un testamento nel quale avrebbe donato a Cleopatra molti territori orientali che appartenevano allo Stato romano: questo era davvero troppo! Va bene la relazione extraconiugale (anche il Divino Cesare, in fondo…), va bene il lusso, va bene la megalomania, ma “regalare” come se fossero gioielli o mazzi di fiori i dominii del popolo romano, no, questo non si poteva fare! Il giovane figlio adottivo di Cesare, dunque, mosse guerra ai due amanti e li sconfisse nel 31 a.C. ad Azio: e al suicidio di Antonio, di spada, farà seguito quello ben più complesso della regina egiziana. Ma lasciamo la parola ad Orazio, che nell’Ode I, 37 (trad. L. Canali) celebra la vittoria del futuro Augusto su Cleopatra, omettendo a bella posta ogni accenno ad Antonio.
Ora si beva; ora con libero piede
si batta la terra. Questo
era il momento di ornare, o amici, il letto degli dei
con vivande degne dei Salii!
Atto nefando era finora estrarre il cecubo
dalle celle degli avi, mentre una regina
forsennata apprestava rovine
e morte al Campidoglio e all’impero
con il suo gregge contagiato d’uomini
turpi di vizio, ebbra
nella fortuna prospera a tutto sperare
con cuore sfrenato. Ma spense
la sua follia la sola nave sfuggita all’incendio,
e le ridusse al pauroso vero
l’animo stravolto dal vino
mareotico Cesare a volo dall’Italia
a incalzarla con le navi (quale avvoltoio
le tenere colombe o un veloce
cacciatore la lepre sui campi nevosi
d’Emonia) per mettere in catene
quel mostro fatale. Ma ella, volendo morire
più nobilmente, non temette, pur
donna, la spada, né con veloce nave
cercò rifugio fra celate rive,
osando anche visitare con volto sereno
la reggia vinta, e impavida tenere crudeli
serpenti fra le mani per imbevere
iI suo corpo di tetri veleni,
ancora più fiera dopo aver deciso la morte,
certo sdegnando d’esser tratta, lei,
donna regale, come una qualsiasi,
dalle impietose navi liburniche in superbo trionfo.
Vorrei ora soffermarmi un po’ sull’accenno oraziano ai crudeli serpenti, poiché ritengo che il suicidio della regina con il serpente velenoso, di cui ci parlano le fonti antiche e cui allude anche Orazio, debba essere preso in seria considerazione e non relegato a un episodio folkloristico. Si tratta – come scrive la storica Francesca Cenerini – di un suicidio rituale: il serpente ureo, infatti, era sacro al dio Sole Amon Ra ed era l’emblema del faraone.
Il morso del serpente – animale simbolo, al pari del coccodrillo della forza vitale, della vittoria sull’inerzia della morte – garantiva pertanto a Cleopatra una “morte non morte”, rendendo il suicidio un vero e proprio rito, nel quale il corpo perdeva vigore, ma l’anima già divina della regina ne acquisiva di nuovo, ed eterno: più che una sconfitta, siamo pertanto davanti a una sorta di apoteosi. Il rito consentiva così di non interrompere la sacra catena della discendenza dei sovrani egizi, per cui, attraverso il ritorno del sovrano morto al padre Sole Amon Ra, il trono d’Egitto era destinato a un nuovo faraone che fosse – al pari dei suoi predecessori – epifania terrena della divinità solare, presente e regnante.
Tutto questo inguaiò maledettamente Ottaviano e Roma, che non poterono amministrare l’Egitto come una normale provincia; il princeps dovette dunque dichiararlo suo possesso privato, non disdegnando di assumere nella ritrattistica locale le fattezze di un faraone, suggerendo così al popolo egizio l’idea che avesse in qualche modo accettato la successione della regina assunta al cielo. In fondo Cleopatra, pur sconfitta, aveva vinto, perché aveva messo il naso negli affari politico-diplomatici del futuro Augusto, che l’avrebbe invece volentieri mostrata ancor viva in catene nel trionfo celebrato a Roma per la vittoria aziaca. Ma aveva vinto anche perché il gusto per la moda egittizzante, il collezionismo di arte egiziana, come pure la religione praticata nella terra dei faraoni presero piede un po’ in tutto impero, come è ben documentato in una bella mostra aperta al Chiostro del Bramante di Roma, dal titolo Cleopatra. Roma e l’incantesimo dell’Egitto e curata da Giovanni Gentili.
Infatti l’esposizione, che per forse ironia della sorte (ma io credo invece per scelta consapevole…) è contemporanea a quella su Augusto alle Scuderie del Quirinale, non solo ci dà ottimi esempi dell’iconografia (invero rara) della regina, ma anche di quella egittomania romana di cui si è detto.
Tra i molti capolavori esposti segnalo in primis alcuni ritratti di Cleopatra, tra i quali quello cosiddetto “Nahman”, mostrato in Italia per la prima volta, il cui naso, però, è andato distrutto nel corso dei secoli. Ma c’è un altro ritratto in mostra che mi ha colpito non poco, e cioè quello di Ottavia, sposa di Marco Antonio e sorella di Augusto, “rilavorato” come se fosse Cleopatra: e se non mancano nel mondo antico casi di ritratti “rilavorati”, questo è carico di particolari suggestioni emotive. C’è infatti chi pensa che la legittima uxor sia giunta in Oriente a trovare il marito, e qui sia stata ritratta in marmo greco; ma che quel ritratto abbia poi, per così dire, seguito la stessa sorte del “cuore” di Antonio e sia stato riadattato da maestranze egiziane alle fattezze della nuova amante. E io mi chiedo se sia meglio classificarlo come un caso di “pitoccheria” locale nell’uso del marmo, oppure se dietro questa rielaborazione ci sia stata un precisa richiesta di Antonio, che in questo caso avrebbe avuto bisogno di uno psicanalista: ma il dottor Freud, allora, era ben di là da venire!
Sono poi esposti monili, camei, mummie, monete (quelle dove si vede il prominente naso della regina…), come pure ritratti degli altri protagonisti del periodo, come Cesare, Antonio e Ottaviano. E a proposito di Ottaviano, vi è uno straordinario bassorilievo egizio in arenaria dove Augusto è raffigurato come faraone che fa sacrifici a Thot: senza dubbio, come si anticipava, una conseguenza obbligata del raffinato suicidio rituale della regina… Povero Augusto! Proprio lui che aveva – per il tramite di Mecenate – spinto Orazio a rappresentare quel mondo egiziano e orientale da lui sconfitto come viziato da follia e ubriachezza, dovette pure – dopo quello di eroico guerriero, pacato senatore, pensoso pontefice massimo – travestire i panni di faraone: che si deve fare, eh, per fondare e reggere un impero! Un impero che forse se il naso di Cleopatra fosse stato più corto avrebbe avuto un destino diverso; anche se più che il naso, varrebbe la pena di ricordare l’audacia e il “cervello” di una regina che, da sola, condizionò per quasi vent’anni le sorti di Roma. E che ha condizionato, nel corso dei secoli, anche l’immaginario collettivo della nostra civiltà occidentale: infatti la Cleopatra di Shakespeare non è meno vera di quella di quella originale, e così anche quella che Liz Taylor impersonò nell’omonimo film del 1963. Il serpente – potremmo concludere – ha svolto davvero egregiamente il suo servizio, perché Cleopatra, anche nelle sue innumerevoli repliche, è stata infatti in ogni tempo sempre più viva ed affascinante. Da personaggio storico, insomma, è diventata un mito.