Lo scorso 24 maggio molte città hanno presentato varie iniziative per ricordare lo scoppio della Prima guerra mondiale. Ne scelgo una, perché mi incuriosisce il titolo Adele Pergher – Profuga, ma senza particolari aspettative. L’ambiente è molto bello, una sala di Palazzo Leoni Montanari di Vicenza, parte delle Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo. Vedo che è in corso una mostra dal titolo La Grande Guerra. I luoghi e l’arte feriti, ci dovrò tornare.
Lo spettacolo nasce dall’incontro dell’attrice e regista Elda Olivieri con le idee e le ricerche di Raffaella Calgaro, insegnante di italiano e storia all’ITT Chilesotti di Thiene. In un percorso creativo inverso, prima nasce lo spettacolo, poi il romanzo di Raffaella Calgaro, Adele Pergher – Profuga. Una storia dimenticata, Archimedia – Fabio Coluccelli Editore, 2015. Un bel libro, che avrebbe meritato una correzione di bozze in più.
Non è una donna realmente esistita Adele Pergher, ma rappresenta tutte le donne che sono state costrette a fuggire, il loro difficile incontro con luoghi diversi da quelli conosciuti, la loro forzata emancipazione.È la stessa autrice a introdurre la vicenda. Non è una donna realmente esistita Adele Pergher, ma rappresenta tutte le donne che sono state costrette a fuggire dall’Altopiano di Asiago durante la Strafexpedition, il loro difficile incontro con luoghi completamente diversi da quelli conosciuti, la loro forzata emancipazione e la coraggiosa evoluzione nel corso degli anni.
Il suggestivo accompagnamento musicale di Flaviano Braga alla fisarmonica e di Ernesto Ghezzi alle tastiere ci introduce alla storia, mentre scorrono lentamente su uno schermo i particolari di belle foto d’epoca dell’Archivio storico fotografico Bonomo di Asiago. Mi ritrovo così a seguire con partecipazione la storia di questa donna nell’intensa interpretazione di Elda Olivieri. Riscopro una pagina di storia che pure avevo incontrato nelle mie ricerche, ma su cui non mi ero soffermata: l’esodo dei profughi dal Veneto durante la Prima guerra mondiale.
Una spasmodica fuga verso la pianura caratterizzò i giorni che seguirono al 15 maggio 1916, senza organizzazione, né assistenza: un esodo di decine di migliaia di persone che ben presto si trasformò in un fiume in piena. Qualcuno cercò di sistemarsi nella campagna vicentina, altri furono costretti ad andare in luoghi più lontani. Non sempre trovarono accoglienza e comprensione.
E poi, il nuovo sfollamento dopo Caporetto. A Venezia, mentre si intensificava lo sgombero delle opere d’arte ancora rimaste in città, cominciava il vero esodo della popolazione. Fra il novembre del 1917 e l’aprile del 1918 la popolazione veneziana passò all’incirca da 113.941 abitanti a 40.263. L’ondata dei profughi creò problemi nei luoghi di accentramento: la disponibilità di accoglienza a Rimini, Alessandria, Genova e Pesaro era inferiore al previsto. In un’Italia appena costituita, non era nemmeno facile capire la lingua di queste persone venute da altri paesi, altre regioni: stranieri in patria.
Avvennero durante notte scene miserande per affollamento nei rifugi. Donne vi partorirono altra vi impazzì. Ma chi erano i profughi, se gli uomini erano al fronte? Soprattutto donne, bambini, vecchi. Questa è la loro storia. Mi viene in mente un documento, trovato in un archivio romano e che ho citato in un mio libro. Nei ricordi del soprintendente ai monumenti di Venezia Max Ongaro, la notte fra il 26 e il 27 febbraio 1918 era tersa, primaverile, con una magnifica luna piena. Improvvisamente la quiete venne interrotta dai fischi delle sirene e dal crepitio della contraerea. Per otto ore Venezia fu colpita da un furioso bombardamento (“la notte delle otto ore”), la terra tremò come percossa da violente scosse di terremoto. Il 27 febbraio, una nota del prefetto riportò la situazione al Ministero dell’Interno:
Mezza città è senza acqua senza luce senza gas appunto per danni condutture. Fu raccolto cartellino lanciato nemico con stampato: Rappresaglia per Innsbruck. Stamane dimostrazioni percorrono città reclamando alte grida salvezza donne e bambini. Avvennero durante notte scene miserande per affollamento nei rifugi. Donne vi partorirono altra vi impazzì. […] Invoco urgenza parola che permetta calmare disperazione massa popolare con affidamento agevolazione allontanamento parziale.
Ricordo che, mentre lo leggevo, pensavo a quella donna resa folle dalla paura all’interno del rifugio. Saranno impazzite anche le donne costrette a scendere dalla montagna che non avevano mai abbandonato, unico luogo conosciuto, con i figli, i vecchi, gli animali? Anche Adele Pergher, pur nella sua lucidità, talvolta sembra delirare, e lo fa nella sua lingua madre, il cimbro, che la rende ancora più diversa dagli altri.
Il paesaggio di Adele si allontana, mentre la guerra si abbatte sull’altopiano.
Dopo il primo colpo di cannone tremendo, venuto dal cielo, i bombardamenti erano continuati su Asiago cancellando pascoli, case, strade. In breve tempo il paesaggio a lei familiare era scomparso davanti ai suoi occhi, come se niente fosse mai esistito, come se quel mondo fosse stato solo un sogno. (p. 17).
I contadini allontanati dalla loro terra erano come naufraghi. Nessuno piangeva, ma i loro occhi guardavano assenti. Era il convoglio del dolore. Anche Emilio Lussu, in Un anno sull’Altipiano, ricordava l’esodo:
La strada, ora, si faceva ingombra di profughi. Sull’Altipiano d’Asiago non era rimasta anima viva. La popolazione dei Sette Comuni si riversava sulla pianura, alla rinfusa, trascinando sui carri a buoi e sui muli, vecchi, donne e bambini, e quel poco di masserizie che aveva potuto salvare dalle case affrettatamente abbandonate al nemico. I contadini allontanati dalla loro terra erano come naufraghi. Nessuno piangeva, ma i loro occhi guardavano assenti. Era il convoglio del dolore. (Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano, Torino, Einaudi, 1945, pp. 10-11).
Naufraghi spaesati, sradicati dal loro territorio. La perdita dei luoghi noti, che sia per una guerra o una calamità naturale, causa un profondo senso di spaesamento in una comunità. Il ritorno può essere altrettanto traumatico. In una città distrutta, fra macerie e rovine, scompaiono i riferimenti familiari, le tracce del proprio passato e delle proprie tradizioni. La ricostruzione porta ulteriori cambiamenti e nuovi disagi. Le città ricostruite non assomigliano più a quelle conosciute, il senso del luogo è andato perduto.
Ernest Hemingway, in Italia come autista per l’American Red Cross, accorse sul luogo dello scoppio a Bollate e dedicò il racconto Piccola storia naturale: i morti alla drammatica esperienza. La storia scorre e Adele Pergher si ritrova a Milano, una città vera, molto diversa dalle sue montagne, dove nemmeno capiscono il suo modo di parlare. La chiamano “la montanara”, non sapendo che è esattamente il significato del suo cognome cimbro, di origine trentina, Pergher. Qui si dà da fare per mantenere i sei figli, mentre non sa più nulla del marito, emigrato negli Stati Uniti per fare fortuna. Inizia a lavorare in una fabbrica di munizioni, la Sutter & Thévenot di Castellazzo di Bollate. Ma il 7 giugno 1918, ed è una storia vera, una terribile esplosione nello stabilimento provoca numerose vittime fra le operaie, fra i 14 e i 30 anni. E così scopro che Ernest Hemingway, in Italia come autista per l’American Red Cross, accorse sul luogo dello scoppio e dopo la guerra dedicò un racconto alla drammatica esperienza (nella raccolta I quarantanove racconti, 1938), dal titolo Piccola storia naturale: i morti. Il titolo mi richiama alla mente la Storia naturale della distruzione di W.G. Sebald (Milano, Adelphi, 2004), anche in questo caso una storia “naturale”, ma dedicata alla rielaborazione della memoria dei bombardamenti alleati sulle città tedesche.
Il proprio paese è come un mantello caldo che si mette addosso. Tutta la storia di Adele viene rievocata sotto forma di ricordi, insieme coerenti e vaneggianti, della protagonista nella sala d’attesa della Prefettura di Milano, nel maggio 1919, per convincere il prefetto a concederle il trasferimento nel suo paese d’origine. Una serie di elementi simbolici accompagna l’evoluzione della protagonista: le sgalmare, gli zoccoli della povera gente, e le scarpe vere, dei più ricchi; i fazzoletti delle montanare e delle donne di campagna e i cappelli delle cittadine. Adele non è più la stessa donna di quando è partita: è una donna con una consapevolezza e una forza nuove. Ha studiato, sa parlare italiano, anche se forse non bene come i suoi figli; ora anche lei ha le scarpe e un cappellino. Ma vuole tornare, perché è quello il suo paese ed è lì che vuole ricominciare la sua nuova vita.
L’identificazione con un luogo contribuisce a creare il nostro senso di identità, risponde a un innato bisogno di sicurezza. Il noto architetto e teorico dell’architettura Christian Norberg-Schulz nei suoi vari saggi sull’argomento ci ricorda che il geroglifico egizio che rappresenta la “città” significa anche “madre”. Perché, come gli spiegò l’abitante di un piccolo borgo italiano, il proprio paese “è come un mantello caldo che si mette addosso”.